Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Gold in the Blue    05/02/2018    1 recensioni
Le vecchie fiamme di due lacerati ex-amanti si riaccendono quando i loro cammini si incrociano nuovamente, dopo quasi sei anni passati ad imparare come vivere l'uno senza l'altra.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eren Jaeger, Mikasa Ackerman, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction è stata tradotta con il permesso dell’autrice.
 

Chapter 1: We’re Not Just Dreaming Anymore

 
Il lume di candela tremola da molto, gettando ombre che rabbrividiscono assieme ad ogni silenzioso tremito della fiamma.
 
Fuori fa freddo. Il vento soffia, ululando, ricorda ciò che una volta era, ciò che ora dovrebbe essere. Eren tiene le mani all’altezza del volto, esaminando la linea a falce che si allarga sul suo palmo, incallito dagli anni passati a modellare blocchi di argilla dando loro una forma e a incidere statuette su superfici livellate. Chiude gli occhi, ricordando, ma provando così tanto a dimenticare. Ed è inutile, poiché la sua cicatrice trasporta i marchi permanenti di una vita, e a venticinque anni, ha vissuto abbastanza a lungo da esserne ricoperto. Dal palmo, alla guancia, al petto, alla coscia, alla caviglia: ricoperto.
 
C’è stato un tempo in cui la sua pelle era tonica e pura, intatta dai sintomi di una vita difficoltosa. Un tempo in cui i suoi capelli non erano così lunghi e le sue guance così ispide e sua madre era viva e i solchi tra le sue dita erano fatti esclusivamente per essere occupati da quelli della ragazza con cui era nato per stare insieme. E adesso tutto questo — andato. Con un respiro, la vita si gonfia e scaglia via tutto, lasciandosi dietro solo frammenti di ciò che una volta stava radicalmente e orgogliosamente in piedi. L’incudine del tempo è in grado di trasformare in polvere anche le montagne, sembra. Anche gli uomini.
 
Crescere lo ha lasciato spesso a domandarsi quando è cominciato ad andare tutto male. È stato quando ha perso lei? L’innocenza? La compassione? Cosa? È stato triste per così tanto da essere diventata la sua nuova neutralità, la sua nuova normalità, una sindrome dell’età adulta, uno stato confortevole. I suoi occhi — un assurdo misto di verde e oro e blu — sono ancora vivaci e intensi, ma una pellicola offuscata copre lo splendore incandescente che riflettevano un tempo. Ecco cosa accade agli sguardi una volta che hanno visto troppo. L’esperienza li fa diventare pesanti. Li fa diventare sporchi. Spenti.
 
La risata infantile che un tempo lo riempiva riecheggia nel suo passato, svanendo in quello stagnante ronzio che è il presente. Ricordandogli che un tempo, parecchio fa, le cose non erano sempre così. Un tempo andavano bene. Erano tollerabili. Ma la perdita ha il suo modo di consumare le cose, di cambiare tutto.
 
Ombre danzanti crescono per consumare le mura intorno a lui, velando la stanza nell’oscurità quando, con un sospiro, le dita bagnate schiacciano lo stoppino. Spegne la fiamma.
 
Proprio così.
 
È esattamente così che lei l’ha lasciato.
 
—o— 
 
La sua sciarpa svolazza nel vento. Mikasa la sistema più stretta attorno al collo, grugnendo.
 
Fuori fa freddo. Troppo freddo. Scruta giù per la strada, agitando in alto la mano guantata per gridare  “Taxi!”, quando  uno si accosta pochi metri più in là. Prova a correre per prenderlo, ma un uomo biondo con occhi di ghiaccio lo reclama più velocemente, tirando la maniglia dello sportello e scoccandole un rapido sguardo di indifferenza prima di infilarsi dentro.
 
“Stronzo,” spiffera sotto voce.
 
Dio, fa freddo qui fuori. Troppo freddo dannazione!
 
