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Autore: Persej Combe    25/03/2018    4 recensioni
Voglio dire, non pensi che sia logorante mostrarsi in questa maniera agli occhi di tutti, avere in ogni singolo momento lo sguardo puntato addosso senza alcuna possibilità di sottrarvisi, senza potersi nascondere neppure un istante?
[Perfectworldshipping]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Elisio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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I
 

 
 
 
 
  «Data la centralità di questo fattore, possiamo quindi dedurre come le singole variabili verranno influenzate e il modo in cui esse, interagendo le une con le altre, a loro volta determineranno altrettanti valori a seconda del contesto preso in esame».
  La luce dello schermo bianco riprodotto sulla parete dal proiettore illuminò l’aula per un paio di minuti mentre il professore si accingeva a cambiare diapositiva e a fare mente locale su ciò che avrebbe dovuto introdurre a breve. Qualcuno ne approfittò per dare un’occhiata all’orologio, altri tirarono fuori dalla tasca il cellulare per sbirciarne le notifiche. Poi tornò quell’oscurità sospesa e azzurrina, le voci si attenuarono fino a zittirsi, le penne ripresero a puntare i fogli e rimase soltanto il ronzio pigro e lento dei ventilatori azionati sul soffitto.
  Il professore diede un rapido sguardo sopra la folla di teste e di facce e di occhiali che gli erano davanti per accertarsi di avere l’attenzione dei suoi studenti.
  Anche quel giorno se ne erano presentati diversi. La stanza era piena, molte persone lo guardavano da lontano poggiate con la schiena contro il muro, in piedi, poiché non c’erano più posti a sedere: un paio si erano persino acquattate silenziosamente a terra, mentre qualche coraggioso aveva deciso di arrampicarsi con tanto di zaino sul davanzale della finestra e seguire la lezione da lì.
  Diverse volte aveva reclamato a chi di dovere l’inadeguatezza dell’aula dato il folto numero di partecipanti al corso, tuttavia, come gli era sempre stato ribadito, gli spazi erano quelli e non si poteva far molto per cambiare la situazione. Alla fine si era dovuto rassegnare, pur continuando a rivolgere il massimo riguardo nei confronti di quei giovani che nonostante tutto si presentavano sempre interessati e puntuali allo scoccare preciso dell’ora – tralasciando qualche eccezione.
  «Se fin qui è tutto chiaro, direi che possiamo procedere. In caso contrario non esitate a farmi domande. Voi laggiù, il microfono si sente?».
  Ci fu un leggero brusio di voci, poi un ragazzo un po’ più deciso gridò ad alta voce che si sentiva, seguito subito dall’eco degli altri più timidi: «Sì, sì, sì». Il professore sorrise e aprì il file successivo dal computer.
  Dalle tapparelle abbassate filtrava una lama di luce sottile, calda. Le penne scrivevano, poi a tratti restavano sospese in aria in un momento di distrazione, quindi gli occhi si allungavano a spiare il foglio dei compagni vicini per riprendere il filo, e allora sottolinea, fai una freccia, un asterisco, scrivi, scrivi, scrivi...
  Ad un tratto la voce del professore venne intralciata dal cigolio della pesante porta che si apriva: un fascio giallo, dalle lampade dei corridoi, si riversò in fondo all’aula. Qualcuno entrò e qualcun altro si girò. Mormorii.
  Eccola qui, quella qualche eccezione. A differenza di altri insegnanti, lui non era tipo da prendersela troppo quando un alunno arrivava in ritardo: sapeva dei contrattempi che potevano crearsi, i corsi accavallati, i mezzi, il traffico, tutti imprevisti che egli stesso da giovane aveva dovuto fronteggiare. Eppure, di tanto in tanto non poteva fare a meno di prendere un po’ in giro qualche malcapitato, ma senza cattiveria: dopotutto, pensava, il bello di essere professore stava anche nell’avere un rapporto abbastanza umano con gli studenti, nonostante fosse cosciente del fatto che molti colleghi su quel punto si sarebbero trovati in disaccordo.
  «Excusez-moi1», lo richiamò «Lei, il ritardatario».
  Quell’appellativo provocò per un istante l’ilarità generale. C’era anche da dire che quando il professore spingeva su quell’accento nessuno poteva fare a meno di sentirsene attratto. Probabilmente in quella manciata di secondi qualche cuore ne era rimasto fatalmente trafitto, anche.
