Le tessere del mosaico
erano ammucchiate ai lati del quadrante.
Alcune delle pile erano state disposte da Eliot a formare un disegno
ben preciso, piccole torri di ceramica colorata che riportavano alla
mente i torrioni immacolati di Castel Gugliebianche. Quello in cui
l’ala sud era ormai stata completata, quello di un’epoca futura che
era stata la loro e da cui il destino aveva voluto, per qualche
oscuro motivo, rimuoverli.
Almeno, in quest’epoca, la magia esisteva ancora. Qualcosa doveva
contare, giusto? Erano maghi, in fondo, si erano sentiti inutili,
vuoti, umani, senza la magia. Qualcosa doveva contare.
Eliot svuotò il bicchiere in un sorso solo.
Quentin teneva il naso all’insù e lo sguardo fisso alla luna di
Fillory, quello sguardo sognante e stupidamente soddisfatto che gli
aveva visto anche sulla terra, le prime volte in cui lo aveva
beccato guardare fuori dalle finestre di Brakebills.
«Vorrei offrirti un penny per i tuoi pensieri… ma…» iniziò,
soppesando le parole come se qualcosa non tornasse.
Quentin riabbassò il capo, scambiando l'inizio di un attacco di
nausea con i postumi di una sbronza che era almeno due o tre tazze
lontano dall'avere. L’accostamento a Penny era stato immediato e gli
aveva messo i brividi; si era stretto in un abbraccio e aveva scosso
la testa. Qualche ciocca era sfuggita dalla coda, per finirgli
davanti al volto. Eliot rise, spostandogliela dietro l’orecchio.
«Niente Penny, allora. Ma puoi sempre dirmi cos’hai tanto da essere
felice, ti ricordo che non abbiamo finito il mosaico e Dio solo sa
se ci riusciremo mai.»
Quentin si strinse nelle spalle, lasciando vagare per qualche
momento lo sguardo sulle tessere del mosaico e poi oltre, verso gli
alberi che circondavano la radura e ne facevano la loro piccola
isola e verso il cottage che era diventata casa loro.
«Stavo pensando che, di solito, a quest’ora ci sono almeno una
dozzina di pericoli che dovremmo affrontare per recuperare una sola
chiave. Ma questa volta, la nostra quest è…»
«Quasi piacevole» completò Eliot.
Quentin sembrò soppesare le parole.
«Quasi piacevole, sì» non sembrò convinto, come se non avesse
sentito sulla lingua il sapore che cercava.
Eliot se ne accorse. Strisciò più vicino a lui, come lo erano stati
la sera prima, quando avevano brindato – e nessuno dei due aveva
detto a cosa, ma entrambi avevano brindato a loro, a quel loro, che
come quell’isola ritagliata in una radura era piccolo, intimo e
felice.
Come la sera prima (e come altre prima di quella) gli circondò le
spalle con un braccio.
Quentin sorrise. Come la sera prima (e come altre prima di quella)
il suo corpo si era spostato subito verso quello di Eliot, in uno
scontro leggero, gentile, sbatacchiando piano la spalla contro
quella dell’altro, rispondendo ad un’attrazione che c’era sempre
stata tra loro e a cui avevano fatto molto poco per ignorare. E per
Eliot ogni scusa era buona per abbracciare Quentin, per passargli
una mano tra i capelli o affondare il naso all’incavo tra il suo
collo e la spalla e Quentin, che prima di Brakebills era stato una
frana con amicizie, rapporti e qualsiasi cosa in generale, assorbiva
l’affetto di Eliot come una spugna.
«Più che piacevole?» sussurrò Eliot tra le sue labbra.
«Più che piacevole.»
Quentin chiuse gli occhi e sollevò il mento.
Eliot era quello bravo a baciare e a Quentin piaceva l’idea di
scoprire quanto fosse stato bravo, di scoprire come e dove lo
avrebbe baciato, di sentire le sue labbra che si muovevano in un
massaggio lento contro le proprie e la sua lingua che gli sfiorava i
denti e gli leccava piano il palato, di soccombere lentamente sotto
il suo peso, sdraiati entrambi nella tela bianca di un mosaico
irrisolvibile.
«Ci sono momenti… momenti come questo…» sospirò Quentin, reclinando
il capo verso la spalla, per poter vedere il viso di Eliot da una
prospettiva diversa e farsi, comunque, rapire dalla sua bellezza
regale «in cui mi sembra di essere vicino alla soluzione… di aver
capito…»
«Cosa? Dove si trova la chiave?»
«No. Di aver capito quale sia la bellezza di tutta la vita.»
Eliot si tenne sollevato con le mani puntellate ai lati della sua
nuca. Il sorriso si fece largo quasi immediatamente sulle labbra,
largo ed emozionato come una prima ballerina davanti ad uno scroscio
di applausi.
«Stai per dire noi?» gli occhi gli brillavano «Q., ti prego,
dì “noi”! No, no, fermo, ho un’alternativa migliore: dì “sei tu,
Eliot”. Credo che potrei davvero arrivare a commuovermi.»
Quentin lo lasciò parlare.
«Non era esattamente quello a cui pensavo. Cioè, anche… ma no, non
nello specifico.»
«Ow.»
«Scusa?»
«Non importa, ti perdono. Sei troppo carino perché io possa rimanere
arrabbiato a lungo con te.» lo sbuffo suonò infantile, come il cenno
della mano con cui scacciava le sue scuse, come fossero state mosche
che gli ronzavano davanti alla faccia.
Era passato un anno, un giorno e mezza serata ed Eliot continuava ad
essere l’Alto Re di Fillory, con il sangue sporco di un contadino e
lo charme del Principe Azzurro.
«Lo finiremo» gli soffiò tra le labbra, tornando a premervi contro
le proprie. E i baci di Eliot erano lenti, dolci, capaci. I baci di
Eliot gli facevano desiderare che fossero come il mosaico, un
mistero che solo lui poteva svelare, per cui si sarebbe dedicato
anima e corpo, per cui avrebbe impiegato tutto il tempo necessario e
di cui non avrebbe mai visto la fine.
«Quindi, cos’hai capito, finora?» le labbra di Eliot si spostarono
in una pioggia di baci sulla tempia e sulla fronte e Quentin chiuse
gli occhi, lasciandosi travolgere.
«Alle volte penso... uhm… penso che voglia raccontare una storia di
cui non possiamo vedere la fine, finché, beh, finché non la
raggiungeremo.»
I baci di Eliot si fermarono. Sembrò rifletterci sopra, arricciò le
labbra e scrollò le spalle, facendoselo andare bene senza nemmeno
troppi problemi. Certo, ci sarebbe stato l’inconveniente del non
riuscire a trovare quella benedetta chiave, ma c’era tempo per
pensarci, un altro anno, forse due. Magari tre, chi poteva dirlo.
«Mi basta che ci sia un happy ending, Q.» decretò, prima di calare
nuovamente sulla bocca di Quentin. |