“Taxi!” chiama ancora, rabbrividendo. Le battono i denti. Impreca un altro po’. Dopo pochi disperati minuti, riesce finalmente a intrufolarsi in un taxi.
 
“Per dove, signorina?” chiede il conducente, scrutandola attraverso lo specchietto retrovisore. Ha gli occhi scuri e socchiusi, quasi maliziosi. Le viene in mente che sta per affidare la sua incolumità a quest’uomo, un completo sconosciuto. Chi dice che qualcosa non lo trattenga dall’agire secondo impulsi perversi e andare via dal margine della strada con lei ancora dentro? È buffo, come le cose funzionino  in questo modo, come le persone si scambino taciti accordi. Pagandola, una persona con sogni e speranze e capacità e obbiettivi, oltre a guidare un taxi, diventa un mero servizio che ti trasporta da un posto all’altro, uno strumento di cui servirsi in cambio di soldi. Persone che si servono di altre persone. È proprio così che funziona.
 
“Signorina?”
 
Gli occhi di lei guizzano all’indietro per focalizzare.
 
Attraverso lo specchietto, lo vede attenderla.
 
“Per dove?”
 
Il più lontano possibile da qui, è tentata di dire. Anche se le viene in mente — Perché? Perché vorrebbe dire una cosa del genere?
 
Scuote la testa.
 
Pronuncia l’indirizzo.
 
Il conducente fa un cenno col capo, e ben presto, il suo piede sta premendo il pedale del gas, le mani stanno girando il volante, e Mikasa è molto più lontana da casa.
 
Tiene fisso lo sguardo sul mondo che si muove al di fuori, le luci offuscate della città che le scorrono oltre gli occhi, illuminandole la faccia attraverso il vetro del finestrino. Distrattamente, la sua mano trova la sciarpa avvolta attorno al collo, le dita che pizzicano il tessuto, tastandolo, accarezzandolo.
 
Ricordando.
 
È così allettante, immergersi più profondamente nei suoi pensieri fino a che la consumino completamente, permettere a se stessa di divagare e sentire. Per una volta — solo una — di sentire qualcosa per davvero. Ma Mikasa è forte. Molto, molto più forte di così. Non c’è tempo per le fantasie, quello è già passato da tanto. Non è più una bambina. È una donna adesso. Una donna matura.
 
Il luccicante anello di fidanzamento sulla mano sinistra e il bacio forte, bagnato che il suo fidanzato le stampa sulla guancia ogni qualvolta la saluta glielo ricordano a sufficienza.
 
—o—
 
Muoversi. Deve muoversi.
 
Forse è il freddo nel suo appartamento o la quiete dello stare seduto fermo per così tante ore, ma i muscoli di Eren fanno male. Alzati, gli gridano. Alzati. Cammina. Muoviti. Vattene da qui.
 
Si alza, si ferma alla finestra, sbircia fuori.
 
I suoi occhi lo ingannano, poiché sostengono di vedere lei, ma lui sa che in realtà non è così. I capelli neri tirati su in una coda, che ondeggiano con ogni volteggio delle gambe, raggianti di riconoscimento. Ma poi la piccola testa si gira, mostrando un volto così estraneo da essere disgustoso. Ed Eren — come sempre — è deluso nell’apprendere la verità. Non è mai lei. Mai. I suoi occhi non hanno catturato l’autentica visione di lei da anni.
 
Cinque. Cinque anni interi, per l’esattezza.
 
È passato tanto di quel tempo dall’ultima volta che l’ha vista, l’ha stretta a sé, le ha passato le dita tra i capelli. L’ha baciata, l’ha amata, l’ha sentita sospirare il suo nome. L’ha sentita ansimarlo. E con il graduale salire e scendere dei loro petti, lui le apparteneva tanto quanto gli apparteneva il suo stesso nome. Era suo. Interamente suo.
 
Ed è questo il problema dell’appartenere alle persone. Non sai come appartenere a te stesso.
 
