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Autore: Dave1994    25/02/2018    3 recensioni
Nella guerra del Santo Graal sette Master, maghi scelti dalle abilità straordinarie, vengono selezionati e costretti ad affrontarsi in uno scontro all'ultimo sangue, dotati unicamente delle loro capacità e di uno Spirito Eroico evocato per affiancarli. Ma cosa accadrebbe se il Graal scegliesse di apparire in un mondo privo di magia e del tutto impreparato a questo rituale, scegliendo sette persone invece assolutamente normali e lusingate dalla promessa di un potere sconfinato?
Longfic che prende le regole e la struttura del Nasuverse impiantandole nel nostro mondo, dove la magia si è estinta da moltissimo tempo, proponendo una Guerra del Santo Graal fra persone comuni e slegate fra loro affiancando a ciascuna uno Spirito Eroico completamente originale.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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"SONO TUTTI MORTI QUAGGIÙ."

 

La scritta, di un rosso arterioso così intenso da accentuare quel soffocante senso di nausea annidato alla bocca del mio stomaco, mi si stagliava davanti quasi a voler esigere un riconoscimento della propria esistenza. Un altro brontolio e mi ritrovai nuovamente piegato a metà, la fronte quasi a contatto con il muro di fronte. Sentii qualcosa contrarsi in profondità e rimisi ancora: sancofiti, genchi, furleroni e murchine ed un altro paio di forme geometriche strane che dimenticai in fretta apparvero in dissolvenza nel mio campo visivo in un orgiastico caleidoscopio di colori allucinanti.

- Non sapevo cosa fare quando sei caduto – sentenziò una voce alla mia sinistra – per qualche secondo ho creduto che stessi per vomitarmi sulle scarpe. -

Mi ritrovai ad osservare con cinico distacco il contenuto del mio stomaco, riversato ora contro la parete. Maledii l'aver fatto il bis di gnocchi quella sera a tavola.

Accanto a me vigilava il mio buon amico Jake, complice suo malgrado di quella disastrosa uscita. Avvertii il peso incerto della sua mano sulla mia spalla, quasi fosse combattuto fra il desiderio di assistermi e quello di defilarsi prima dell'arrivo di Sara. Non avrei potuto biasimarlo, sarei morto piuttosto che farmi vedere in quello stato da lei.

Mi voltai verso di lui. Una lieve perplessità si disegnò sul volto del ragazzo.

- Vuoi che ti porti dell'acqua? -

- Non ancora. - risposi. Registrai con tristezza un maligno dolore alla base del cranio, un profondo e sordo ronzio che mi diede l'impressione di avere un alveare fra le orecchie. Lo potevo sentire pulsare, irradiarsi come increspature sull'acqua fin dietro gli occhi e un nuovo sommovimento mi scosse da capo a piedi spezzandomi il fiato. Stavolta bile incolore colò per terra.

- Ti porto a casa. -

- Non ancora. - ripetei con più fermezza che mi riuscì. Ordinai con veemenza alle mie gambe di rispondere ai comandi e quelle, seppur con fare indeciso, parvero reagire positivamente. Mi sorressi in piedi appoggiandomi a Jake e barcollando annaspai fino alla porta tagliafuoco che dava sul retro del locale, la maniglia in quel momento di un verde fin troppo sgargiante per i miei gusti. Sempre con un certo atteggiamento clinico donatomi dal momentaneo stato di ebbrezza mi accorsi di come la vista fosse passata ad incamerare fotogrammi anziché una visione continua di quel che mi circondava in una sorta di grottesca esposizione cianografica, diapositive sfocate che con fatica riuscii a ricondurre ad immagini concrete e reali. Quella che mi era sembrata essere una porta sarebbe potuta essere benissimo invece uno sbocco sul vicolo adiacente fiancheggiato poco prima, con ogni probabilità buio e impregnato di odori di urina e spazzatura abbandonata da troppo tempo.