  «Potrebbe gentilmente chiudere la porta? La ringrazio molto».
  «Bien sûr», rincalzò l’altro «Ma certo, professore».
  Nel sentire quella risposta, per un attimo esitò. Tutti quanti lo videro farsi leggermente sorpreso e la sua postura diventò più vulnerabile rispetto a quella che aveva sempre, come se improvvisamente si fosse spogliato delle vesti di professore per essere semplicemente sé stesso. A quel punto, quindi, la folla di teste e di facce e di occhiali e i cuori trafitti si voltarono a curiosare laggiù, vicino alla porta. E di nuovo mormorii.
  «Abbiamo un ospite speciale, oggi, a quanto pare», disse lui dopo un po’, con un sorriso spontaneo e divertito stampato sulle labbra «Stavo per chiederti di recuperare fin dove siamo arrivati dagli appunti di qualche compagno e di venire nel mio studio alla fine dell’ora per eventualmente chiarire dei dubbi, ma non essendo tu uno studente, non credo che ce ne sia bisogno. A maggior ragione, però, non hai scusanti per aver disturbato me e i miei alunni nel mezzo del discorso. Per stavolta sarò buono e chiuderò un occhio».
  «Concordo sul fatto che non ce ne sia bisogno. Tuttavia, mi sento comunque di accettare l’invito nel suo studio, più tardi. Sempre che non sia di disturbo anche questo».
  I mormorii si fecero più forti fino a diventare voci che si mischiavano tra loro in un insieme confuso ed eccitato. Si aspettava di sentire quale sarebbe stata la replica stavolta, e in effetti il professore pareva avercela già bella pronta sulla punta della lingua, impaziente d’esser pronunciata, ma invece si fermò e seguì uno scialbo, quanto risolutivo: «Vedremo, caro mio, vedremo. Ora, ragazzi, dicevamo...».
 
 
  «Quindi, questo passaggio è corretto?».
  «Sì. Più o meno ha capito cosa succede, no? Quello che mi ha ripetuto prima e, infine, deve aggiungere questa ultima parte. Sul manuale lo spiega bene, comunque se dovesse avere ancora incertezze può tornare da me, d’accordo? Arrivederci!».
  «Certo! Arrivederci!» esclamò la ragazza riprendendo le sue cose e avviandosi verso la porta.
  «Bien sûr...» puntualizzò il ragazzo che l’accompagnava, facendo un po’ il verso e ridacchiando.
  «Ma che fai, zitto che ti si sente!» lo riprese velocemente afferrandolo per la manica con uno strattone. I due si affrettarono ad uscire in corridoio, ma prima di poter mettere piede fuori dalla stanza si scontrarono improvvisamente con l’uomo che era venuto ad interrompere la lezione. Lo guardarono intimiditi, il giovane smise persino di ridacchiare per trasformare il proprio sguardo in uno rispettoso e di stima da rivolgere nei suoi confronti.
  «Prego», disse egli facendosi da parte in modo che potessero uscire, nel frattempo allungando l’occhio intorno allo studio pieno di fiori per trovare il viso per cui era venuto. Il professore si accorse di lui, così alzandosi dalla scrivania gli andò incontro, salutando ancora gli alunni che se la filarono rapidamente.
  «Sono gli studenti del primo anno», spiegò affacciandosi e guardandoli allontanarsi verso l’uscita del Dipartimento «Ah, le matricole! Sono appena all’inizio e non immaginano nemmeno quel che dovranno passare... Cerco sempre di non essere troppo traumatico con loro, non ne vale la pena. Penso sia controproducente».
  «Credo però che un po’ di stress non gli farebbe male, per irrobustirsi le ossa».
  «Su questo in effetti hai ragione, eppure...».
  «Professor Platan!» lo chiamarono tutt’a un tratto, troncandogli le parole. Augustine si girò, trovandosi davanti un ragazzetto con già pronto il quaderno in mano da cui strabordavano una moltitudine di biglietti e di linguette colorate.
  «Mi scusi, vorrei chiederle una cosa», esordì, controllando qualche riga per assicurarsi di non commettere strafalcioni prima di continuare il discorso.
  Il professore sorrise gentilmente, rivolgendoglisi con considerazione: «Naturalmente, soltanto un attimo».