Perso, ha proceduto lentamente attraverso i trascorsi cinque anni come un fantasma che galleggia nel suo involucro, completamente disconnesso dal suo corpo. È stato suo per così tanto che prendere un respiro senza avere il sospiro di lei con cui sincronizzarsi diventò estraneo. Come possono i suoi polmoni funzionare senza respirare in armonia con quelli di lei? Come può il suo cuore battere senza avere il battito di lei a guidarlo? Come può vivere? Come? Come?
 
Come?
 
Non è che Eren si senta vivo, ma continua ad esistere.
 
Incredibile, cosa è diventato. Non è più un bambino, poiché la corta barba sulle guance e i suoi capelli lunghi e arruffati glielo ricordano a sufficienza. È un adulto ora. Un adulto maturo.
 
Un fallimento. Un grande fottuto fallimento.
 
Sospira, gettando lo sguardo fuori dalla finestra un’altra volta. Il vento è così forte da far sbattere le finestre, ma le sue ossa scricchiolano dal freddo e i suoi muscoli gridano per del movimento. Deve fare qualcosa. Deve muoversi.
 
Quindi, ben presto, un cappotto sta coprendo le sue spalle, le chiavi dell’appartamento e il portafoglio di pelle sono stati infilati nella tasca posteriore dei jeans, e la porta sta sbattendo dietro la sua uscita.
 
—o—
 
Mikasa è stanca.
 
Stanca di questo vestito. Stanca di questa festa. Stanca di queste persone. Stanca.
 
Il suo fidanzato sproloquia senza sosta accanto a lei, parlando di qualche tipo di sport che non le interessa particolarmente, con un braccio attorno alla sua vita e un sorriso sul volto, tenendola stretta a sé come se fosse il suo luccicante trofeo a grandezza naturale. La mette in mostra. Lui adora mettere in mostra i suoi trofei.
 
Mikasa annuisce e sorride, offrendo educati e piccoli gesti di attenzione e apprezzamento verso gli invitati, anche se la sua mente è da tempo diventata insensibile alla burocratica routine. Parlare, parlare, parlare. Apparire, apparire, apparire. Soldi, soldi, soldi. È tutto quello che interessa a queste persone.
 
Da quando era molto piccola, Mikasa ha sempre saputo di essere diversa. Era quella che il più delle persone chiamerebbe “distaccata” o, in altre parole, “sconnessa”. Persa nel suo piccolo mondo, usava la sua immaginazione per scappare dal dolore della realtà, per più a lungo di quanto possa ricordare. Ed è doloroso. Esistere è doloroso. Fingere di essere interessata alla metà del ciarpame che esce dalla bocca di queste persone — doloroso. Doloroso. Ugh.
 
I suoi occhi si posano sul paesaggio attraverso una finestra alta, voci smorzate attorno a lei che diminuiscono nel retro della sua mente. Fuori, i rami dell’albero si flettono e ondeggiano, mossi dall’aria sibilante dell’inverno. Lei trema, e desidera. Malgrado il freddo e il vento, quanto sarebbe bello stare fuori in questo momento? Sente come se appartenesse là fuori — più di quanto appartenga qui dentro, in ogni caso.
 
Si sta sistemando dietro l’orecchio un piccolo riccio che è sfuggito al suo elegante chignon quando il suo fidanzato nota che è distratta, gli occhi ancora incollati agli alberi inclinati, così le dà un altro umido bacio sulla guancia per catturare la sua attenzione.
 
Mikasa sobbalza, leggermente agitata.
 
“Che succede?” le chiede, un largo sorriso impresso sul volto. È come se la sua espressione facciale non corrispondesse mai alle parole che escono dalla sua bocca. Privo di qualsiasi segno di preoccupazione o timore, proferisce, “Stai bene?”
 
“Sì,” dice lei, riuscendo in un piccolo sorriso.
 
Lui le lancia uno sguardo di traverso, scrutandola. “Sicura?”
 
“Sì.”
 