- Dave... - suggerì timidamente Jake. Non feci troppo caso alle sue parole e presto me ne pentii: un dolore lancinante mi esplose al centro del volto e per un attimo persi ogni punto di riferimento in quella parodia di cognizione spaziale che mi ero creato con tanta fatica. Una sensazione di vuoto, poi la percezione del duro e freddo marciapiede premuto contro una guancia. Non sentii neppure l'impatto da tanto ero sbronzo.

Risi, un verso gutturale lacerato dall'ennesimo crampo al petto. Brividi freddi mi attraversarono e una nuova ondata di nausea si presentò con detestabile puntualità. Mi sentii come galleggiare e nell'oceano tetro e malsano della mia consapevolezza in quel momento notai Jake torreggiare su di me, intento a cercare di rimettermi più verticale che riusciva senza che capitolassi di nuovo. La luce stroboscopica dell'insegna al neon gli animava il viso di delicati mezzi toni nonostante l'oscurità del cielo color dell'ebano sopra di lui.

Non una stella brillava quella sera. Una gigantesca cappa nera come un pesante mantello pareva sovrastarci tutti e fui colto da un'ansia inspiegabile, quasi come se il mondo intero fosse in bilico sull'orlo di una gigantesca mensola cosmica, l'angosciosa sensazione di un orrendo pericoloso fisico in agguato. Tremai figurandomi un'ordalia di mondi da incubo dispersi nel vuoto infinito sopra le nostre teste, i pensieri rivolti a dimensioni colme di geometrie impossibili, aliene. Avvertii nuovamente punte di ghiaccio perforarmi la nuca e l'impressione di essere osservato in quel preciso momento mi pervase.

- Stavo per avvertirti, non mi hai nemmeno dato il tempo di metterti in guardia contro la colonna. Che hai fatto alla mano? - mi domandò Jake, sorreggendomi quasi in braccio mentre lo strimpellare delle casse audio all'interno del locale trapelava dalla porta sul retro.

- Jake, c'è qualcuno qui intorno? -

Il ragazzo volse lo sguardo attorno e torno a fissarmi scuotendo la testa. Non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione di essere spiato.

- Torniamocene a baita, vuoi? -

Tentennai. Non me ne sarei andato da lì prima di aver detto ciò che volevo a Sara e un'immagine sbiadita del suo volto mi comparve davanti agli occhi. Quella sera portava i capelli lunghi e castani raccolti in un'elaborata treccia che assieme agli occhiali le donava un'aria paurosamente erotica da professoressa sexy, o almeno così era per me. Difficilmente lo avrei ammesso davanti a Jake, non dopo tutte le tiritere che gli avevo fatto su quanto fossi saturo della relazione in corso da qualche anno fra me e lei.

- Dovresti metterci su qualcosa. Credo ti sia fatto un bel livido - disse apprensivo accennando ad un punto fuori dal mio confuso campo visivo. Facendo caso solo in quel momento alle sue precedenti parole sollevai un braccio e notai sul dorso della mia mano destra la comparsa di tre ordinate macchie rosse, somiglianti più a cicatrici di innesti sottopelle che a veri e propri lividi. Evidentemente poco prima di cadere avevo cercato di attutire l'impatto in qualche goffa maniere per quello che le mie condizioni permettevano.

Rimasi quasi ipnotizzato da quei segni, ora curiosamente più nitidi rispetto a qualche secondo prima. Subito la mia mente tornò indietro senza una particolare ragione a quei pomeriggi trascorsi davanti ad una tastiera ed uno schermo, intestardito dall'impulso di scrivere a qualsiasi costo qualcosa di sensazionale. Era stata una passione passeggera alla fin fine, un breve temporale estivo che ciò nonostante aveva lasciato in me negli anni a seguire una sensibilità tutta nuova con la quale il mondo mi si disvelava in forme prima sconosciute. Un carattere in particolare si impossessò della mia componendosi nella mia testa,

ɤ

 

al quale somigliava straordinariamente il tracciato presente sul dorso della mia mano con l'unica eccezione consistente nell'assenza dei tratti di collegamento fra le estremità superiori e la rotondità allungata presente nella parte bassa del simbolo, spostati invece alle terminazioni delle prime citate al punto da creare quasi una sorta di volto dall'espressione stupita. Mi resi conto dell'assurdità dei miei pensieri e scossi la testa nel tentativo di diradarli.