  Allora guardò il compagno e con un’espressione leggermente dispiaciuta gli si avvicinò.
  «Scusami, Elisio, potresti aspettare un istante? Torno subito», sussurrò avendo premura intanto di cominciare ad accogliere l’arrivato.
  «Se ho aspettato fino ad ora, qualche altro minuto non farà differenza», rispose, comprendendo che, dopotutto, si trattava pur sempre del suo orario di ricevimento. «Fai pure con calma».
  «Grazie».
  Si scambiarono un rapido sguardo, poi Augustine scomparve dietro la porta. Prima che essa si chiudesse, però, Elisio non aveva potuto fare a meno di notare la smorfia stupita che campeggiava sul volto del ragazzetto, che si era fermato ad osservarlo. Si sedette su una panca del corridoio e rimase pazientemente in silenzio, scrutando nel frattempo il gruppo sempre più folto che andava a crearsi davanti alla soglia dello studio.
  Ce n’erano di tutte le età e di tutti i tipi, e ogni volta che risbucava fuori Platan si dedicava meticolosamente ad ogni persona, generoso e incredibilmente cortese, senza mai farsi prendere in fallo dal rancore o dalla collera di fronte a qualche testa un po’ più cocciuta.
  Elisio pensò con rammarico che era troppo buono e che gli mancava il pugno di ferro. Già li vedeva lì, i suoi cari alunni, pronti, con gli artigli sguainati, ad approfittarsi della sua gentilezza nel momento propizio.
 
 
  Chi si somiglia si piglia, e gli opposti si attraggono.
  In questo caso però non si sarebbe potuto ben dire in quale delle due affermazioni dovessero essere collocati. Certo era che entrambi fossero uomini di grande intelletto, di ideali e interessi comuni, l’uno filantropo impegnato a garantire la felicità del prossimo, l’altro professore di Pokémon partecipe ad assicurare un opportuno legame tra gli umani e quelle creature. Eppure le differenze erano abbastanza lampanti, anche ad un occhio non troppo vigile, non tanto d’aspetto, quanto spiritualmente, caratterialmente. Nonostante questo, quando erano insieme, pareva come se quelle diversità si venissero incontro, amalgamandosi quasi a combaciare le une con le altre.
  Ma erano tutte congetture, e per quanto nel bar dell’ateneo in cui si erano fermati a mangiare un panino per pranzo sia studenti che professori si potessero accanire nell’osservarli da ogni angolazione, nel bisbigliare e nell’origliare i loro discorsi, non c’era nulla che fosse stato ufficializzato.
  Potrebbe sorprendere quanto persino in tali luoghi di fermento culturale e di rinnovamento germoglino con ostinata tenacia i germi dell'arroccamento, della negazione e dell'intolleranza, e non di rado.
  Essi, ben consci di come stessero le cose, lasciavano scivolare ogni sguardo e ogni parola sui loro corpi, senza che sopra di essi potessero trattenersi in qualche modo. Tutto quanto cadeva, soccombeva, senza che le loro armature ne venissero scalfite. Non un graffio, non un taglio. Nemmeno il più piccolo sfregio. Si crogiolavano reciprocamente in quell’intima coltre fatta di silenzio e di mistero, che li avvolgeva, separandoli dal resto, e che nessuno sarebbe stato in grado di valicare o rimuovere.
  Così, insieme, stavano.
 
 
  «Di’ un po’, alla fine sei riuscito a risolvere?».
  Augustine distolse lo sguardo dal finestrino per poterlo posare su di lui, alla sua sinistra intento a guidare l'auto.
  «Oggi erano in parecchi. Io non ho avuto problemi ad ascoltare la lezione in piedi, ma immagino che per chi debba effettivamente prendere degli appunti e stare attento a quel che dici sia piuttosto disagevole. Senza contare il fatto che dopo mezz’ora non si respirava nemmeno, là dentro», specificò meglio Elisio, indirizzandogli una rapida occhiata per capire se avesse sentito: sembrava avere la testa tra le nuvole, ma probabilmente si trattava solo di stanchezza.
  «Intendi per l’aula? Ah!» sbuffò seccato, un sorrisetto stizzoso gli si dipinse sulle labbra. Afferrò la bottiglietta d’acqua dal portavivande e bevve un sorso, asciugandosi poi la bocca col dorso della mano.