“Hai sete?”
 
“No.”
 
“Vuoi che ti porti qualcosa?”
 
Mikasa sospira. Vuole sempre accontentarla. Lei, e gli occhi vigili che li guardano. Con un sorriso che sembra quasi di plastica, una delle signore in piedi nel cerchio attorno a loro la osserva dall’alto in basso, squadrandola, come sono solite fare alcune donne.
 
“Jean” sospira, districandogli il braccio da attorno alla sua vita. “Torno subito, okay? Ho bisogno di andare in bagno.”
 
Le fa un sorriso veloce, dice che va bene, e Mikasa si sta facendo strada tra l’ammasso di persone estranee prima che lui — o qualcun altro tra quelli che li circondano — possa dirle altro. Sente il soffocante bisogno di fuggire. Niente più persone, niente più parole. Niente più niente più niente più.
 
Prende la sua giacca, si sistema la sciarpa attorno al collo, avvolge la borsetta sopra la spalla, e scappa dalla porta sul retro, dando un’occhiata veloce dietro di lei.
 
Non pensa che qualcuno l’abbia vista andarsene. E non è come se a qualcuno di loro importi veramente che lei se ne vada. Non è come se qualcuno di loro sappia pronunciare il suo nome correttamente — o perfino ricordarlo, inoltre.
 
“Aspetta, come ti chiami? Mik... Mi.. come?”
 
“Mikasa.”
 
Ridono ogni volta. Come se il suo nome fosse una divertentissima battuta o cosa.
 
“Aspetta, come hai detto che si pronuncia?”
 
“Mi-kah-sah. Mikasa.”
 
“Oh, mio Dio!” si sbellicano. “È fantastico!”
 
Gesù. Tutto è fantastico. Come il fatto che è per metà giapponese, e il fatto che si chiama come una nave da guerra, e il fatto che tutti giurano che debba essere incinta per aver accettare di sposare Jean così presto.
 
Non lo ammetterà mai a se stessa, ma i loro commenti a volte la feriscono.
 
A volte.
 
Non appena fuori, vede uno degli invitati appoggiato contro il muro, costosi pantaloni sportivi e una camicia di seta sotto un cappotto nero. Gli rivolge un debole sorriso. Lui fa un lungo tiro dalla sigaretta. Rimangono in silenzio. Tutto è immobile.
 
E per un attimo lei appartiene.
 
Qui. Nel freddo. Accompagnata da un estraneo a cui ha affidato la sua incolumità. Perché potrebbe comportarsi in modo perverso se volesse. Potrebbe scrollarle la cenere della sigaretta sulla morbida superficie della sua pelle. Ma non lo fa. E lei sta in piedi, in compagnia, ma sperduta e tutta aggrovigliata dentro.
 
“Tutto okay?” le chiede improvvisamente, buttando fuori il fumo dal naso.
 
Mikasa annuisce educatamente, assicurandogli di stare bene.
 
“Congratulazioni,” le dice poi, e lei lo ringrazia nobilmente, forzando un altro sorriso, un altro piccolo inchino col capo — e Dio, a volte avere buone maniere fa male.
 
Sì, sì, sì, congratulazioni. Presto diventerà una moglie. Questa è la sua festa di fidanzamento. Quanto è emozionante? Quanto è fortunata?
 
Ma non appena si sta facendo strada giù per la via, la sciarpa che svolazza gentilmente nel vento, i piedi che lentamente percorrono un passo dopo l’altro, Mikasa lo deve ammettere:
 
Non si sente per niente fortunata.
 
—o—
 
Le spalle di Eren si innalzano contro l’aria gelida. Continua a camminare, non preoccupandosi di ripararsi dal freddo. Ha solo bisogno di camminare. Qualcosa dentro di lui riecheggia cammina, cammina, cammina. Cammina soltanto, Eren. Cammina.
 
Così lo fa.
 