- Devo tornare là dentro, Jake. Non ci ho nemmeno provato. -

- Sul serio Dave, cagami e lascia perdere. Non sei nemmeno in condizioni di reggerti in piedi e non puoi certo... -

Tentai di divincolarmi dal suo improvvisato e spassionato abbraccio. Scorsi una pallida tinta di venerazione negli occhi di Jake, forse per l'attaccamento irrazionale che avevo nei confronti del mio intento quella sera e la determinazione che possedevo nel volerlo portare a compimento. Ero venuto in un locale che odiavo con l'obiettivo di incontrare una persona che detestavo profondamente per naturale istinto, rea di aver preso il mio posto accanto a quella invece per cui provavo un sentimento controverso, tendente dal nostalgico e sentimentale fino alla noia di chi si riscopre cucita addosso una routine monotona e deprimente, priva di alcuno stimolo. Pur di venire là mi ero ubriacato nella speranza di poter vincere l'inettudine sociale che sempre mi ha contraddistinto, in cerca delle parole che normalmente non sarei mai riuscito a dirle in faccia. Volevo Sara sapesse quanto la desideravo da una parte e anche quanto fossi stanco e svuotato di quella relazione stantia fatta dalle stesse cose di sempre, legate a doppio filo da insensati discorsi su un futuro assieme attornati di figli a soli vent'anni di età. Non sembrava nemmeno essersi disperata più di tanto; dopo qualche mese aveva già trovato un mio rimpiazzo, lo stesso che mi aveva sorriso con quella maledetta impronta di scherno poco prima. Provai il desiderio di colpirlo, fantasticando un po' troppo fervidamente a causa dell'elevato alcool presente nel sangue su quanto sarebbe stato bello togliergli quella smorfia dalla faccia.

- Lo voglio picchiare - farfugliai, anche se più tardi Jake mi avrebbe confessato che la mia frase era suonata più come un lofogliopischiare – dammi una mano ad alzarmi. -

daminamanodalzami

Cercai nuovamente di reggermi sulle mie gambe, poi sentii i piedi scivolare lungo la strada e persi definitivamente le speranze. Sentivo un bruciore irradiarsi dalla mano destra a tutte le articolazioni del braccio, una strana e rovente artrite improvvisa a cui non sapevo dare spiegazione; forse la botta che avevo preso poco prima era più grave di quanto avevo immaginato.

- Sì, poi ti porto a casa. -

Guardai Jake con vergogna e lo aiutai nell'ardua impresa di farmi rialzare. Una volta in piedi infilò la testa sotto la mia ascella destra e mi sorresse, accompagnando un suo movimento ad ognuno dei miei nella parvenza di una camminata quasi normale in direzione della strada. Non opposi resistenza, concludendo che ne avevo giù passate abbastanza per quella sera.

Percorremmo circa cinque metri quando sentii sbattere la porta tagliafuoco che avevo dolorosamente mancato poco prima. Passi risuonarono lungo il selciato alle nostre spalle e Jake si arrestò, voltandosi. Scorsi una sagoma femminile con la coda dell'occhio, poi cercai con lo sguardo Jake quasi a volere il suo consenso; ciò che potei vedere nel suo volto solitamente sagace e salace era niente. Sulla sua faccia ora rabbuiata c'era disegnato l'esito di quella conversazione. Per lui sembrava già essere accaduto.

- E' ubriaco. Probabilmente non sa neanche quello che fa. Lascialo in pace. - mormorò. Sara fece qualche passo in avanti e rise divertita.

- Sembrava avere così tanta premura di parlarmi prima, e ora... -

- Ora non più. Stiamo andando via. -

Senza darmi il tempo di replicare le diede le spalle. Cercai debolemente di oppormi ma più il tempo passava e più invisibili lame acuminate andavano trafiggendomi ovunque, da dietro gli occhi fino alla nuca. Il braccio destro era animato da un formicolio inquietante e le ossa delle dita mi bruciavano come insetti stecchi su tizzoni ardenti.