  «Ti pare?» disse «No, non c’è nulla da fare, anche se da una parte sono sicuro che un'altra aula debba esserci libera durante le mie ore. Comunque, come al solito mi hanno ripetuto di non preoccuparmi troppo perché: vedrà quando arriverà la prossima sessione come si sfoltirà! La moria!. Eppure io non ne sono troppo convinto. Anche prima e durante gli esami ho sempre tanta gente che viene a seguirmi. Che siano miei studenti di corso o infiltrati».
  «Non fatico a immaginarlo. Ormai devi riconoscere di aver raggiunto un certo prestigio, Augustine».
  «Ancora con questa storia…».
  «Dico sul serio. Trovo che come professore – e anche come persona, naturalmente – tu abbia delle qualità a dir poco eccezionali. Certo, non sei perfetto, ma non puoi capire quanto sia difficile riuscire a trovare qualcuno come te in questo mondo becero di oggi. Hai una mente splendida. E per questo motivo dovresti pretendere che ti trattino con il giusto rispetto. Non hai sopportato per anni quel burbero del Professor Rowan per finire come un miserabile. Devi farti valere di più».
  Platan si trovò a concordare in parte con il suo discorso. Dopotutto, sapeva quanto Elisio fosse selettivo nelle sue conoscenze ed era consapevole del fatto che se non fosse stato per quelle doti che egli diceva di aver visto dentro di lui, non sarebbe mai stato in grado di attirarlo a sé.
  Un giorno, a riprova di quanto il sapere e la cultura gli stessero a cuore, Elisio, da filantropo quale era, aveva donato un'ingente somma di denaro all'Università. C'erano stati grandi festeggiamenti, diversi incontri e una fastosa cerimonia era stata organizzata dal rettore per commemorare l’evento. Giornalisti e fotografi erano accorsi a immortalare il momento e ad intervistare l'uomo che così generosamente aveva fatto l'ennesima grandiosa offerta. Quello stesso giorno, tuttavia, Platan era stato impegnato in un dibattito con altri professori circa le ultime ipotesi mosse in campo evolutivo. Elisio, quasi per caso, si era fermato ad ascoltare sulla soglia della porta, aveva seguito con attenzione il lungo intervento di Platan, rimanendone piacevolmente colpito. Più tardi, a celebrazioni ormai concluse, in maniera del tutto inaspettata si era presentato umilmente nel suo studio, davanti ai suoi occhi. “M'insegni”, gli aveva detto. E così Platan aveva fatto, alla fine.2
  Avevano preso a frequentarsi, all’inizio in modo prettamente formale, poi qualcosa lentamente era scattato e avevano deciso di approfondire la reciproca conoscenza. A distanza di qualche mese, adesso, si trovavano in viaggio alla volta di Petroglifari per trascorrere un pomeriggio insieme, lontano da occhi indiscreti.
  «Bello», disse Augustine «Tutto molto bello quel che dici. Ma non mi sento di concordare pienamente. Per quanto la mia mente possa essere splendida, non è che ogni cosa mi sia dovuta».
  Elisio sbuffò, gli rivolse uno sguardo carico di scettiscismo.
  «Ne riparleremo quando sarai diventato Professore. Quello con la P maiuscola».
  «Tu credi davvero che io…?».
  «Dammi un motivo per dubitarne».
  Augustine sapeva che, qualunque ragione avesse dovuto esporgli, Elisio avrebbe sempre trovato da ribattere: non avrebbe accettato nemmeno la minima contestazione. Allora sorrise, un po’ timidamente, mentre si confortava della sua fiducia, e tornò a guardare di fuori.
 
 
  La distesa del mare accoglieva dentro di sé il lugubre umore del cielo. Il vento soffiava e la sabbia si sollevava in alto. Augustine la sentiva a tratti schiaffeggiargli il viso. Qualche granello finì nel suo occhio ed esso subito cominciò a farsi lucido e a lacrimare. Ci strofinò due dita sopra per alleviare il bruciore.
  «Pare che oggi la giornata non sia delle migliori», disse Elisio guardandosi attorno mentre scendeva dalla macchina. Sulla spiaggia c’erano loro e pochi altri, stretti nei cappotti e in cerca di un rifugio nei chioschi. Un asciugamano era stato abbandonato vicino alla riva e galoppava con ampi balzi lungo la superficie sabbiosa, mosso e gonfiato dalla forte brezza. Si presagiva un’aria di pioggia.