Procede senza una meta, ficcando le mani nelle tasche ed espirando affannosamente dal naso. Il suo respiro si trasforma in nebbia davanti a lui, repentinamente spazzata via dal vento. C’è della musica fuori. Musica natalizia. I suoi occhi vagano rapidamente sulla strada, notando l’assenza della neve a decorare ogni cosa.
Si sta avvicinando un Natale senza neve. Quelli sono il peggio. Gli ricordano—
 
Ow!
 
“Hey!”
 
Accade tutto in un istante.
 
Lui sta cadendo in avanti, afferra qualcosa. Una donna. Sta cadendo anche lei.
 
Le mani di lui sono agitate, le circondano la vita, impedendole di farla rimbalzare proprio contro il suo petto dove ha sbattuto violentemente. Una delle sue mani si libera, e si regge in piedi grazie al muro più vicino su cui riesce ad atterrare per impedire ad entrambi di cadere per terra come dei burattini rotti.
 
Lui respira affannosamente. Ansimando. Lo fanno entrambi.
 
Poi si arrabbia.
 
Allontana la donna da lui, abbassando lo sguardo per darle una buona occhiata.
 
Guarda dove diavolo vai! Le parole sono proprio lì. Proprio lì, sulla punta della lingua. Ma improvvisamente, Eren non riesce a parlare o a respirare o a pensare perché... perché...
 
Perché improvvisamente, vede lei.
 
Lei.
 
Lo sta fissando, con gli occhi spalancati, le iridi profondi pozzi di inchiostro nero che lui conosce così bene, così dannatamente bene. La sua voce vacilla. Tutto di lui lo fa.
 
Ma poi la ragazza lo afferra, stringendogli il colletto freneticamente e spirando uno sconcertato, “Eren?
 
—o—
 
È lui.
 
Lui.
 
Questo è un sogno. Deve essere un sogno. Deve. Ma no. No, no, no non lo è. Eren sorride, i suoi occhi smeraldo luccicano mentre il suo viso si illumina, un tratto assonnato alla volta.
 
“Mikasa?” sussurra, meravigliato. Le sue mani afferrano le spalle di lei. “Oh mio... porca...” la voce di Eren è agitata, soffocata dall’eccitamento. “Cazzo. Porca... Porca vacca!
 
Mikasa ride. Eren è esterrefatto, schiaffeggiandosi una mano sulla fronte come se non potesse credere a quello che gli sta succedendo. La solleva gentilmente, attentamente, in modo da farla reggere in piedi. È così leggera tra le sue braccia, tanto tanto tanto leggera. Molto più leggera di quanto la ricordasse. Una creatura di porcellana, una bambola delicata. “Sei tu,” sussurra, come se, dandogli voce, la rendesse molto più reale. “Sei tu!”
 
“Sono—”
 
“Non posso—”
 
“È come—”
 
“Mikasa, io—”
 
Il modo in cui sta in piedi, composta ed elegante come sempre, è una chiara presentazione della ragazza che ricorda così vividamente. Eren non sta sognando. Lei è reale. La ragazza in piedi di fronte a lui — Mikasa Ackerman — è davvero lei!
 
Ma Mikasa non riesce a credere a nulla di quello che le sta succedendo. Qualcosa nella sua testa le dice che questo è solo un altro dei suoi sogni. Si è abituata ai sogni, sai com’è, abituata ai ricordi irreali di lui, ai bruschi risvegli che seguivano ogni volta. Non vuole più neanche svegliarsi quando li ha, quei perfetti sogni di lui. Quindi pensa, forse se faccio finta di niente, non mi sveglierò questa volta. Faccio finta di niente, e il sogno non finirà mai.
 
Ma poi Eren la lascia andare, e Mikasa si rende conto di essere ancora aggrappata alla sua camicia.
 
Aggrappata.
 
Alla sua camicia.
 
Aggrappata.
 
Un momento. Stringe il tessuto tra le sue dita. Pizzicandolo. Tastandolo. Accarezzandolo.
 
Ricordando.
 