La ragazza mi osservò più attentamente.

- Continui a far combattere le tue battaglie agli altri? -

Aprii la bocca facendo per rispondere, senza però trovare parole da dire. Nonostante l'ebbrezza sapevo era stata tutta colpa mia, in un modo o nell'altro. Quel vuoto che a me aveva lasciato indifferente le aveva sbattuto in faccia una dura realtà di sogni che mai si sarebbero avverati, un sentimento che aveva visto appassire e morire dopo averlo coltivato per diverso tempo. La mia incapacità di provare amore l'aveva uccisa interiormente.

- Vergognati. Sparisci, esci dalla mia vita per sempre. - sentenziò sprezzante, la lunga treccia mollemente adagiata lungo la spalla. Mi faceva male la testa da morire e il bruciore si stava acuendo di minuto in minuto.

- Non ho bisogno di te

nonnobbissciognoddite

non ho bisogno di nessuno di voi – biascicai convulsamente, infine, mentre la giovane trasaliva tradendo delusione e disgusto - andatevene via. -

- Mi fai schifo. -

Sputò quella frase come fosse veleno. Mentre Jake più che sorreggermi mi trascinava quasi di peso fino alla macchina rimuginai su quelle parole spaventandomi della totale assenza di emozioni che provavo riascoltandole dentro la mia testa una volta, e poi ancora. Non me ne importava nulla.

L'interno della macchina di Jake mi accolse benevolmente, piacevolmente riscaldato e assai più morbido del duro marciapiede con cui avevo fatto purtroppo conoscenza poco prima.

- Vomita qua dentro e ti butto fuori con le mie mani. - bisbigliò distrattamente Jake mentre inseriva un CD dalle scritte incomprensibili tracciate in un inchiostro nerissimo sulla superficie nel lettore musicale. Vidi riflesso nello specchietto retrovisore il suo volto dalla carnagione scura, gli occhi verdi verso di me e indagatori alla ricerca di segni di nausea o svenimento. Con un cenno di assenso mi voltai per guardare fuori dal finestrino. La strada urbana era deserta, densa solo di piccioni assopiti e sacchetti di plastica abbandonati qua e là con noncuranza.

Un profondo senso di abbandono trasudava da quel quartiere e filosoficamente osservai anche dal mondo in generale. L'era delle conquiste tecnologiche e dell'interconnessione globale era probabilmente quella anche più priva d'anima di tutte, corrosa dalla solitudine e dallo sconforto di un mondo quasi alieno, dagli abitanti prigionieri di forme a priori artificiali e impostegli forzatamente dalla nascita.

La voce di Jake mi ridestò dai suoi pensieri vagabondi. Lo vidi sporgere un dito verso il parabrezza, puntato in lontananza nel cielo notturno senza stelle. Una luna rossa, enorme ogni oltri misura di paragone, si ergeva luccicante come una gigantesca moneta di rame illuminando di una luce sinistra ogni cosa sotto di lei e donando agli oggetti lungo la strada una seconda forma, più contorta, priva di qualsiasi ragione o logica. Quello che poteva sembrare un albero a vederlo bene si sarebbe potuto dire anche una mano rattrappita e scheletrica, rivolta stolidamente al cielo in un muto grido di dolore; lampioni divennero sagome alte e gobbe con un occhio solo, chine su marciapiedi ripidi come crepacci. Nuovamente un orrendo senso di presagio mi colse e una stilettata bruciante mi attraversò il braccio destro, facendomi temere di essermi rotto un osso. Avevo perso ormai la sensibilità della mano destra da qualche minuto.

- Guarda la luna, Dave. Sembra

una luna da cacciatori

una luna di sangue

così grande da poterla toccare. - concluse, mentre nella mia testa strapazzata e annebbiata dai fumi della sbornia parole mai pronunciate e immagini senza senso comparivano ad intermittenza allo stesso modo di una televisione rotta che coglie frammenti di trasmissione. Cercai di distogliere lo sguardo da quella luna deviata, quasi febbricitante, sorprendendomi di trovare difficoltà nel tentativo.