  «Pensi che si possa comunque andare a vedere la scogliera?» domandò Augustine, invitando il compagno vicino a sé con un rapido sguardo, per poi tornare ad osservare mortificato l’orizzonte.
  «Temo di no, purtroppo, sai».
  «Potremmo provarci però».
  Elisio alzò la testa al cielo, a scrutare i nuvoloni che si ammassavano gli uni sugli altri. Mentre affondava le mani nelle tasche del trench nero per riscaldarsi le dita, sentì una goccia di pioggia scivolare sulla punta del naso. Si girò verso Augustine con l’intenzione di convincerlo che sarebbe stato meglio andare via, ma si fermò non appena notò quell’espressione un po’ imbronciata. I suoi occhi gonfi di lacrime gli diedero per qualche secondo un’impressione di pianto.
  «Ci tenevo tanto», lo sentì sussurrare.
  I cavalloni alti e massicci si accalcavano abbattendosi gli uni contro gli altri, scontrandosi litigiosi, disintegrandosi e morendo tra gli spruzzi di schiuma bianca. La sabbia era già macchiata di radi punti scuri che via via cominciarono a crescere e a moltiplicarsi, fino a formare una massa umida e bruna.
  Platan ed Elisio restarono sotto la pioggia ancora pochi minuti, finché il getto non divenne tanto forte da offuscargli la vista, rendendo ogni cosa nient’altro che un’indistinta macchia grigiastra e annebbiata.
 
 
  Sibilando tra i denti si maledisse per non aver controllato le previsioni metereologiche, anche se, effettivamente, quando si decidevano per quelle uscite così di punto in bianco era la norma partire senza che ci si fosse organizzati con molto criterio. Platan ascoltava Elisio mentre continuava a lamentarsi, nel frattempo sfregandosi le mani di fronte allo scaldino della macchina. Gli disse di non preoccuparsi, che alla fin fine andava bene anche così.
  La pioggia copiosa picchiettava contro i vetri dei finestrini fino a diventare un rumore sgraziato ed uniforme: un ammasso di colpi che battevano tutti quanti all’unisono, facendosi l’eco gli uni con gli altri. I tergicristalli faticavano a spingere via l’acqua dal parabrezza, così che sembrava fossero isolati da ciò che era fuori, rinchiusi insieme in una sorta di piccolo antro nascosto lungo il limite di una strada.
  «Dopotutto, mi basta stare con te».
  Poco dopo che quelle parole vennero pronunciate, la mano di Elisio si posò piano sul viso di Augustine, che la colse con una lieve sorpresa. Le sue tenerezze risultavano a volte ancora improvvise, inaspettate. Ancora, ancora dopo qualche mese. Che comunque non ci si può immaginare di conoscere una persona a menadito già dopo appena qualche mese, ad essere sinceri. Si voltò a scrutarlo, rannicchiandosi silenziosamente in un angolo dei suoi occhi azzurri e intensi come un gelido oceano del quale non è possibile toccare il fondo, provando brividi freddi e una sensazione simile all’apnea mentre avvertiva il dorso delle sue dita percorrere lentamente la sua guancia, finché non sentì i polpastrelli andare a infilarsi tra i capelli bagnati. A quel punto temette di star confondendo il proprio tremore per il fatto di essere intriso d’acqua con quello di chissà quale passione scaturita dall’aver ricevuto una simile e banalissima carezza. Ma durò poco.
  Nella penombra dell’abitacolo si stagliavano le loro sagome, due figurine colorate sommariamente con un pennarello e ritagliate con le forbici da un pezzo di carta sottile, rimuovendo accuratamente ogni sbavatura e tratto che fosse uscito dalla rigida linea di contorno. Tuttavia non si poteva far nulla per quelle macchie d’inchiostro che avevano trapassato il foglio da una parte all’altra.
  La chitarra alla radio strimpellava malinconicamente qualche nota agrodolce. Il segnale cominciava però ad interrompersi a causa del temporale che faceva interferenza, così via via che le battute si susseguivano una dietro l’altra, alla fine non rimase che uno stridore fastidioso, e la musica tacque.
  Elisio si allontanò dalla figurina a cui si era unito per riempire i propri difetti anche solo per dei miseri istanti, le fessure lasciate in bianco sovrapposte contro le sue campite in maniera più precisa, le loro labbra portate a combaciare le une sulle altre. Spense la radio.