I lineamenti del suo viso si sciolgono, gli occhi che si spalancano enormemente, tutti i colori le colano via dal volto fino a che non è gelidamente pallida. “E-E...” la sua voce è incrinata. “A-aspetta. Eren!?
 
Le labbra di lui si schiudono col medesimo stupore. Ansima, passandosi una mani tra i capelli, sentendosi estremamente imbarazzato. “Um.” Abbassa lo sguardo sulle mani di lei, che ancora lo stringono immobili. La sua voce è serena, dolce, così calma. “Sì. Sì, sono io. Eren.”
 
“Eren?” domanda ancora lei, spalancando gli occhi perfino di più.
 
“Uh-” ride lui. “Mikasa,” sta dicendo lentamente, premendosi le mani sul petto. “Sono io! Sono io, Mikasa. Sono Eren!”
 
Gli occhi di Mikasa sono due dischi giganti, il suo volto ghiacciato dallo shock. Eren percepisce una risatina passargli attraverso le labbra, che prende il volo in precise sfumature mai pronunciate da lui prima d’ora. Ha mai riso in questo modo? Si è mai sentito in questo modo? È mai stato dov’è ora, guardando ciò che sta guardando ora? Mikasa, la Mikasa dei suoi sogni, la Mikasa del suo passato, la sua Mikasa che gli appare come una fanciulla dai vestiti rossi ed chignon eleganti e guance rosate baciate dal freddo.
 
“Oh,” fa lei improvvisamente, tenendosi una mano su un lato del volto. Gli volta le spalle, cammina avanti e indietro ed Eren tiene gli occhi incollati su di lei, solo su di lei.
 
Sta gironzolando a vuoto quando Eren studia ciò che sta indossando. È un vestito cremisi, stretto attorno al busto. Le cade appena sopra le ginocchia, e il suo cappotto è grande e di lana e costoso. Anche i capelli sono tirati su in una piccola e ordinata sistemazione. Quasi non sembra nemmeno lei.
 
Poi gli occhi cadono a terra, attirati dal solido thck, thck, thck che segue ogni suo passo e... porca vacca, sta indossando dei tacchi?
 
All’improvviso, Mikasa si gira per fronteggiarlo, e il collo di Eren sobbalza letteralmente all’indietro alla sorprendente visione di lei. Ogni volta che la guarda è come se stesse posando gli occhi su di lei per la prima volta. “Eren,” pronuncia lentamente, assaporando ogni preziosa sillaba. “Che diavolo ci fai qui?”
 
“Beh, ci vivo. Ci ho vissuto per cinque anni. A Capodanno saranno sei.”
 
La voce di lei è persa in un sussurro. “Davvero?”
 
“Sì,” prende fiato, sorridendo. “Già, sono stato qui. Tu invece? Che fai qui?”
 
“Ero solo...” si ferma, sentendo il cuore batterle nel petto. Viva. Così piena di vita e viva e felice. Gonfia di entusiasmo, sospira, “Ero solo uscita a fare un giro. Sai, solo, dare un’occhiata? Vedi, sono nuova in città, e sono qui solo da, beh, non è così importante credo. Il punto è che, il mio fidanzato ha trovato un buon lavoro in centro, e prima viveva qui quindi—”
 
Gli occhi di Eren trasaliscono. “Aspetta, cosa?”
 
“Cosa?”
 
“Fidanzato?” ripete, odiando il modo in cui suona la sua voce. Così ansante. Così... sconcertata.
 
“Um.” Mikasa abbassa lo sguardo sulle sue mani. Stanno tremando. “Sì,” dice, riaggiustandosi la tracolla della borsa sulla spalla. “Già, mi sposo tra poche settimane.”
 
Eren apre la bocca. Non viene fuori neanche una parola.
 
Poche settimane?
 
Perché? Come? Come può il tempo essere misurato così precisamente? Come può qualcosa di così delicato essere compresso tra le mura soffocanti di poche settimane? Ma cosa è successo? Agli amanti che si rincontrano? Al tempo che si ferma per fare spazio al per sempre?
 