Nel tragitto verso casa sostammo una sola volta ad un semaforo, osservando pigramente una volante della polizia locale passarci davanti con la lentezza risoluta di un predatore. Non diedero segno di essere interessati a noi e Jake, tirando un sospiro di sollievo, mise in moto non appena ebbero svoltato l'angolo. Passò una decina di minuti prima che riuscissi a scorgere il viale alberato davanti casa mia, contraddistinto dalla solita massa intricata di salici ora tagliata a metà da una lama obliqua e polverosa di luce lunare. Nonostante l'ora tarda della notte ebbi come l'impressione che ci fosse troppa luce nel mondo e una sinistra tinta giallo-rossastra illuminava ogni superficie, non ultima la facciata della villetta a schiera dove abitavo. Le serrande alle finestre parvero volermi squadrare con voracità, viste sotto una certa illuminazione.

- Ce la fai a rientrare? - mi domandò Jake. Tradì uno sbadiglio pochi istanti dopo e notai come le ombre delle fronde dei salici proiettate sul suo volto parevano somigliare a nere striature, gocciolate dalle stelle nere come la pece sopra le nostre teste. Con queste immagini allucinanti in mente e un cenno di assenso lo rassicurai, aprendo la porta della macchina con la sinistra; il bruciore nel braccio destro era peggiorato esponenzialmente e un malessere simile a febbre pulsante trasudava dal mio arto ferito. Silenziosamente pregai non fosse nulla di più grave di una slogatura.

- Sciao - biascicai inizialmente, poi me ne resi conto e ritentai al meglio delle mie possibilità forzandomi oltre misura - ...dicevo, ciao Sceik. Non sho cosha avrei fatto senscia di te stasera. -

Jake rise. Sentivo la bocca impastata e la lingua così incollata al palato da darmi l'impressione di aver masticato ovatta e farina. Lo vidi dubbioso, poi scese e con premura mi aprì la portiera aiutandomi a scendere e ad arrivare al cancello. Gli fui immensamente grato per questo.

- Allora a presto, mi raccomando. Cerca di non ammazzarti sulle scale, mi farebbe sentire terribilmente colpevole. -

Gli allungai affettuosamente una pacca sulla spalla mentre tutto intorno a me ondeggiava più di quanto avrei voluto ammettere. Con passo incerto mi avviai e faticai non poco a trovare la chiave giusta, per non parlare poi di riuscire ad infilarla nella toppa. Sentivo lo sguardo da dietro di Jake pesarmi quasi fisicamente sulla schiena. Mi raccomandò assonnatamente di riprendermi e mise in moto mentre sillabavo silenziosamente una bestemmia, incapace di riuscire ad aprire quello stramaledetto cancello. Percepii il rombo della sua Ford allontanarsi, infine sostituito dal suono del verso di una civetta da qualche parte sugli alberi poco sopra la mia testa.

Finalmente, una manciata di secondi dopo, la chiave ruotò nella serratura e i cardini arrugginiti cedettero; quasi caddi in avanti, pronto ad assaporare di nuovo la dura compostezza del terreno sotto i miei piedi. Grazia volle non fu così e ripresi l'equilibrio mentre l'immensità del vicolo d'ingresso, senza che fossi consapevole del motivo, mi faceva sentire in quel momento piccolo e indifeso. Avvertivo solo il rumore dei miei passi in quel mare di tenebra rischiarato unicamente dala luna, un'immensità nera e sinistramente tinta di tutti i colori primari: di nuovo un senso di predestinazione mi colse, il presentimento quasi di un anormale allineamento delle stelle lontane.

sfumature

Un cambio sequenza e in un blackout improvviso causato dall'alcool mi ritrovai quindici minuti dopo nel mio letto ancora vestito, senza memoria del tragitto fatto dal cancello fino alla mia stanza. Contorni e contrasti andavano mescolandosi sulla mia retina, acquerelli su tela scura trascinati e calcati fino a trapassare il foglio. Ebbi il timore dei sogni che mi avrebbero atteso quella notte.