  Silenzio.
  Un lampo di luce penetrò oltre i vetri. In lontananza vibrò un rombo di tuono.
  Non si sapeva che fare, e neppure cosa dire. Augustine allungò una mano verso il ginocchio del compagno, forse con l’intenzione di ristabilire un contatto simile al precedente, sentendo già la mancanza del calore del suo volto premuto contro il proprio. Mentre faceva scorrere il palmo lungo la sua gamba però si accorse di quanto il pantalone fosse impregnato d’acqua.
  «Dio, Elisio, sei zuppo», mormorò, notando solo in quel momento la barba arricciata e alcune ciocche ancora umide. Certo era, pensò, che se anche avessero deciso di spostarsi, in quelle condizioni non si sarebbero potuti muovere più di tanto.
  «Tu, piuttosto», fu la breve replica. E non ci fu bisogno che si aggiungesse altro, perché subito dopo stringendosi meglio nella giacca fradicia Augustine trattenne a stento uno starnuto e dovette ammettere che non aveva poi così torto. Elisio allora si affrettò ad aumentare il getto d’aria calda.
  «Dovrei avere una coperta nel bagagliaio. Te la prendo, se vuoi».
  «Lascia, lascia. Non è necessario».
  «Come preferisci».
  Lanciò un’occhiata di fuori e si lasciò sfuggire un sospiro. Arrestò i tergicristalli, dato che non avevano l’impressione di essere molto d’aiuto.
  «Beh, cosa vogliamo fare?» chiese a un certo punto «Proviamo ad aspettare che spiova?».
  L’altro annuì, accostandosi al finestrino, osservando le gocce che scivolavano irrequiete contro la superficie esterna. Con uno sbuffo appannò il vetro e si mise a tracciare distrattamente qualche forma con il dito.
  Il suono della pioggia si era addolcito, segno che il peggio doveva essere passato, tuttavia essa non pareva accennare a smettere di scendere. Ne avrebbero avuto ancora per molto, eppure l’atmosfera si era fatta così rilassata che ad Augustine non dispiaceva affatto.
  «Elisio».
  «Sì?».
  «Ti andrebbe di stenderci un po’ insieme dietro?».
  Le labbra già sottili di lui si affilarono ancor più leggermente in un sorriso malizioso, prima di schiudersi in una risata compiaciuta.
  «Oh, Augustine. Non credo che abbiamo più l’età per permetterci quel genere di cose».
  «No, eh?» rise sotto i baffi a propria volta, continuando a fissare i rivoli trasparenti che si intrecciavano ai suoi scarabocchi insignificanti «Peccato».
 
 
  Alcune gocce pendevano dalla pergola che precedeva l’ingresso all’Acquario.
  Dopo aver strofinato rapidamente le scarpe sullo zerbino, Elisio ed Augustine entrarono, provando nuovamente sollievo nel momento in cui si sentirono avvolti dal calore dell’ambiente. Subito vennero riconosciuti da qualcuno e mentre facevano la fila per la biglietteria non poterono ignorare la pressione di quegli sguardi che per quanto si sforzassero di essere discreti risultavano quasi ossessivi, magneticamente attratti dalle loro figure famose, due apparizioni sacre e benedette nel mezzo di una qualche manciata di vite vuote ed irrilevanti.
  Elisio pareva piuttosto avvezzo a quel tipo d’attenzioni. Ricambiava senza problemi ogni occhiata che gli veniva rivolta con un sorriso cordiale e modesto, impreziosito da quella sua caratteristica eleganza riservata che sapeva abilmente porre a barriera tra sé e gli altri. Augustine, al contrario, ci stava ancora prendendo l’abitudine. Tuttavia non doveva essere poi troppo diverso dall’essere puntato dagli occhi degli alunni quando attraversava il corridoio del Dipartimento o mentre aspettava che la macchinetta accanto alle scale facesse uscire il bicchierino di caffè dalla dubbia consistenza acquosa che gli spettava dopo ore di lavoro – spesso nemmeno gli lasciava il bastoncino per poterlo mescolare, così lo zucchero rimaneva tutto sul fondo.