Sente il cuore affondargli nel petto. “È...” Strano. Doloroso. Incredibilmente devastante e appena... “Meraviglioso!”
 
“Davvero?”
 
No. “Certo!”
 
“Oh.”
 
“Congratulazioni, Mikasa!”
 
“Grazie,” sorride, abbassando lo sguardo. “Mi dicono tutti la stessa cosa. Pensano che sia splendido che mi stia sistemando ora. Sono molto felice.”
 
Lui restringe gli occhi, annuendo. Ma non può fare a meno di notare che le sue parole suonano in qualche modo costruite, come se se le fosse ripetute nella maniera in cui un attore prova troppo le battute e finisce per risultare monotono nella prestazione.
 
Non le crede veramente.
 
E anche una parte di lei lo sospetta.
 
“Già,” sogghigna, grattandosi la guancia ispida. “È meraviglioso, Mikasa. Davvero. Sono tanto contento per te.”
 
Ed è allora che Eren lo vede. La mano sinistra di lei arriva a toccare il tessuto avvolto attorno al collo e i suoi occhi catturano la notevole presenza di un grande anello di diamante attorno al suo dito lungo e sottile. Gesù. Solo guardare quel maledetto coso fa male. È così grande, così sfrontato. Così superfluo.
 
Ma poi... nota qualcos’altro. Ed è la sua sciarpa. La sua sciarpa, avvolta attorno al collo di lei, brillante e radiosa, come una decorazione. La sua sciarpa! Sul suo collo! La sta indossando!
 
Eren sorride compiaciuto.
 
Non può fare a meno di percepire, dal modo in cui si distingue così deliziosamente dal resto dei suoi indumenti, che in realtà non c’entra niente con il modo in cui è vestita. Come se non ci appartenesse. Ma è lì, perché è lei. Quella sciarpa è parte di lei tanto quanto lo sono i suoi arti — anche adesso, dopo tutto questo tempo!
 
Il sorrisetto compiaciuto di Eren si allarga.
 
La sciarpa è come un marchio, una dichiarazione. La sua bandiera conficcata nel terreno, innalzata con orgoglio e che rivendica la sua vittoria sul territorio, marcandolo come proprio.
 
“Stavo giusto andando a mangiare qualcosa,” gli dice, e parte di lei non sa neanche perché lo stia ammettendo. Potrebbe anche confessare la sua intera situazione. Potrebbe anche sparare, Hey, Eren. So che non ci vediamo da più di cinque anni e tutto ma dovresti sapere che sono fidanzata con quest’uomo meraviglioso i cui amici sono tutti coglioni che non riescono neanche a ricordare il mio nome o a pronunciarlo correttamente. A dire il vero, sto fuggendo dalla mia stessa festa di fidanzamento mentre parliamo! Non è fantastico? Ma lei non è così ingenua. Non è così ingenua da trattenersi con lui neanche un secondo di più. È pericoloso. È sbagliato. Dovrebbe salutarlo. Dovrebbe andarsene e correre il più lontano possibile da lui. Per via del loro passato. Perché sono entrambi ricchi, troppo ricchi, di crudi ricordi.
 
Ma non ci riesce.
 
Non riesce a farlo, a separarsi da lui, dai suoi capelli castani e dal suo viso ispido e dai suoi occhi raggianti e da quella fossetta sulla guancia che si forma per un attimo quando sorride. È incollata. Bloccata. Come un chiodo attratto da un magnete.
 
“Anche io,” mormora Eren, interrompendo sul nascere ogni sua ulteriore parola. “Ti va di venire con me? Conosco un ottimo posto a pochi isolati da qui.”
 