- E' come naufragare. - sussurrai a nessuno in particolare, preda dell'alta marea nella mia testa, attornato dal silenzio della mia camera. I miei dormivano di sopra già da ore probabilmente.

Alzai il braccio destro, ancora pulsante, e notai che la cicatrice sul dorso della mano si era fatta più definita. Nitide linee rosse ora attraversavano l'epidermide come un tatuaggio e il solo osservare quella forma scatenò in me qualcosa; d'un tratto sentii in me come un fiume di lava, rovente, i pensieri improvvisamente lucidi e schiariti. Un'idea folle e irrazionale mi prese.

C'era qualcosa che dovevo fare assolutamente. Una scarica elettrica mi percorse interamente e la mia mente rovistò alacremente nel guazzabuglio che aveva per memoria cercando l'esatta locazione e numerazione di oggetti e utensili di cui non compresi l'utilità in quel momento; era un impulso irresistibile, come se una voce suadente mi sussurrasse cosa fare e come farlo senza però spiegarmi nulla. Per quanto folle, per quanto irrazionale che fosse quell'idea irresistibile scattai nuovamente in piedi e solo in quel momento mi accorsi con sensi rinnovati di quanto puzzassi come una scimmia in una serra. Non me ne curai e mi diressi verso le scale con foga in una corsa silenziosa eppure sostenuta: avevo bisogno al più presto del necessario per performare

performare che cosa?

qualcosa. Non riuscii nitidamente a figurarne solo il risultato, solamente immagini vaghe di un cerchio e di simboli che non mi dissero assolutamente nulla. Sentii che provare a combattere quel proposito era insensato, preda com'ero di un'estasi che mai avevo provato prima. Era quello che dovevo fare e soprattutto, era la cosa giusta da fare.

Rovistai dapprima nei cassetti della cucina mentre la stessa voce suadente di poco prima mi suggeriva timidamente dove cercare, sicura che avrei capito non appena lo avessi

visto

Presi distrattamente il coltello che giudicai sul momento essere il più affilato. Pellicole inspiegabili di fotogrammi confusi, indefiniti continuavano a scorrere senza tregua davanti ai miei occhi; una rosa, una pistola, una porta introvata, mille volti dimenticati affacciati sull'abisso dell'eternità in attesa di una mia parola.

Di una Chiamata.

Presi il resto e mi diressi in sala. Sarebbe stata una notte lunga ed insonne e se avessi fatto ciò che il mio corpo mi gridava di portare a termine l'avrei probabilmente passata a pulire lo sfacelo che stavo per compiere. Sollevai la lama, dai riflessi cinerei alla luce della luna che filtrava dalle serrande, e incisi la carne appena sotto il mio polso; sangue color rubino zampillò istantaneamente dalla ferita, senza che provassi dolore. Sentivo di avere un'espressione severa e maestosa in quel momento, faraonica come gli antichi re del passato davanti alla grandiosità che era in attesa per me, qualsiasi cosa fosse. Una parte oramai sepolta dentro di me urlava, cercando di liberarsi dal demone che si era impossessato di me quella notte prendendo il controllo della sala comandi dentro la mia testa. I miei movimenti rispetto a qualche ora prima erano più precisi, sapevo cosa fare e come farlo.

Lasciai che il sangue fluisse sul pavimento, di freddo marmo e spoglio dopo una volta accuratamente messo da parte il tappeto che lo ricopriva. Con le dita cominciai a tracciare il principio di un cerchio, o meglio quello che doveva esserne l'archetipo. L'origine di tutte le circonferenze, l'apoteosi di ogni forma conclusa possibile. Brividi come di febbre mi attraversavano saltuariamente e gioii di eccitazione davanti a quel tracciato che sembrava ora voler traboccare in tutte le direzioni per tutta l'eternità, sconfinato, vasto quasi a eludere lo spazio circostante. Avvertivo pulsare follemente là dove avevo inciso la mia carne e sul dorso della mano destra. Non me ne avvidi.

Sapevo di avere quasi concluso.