Mikasa schiude le labbra per opporsi, lagnosi allarmi scattano nella sua testa gridando pericolo, pericolo, pericolo! “Um, no. Io–”
 
“Oh, andiamo,” insiste, oscillando da un piede all’altro. “Non ci vediamo da così tanto! Andiamo, Mikasa, per favore? Qual è la cosa peggiore che potrebbe accadere?”
 
Lei resta in silenzio per un attimo.
 
Con esitazione, si guarda alle spalle, cercando silenziosamente una figura nel buio.
 
Non c’è nessuno dietro di lei.
 
Sospira. Certo che non c’è nessuno.
 
“Va bene,” pigola, ancora convinta di essere intrappolata dentro un sogno, che qualsiasi cosa stia succedendo deve essere finto, irreale, solo frutto della sua immaginazione. Ma non c’è niente di finto nel modo in cui gli occhi di Eren si illuminano, come se fossero stati travolti da fiamme intense. Lui le sorride. Raggiante.
 
E Mikasa gli sorride a sua volta. “Mi piacerebbe,” ridacchia, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. “Potresti anche farmi fare un giro mentre andiamo. Sono ancora nuova in questo posto, quindi potrei approfittare di tutto l’aiuto possibile?”
 
Eren praticamente implode di eccitazione. “Certo! Il tuo fidanzato non ti ha portata un po’ in giro?”
 
“No,” ansima, pensando a Jean, alla festa da cui sta scappando, alla ridicola ironia della sua vita. “È... un uomo impegnato.”
 
“Ah,” annuisce, “Credo sia una buona cosa che sia io a fare gli onori, allora.”
 
Mikasa alza gli occhi al cielo, ed Eren — semplicemente ride. Ride. Poco fa, era un uomo perso. Un uomo vagante. Un vagabondo. Adesso è ritrovato. È ritrovato. Rinvenuto.
 
Si trascina una mano tra i capelli, che gli cadono appena sulle spalle, terminando in ciuffi sottili. Sembra così diverso, così consumato. Aspro e austero. Travagliato. Anche così nuovo, così nuovo. È questo il modo in cui il sole deve sentirsi quando tocca di nuovo la terra ogni mattina. Come se ci fosse già stato prima, eppure ogni cosa è diversa. Reintrodotta.
 
Mikasa si morde il labbro.
 
Qualcosa dentro di lei urla svegliati, svegliati, svegliatisvegliatisvegliati!
 
Ma non sta più sognando. Questa volta, Eren è qui per davvero. E non è per niente — assolutamente per niente — come l’uomo che ha visto nei suoi sogni per così tanto. Perché le persone crescono e cambiano, e i segni che il passare del tempo ha ricamato sono diversi per entrambi.
 
Si stringe il cappotto attorno alla propria figura, il diamante dell’anello che brilla lievemente nella luce.
 
Eren cerca a tastoni il portafoglio nella tasca. Sente il battito nelle orecchie — thump, thump, thump, riecheggiando l’immagine di lei, la sensazione di lei, presente proprio lì di fronte a lui.
 
E i suoi occhi non hanno catturato l’autentica visione di lei da anni.
 
Ma adesso lo fanno. Adesso lo fanno.
 
Ed è quando Mikasa gli offre un altro dei suoi sorrisi, che Eren si sente l’uomo più fortunato sulla terra.
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice:
Grazie mille per aver letto! Assicuratevi di lasciarmi una recensione e/o scrivermi su Tumblr. Per favore fatemi sapere cosa ne pensate :)
 
Note della traduttrice:
Ladies and gentlemen, vi presento una delle migliori fanfiction che abbia mai letto e sono veramente contenta di aver avuto la possibilità di tradurla. Potete trovare l’autrice come Sayaanara su Tumblr e qui (http://archiveofourown.org/works/3208250/chapters/6978089) la fic originale. Se ve la cavate con l’inglese vi consiglio di andare a recuperare tutte le sue storie.
Ditemi i vostri pareri, cosa ne pensate e non esitate a segnalarmi errori (aiutate una povera traduttrice alle prime armi).
A presto!
 
  
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