Il silenzio regnava nell'abitazione e una strana elettricità pareva permeare l'aria. Stava per accadere qualcosa, me lo sentivo nelle ossa. Un ronzio mi invase le orecchie e con una voce che non riconobbi mia sussurrai a voce bassa

riempiti

cinque volte, lasciando che il suono di ogni parola soverchiasse il precedente con il suo arrivo

distruggi ognuno una volta ricolmo

Mi sollevai in piedi, barcollando. Cucchiaio e coltello andarono ad adornare i lati del cerchio che sembrava risplendere di una propria luce rossastra

una base di ferro e acciaio

- Una base di ferro e acciaio - sussurrai ancora, con voce pesante. Una cappa mi avvolse le meningi, la liquida consapevolezza del sogno cosciente. Solo che non era un sogno quello, ne ero certo.

solida pietra e un Arciduca come fondamenta di questo contratto

La mia bocca pronunciò frasi che non compresi in quel momento, di mura che fermano il vento calante e di punti cardinali chiusi a racchiudere una corona. Ero stato relegato a spettatore di quella folle scena da incubo e con un gemito sussultai solo in quel momento alla vista del sangue che mi colava dal braccio.

- Io qui dichiaro – continuai imperterrito tendendo la mano destra sopra il tracciato scarlatto sul pavimento, prigioniero di me stesso – tu mi servirai e la tua spada forgerà il mio destino. Sottomettiti alla chiamata... -

la Chiamata

- ...del Graal... -

Tentennai a quelle parole, sentendo qualcosa contorcermi le viscere una volta pronunciate. La sensazione di una mano guantata con il mio cuore stretto fra le dita mi fece rabbrividire involontariamente. Volevo tacere e mordermi la lingua, fermare quel desiderio insaziabile

se hai intenzione di sottometterti a queste ragioni e al mio volere, allora rispondimi

- Che il Cielo mi sia testimone, poiché giuro

di divenire araldo del volere divino

- ...e di dominare tutti i mali di questo mondo! -

Non sussurravo più, oramai: la mia voce era divenuta forte e chiara ad ogni asserzione e con risolutezza sollevai ora il pugno al cielo, il dorso della mano rivolto verso il soffitto. Qualcosa nell'aria parve trattenere il fiato, come in attesa.

- Da queste tre parole di immenso potere vieni a me, discendi in terra, Protettore dell'Ordine. -

Conclusi, conscio di aver terminato. Il sigillo sfrigolò, dopodiché le linee che lo componevano parvero allungarsi e restringersi continuamente come animate di vita propria. L'orologio a muro segnava le due del mattino, l'ora in cui ero nato ventiquattro anni prima. Lungi dall'essere coincidenza sapevo essere questo

il mio destino

- Che la tua spada tracci il mio destino. - esclamai, gelido, e il mondo attorno a me esplose di luci nuove e indefinibili. Divenni l'alba sulle montagne, la pioggia nelle radure, siccità e rocce spaccate da un sole filisteo; sbattei le palpebre e mi trasformai in una stella ardente, un gelido rogo di tutti i colori primari nel buio sconfinato dello spazio.

Caddi sulle ginocchia, scosso da conati improvvisi, la pelle infuocata e febbricitante. L'aria immobile intorno a me fu animata da un vento inspiegabile e riuscii mentre crollavo a terra a scorgere la sagoma di un paio di bruni stivali sbiancati dal tempo impietoso.

Una figura si ergeva davanti a me, solenne, osservandomi con alieno interesse. Occhi glaciali da bombardiere mi scrutavano da galassie lontane e scioccato non potei fare altro che boccheggiare, cercando di dire qualcosa. In tutta risposta la figura si mosse, chinandosi e avvicinandosi al mio volto.

- Ti odo molto bene, invero. Dimmi: sei tu il mio dinh? Colui che scuoterà i fili del mio ka? -

Non compresi quelle parole, né collegai subito quella voce così lontana alla figura dinnanzi a me. Vidi le sue labbra muoversi ed un suono polveroso fuoriuscirne, come di infiniti deserti essiccati e corrosi dalla calura e dai venti. Il volto senza nome si inclinò di lato e parlò di nuovo.

- Sei tu, Master? -

  
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