  In quanto professore, Platan doveva costantemente fronteggiare un’enorme quantità di studenti. Nel corso della sua carriera non aveva mai avuto problemi a rapportarsi con i più giovani. Anzi, sin dal periodo scolastico si era sempre organizzato per dare ripetizioni ai compagni più piccoli, per cui si potrebbe dire che quel ruolo d’insegnante fosse stato già pienamente acquisito ancor prima dell’inizio dei suoi studi. Per quel che riguardava il lavoro attuale, gli faceva piacere assistere alla crescita dei suoi ragazzi e poterli avviare nei loro interessi che presto sarebbero stati in grado di seguire da soli: da questo punto di vista, poter essere un giorno Professore e avere l’onore di consegnare i primi Pokémon ai bambini di Kalos sarebbe stata la soddisfazione più grande, soprattutto quando, passato del tempo, avrebbe potuto toccare con mano i loro progressi e il rafforzamento dei legami durante il viaggio. Certo, sarebbe stata una grande responsabilità, tuttavia avrebbe sempre avuto la certezza che il suo lavoro sarebbe stato d’aiuto a qualcun altro. Anche come semplice professore, comunque, avrebbe potuto dire lo stesso, e nel caso in cui avesse fallito nel raggiungere i propri obiettivi si sarebbe volentieri accontentato di un titolo minore.
  Al contrario, quando durante un esame si ritrovava faccia a faccia con delle persone più anziane, che magari avevano frequentato il corso semplicemente per puro interesse personale, molto spesso faticava a mantenersi nel proprio ruolo: non poteva fare a meno di pensare a quanto avrebbe avuto più lui da imparare da loro, piuttosto che loro da lui. Avrebbe saputo spiegare alla perfezione i processi chimici e biologici innescati dall'evoluzione di un Pokémon, prevedere il mutamento di ogni singola molecola coinvolta nella trasformazione, capendo il perché e il come di ogni fase, pienamente in grado di andare sempre più in fondo, sempre più in fondo nei limiti del possibile, ma per quanto tutto questo fosse grandioso, gli sembrava nulla rispetto all’esperienza e alla saggezza che quelle persone portavano con sé di fronte alla sua cattedra. Ma forse non sarebbero state proprio queste le cose che un professore avrebbe dovuto valutare.
  Elisio, invece, era un caso un po’ speciale: praticamente suo coetaneo, li separava appena qualche anno di differenza, un battito di ciglia. Sebbene avesse iniziato ad accoglierlo sotto la propria ala e a farlo studiare presso di lui come faceva con tutti quanti gli altri, non lo si poteva definire propriamente uno studente o alunno, poiché sentiva che non erano termini che gli calzassero. Né comunque avrebbe potuto chiamarlo collega, dato che, chiaramente, non erano colleghi in alcuna professione né carica. C’era sempre una sorta di subordinazione fra di loro, l’uno docente, l’altro discente. A porli sullo stesso piano vi erano tuttavia degli interessi comuni, una sorta di strana affinità intellettuale, se così volessimo definirla. Allora il loro scambio di idee somigliava di più a quello che poteva avvenire tra un maestro e un suo discepolo.
  Ecco, un discepolo, appunto. Elisio era il suo discepolo.
  Così lo aveva definito quando il ragazzo della biglietteria aveva domandato loro come si fossero conosciuti, sorpreso di vederli assieme.
  «Mi piace essere il tuo discepolo», fu il commento che seguì dopo che ebbero fatto vidimare i biglietti all’entrata per gli acquari.
  In una vasca a parte erano stati isolati i Frillish e i Jellycent. Essi nuotavano aggraziati trascinandosi dietro in maniera sinuosa i lunghi tentacoli alla stregua di uno strascico di vestito, meravigliosi quanto letali. Sebbene Augustine sapesse del vasto spessore del vetro, si ritrovò più volte ad afferrare Elisio per un braccio in modo da tenerlo lontano quando un Pokémon minacciava di avvicinarsi troppo alla superficie trasparente.
  La maggior parte delle persone si era affollata davanti all’acquario più grande. Alcuni bambini si divertivano a muovere le braccia a tracciare un cerchio mentre un Buizel dall’altra parte nuotava seguendo il loro percorso, roteando vorticosamente le due code. I Mantine offrivano trasporto ai piccoli Remoraid, mentre banchi di Goldeen sfrecciavano veloci accanto a un enorme Wailord: presto probabilmente avrebbero tramato l’ennesimo colpo ai vetri per cercare di fuggire, erano Pokémon difficili da ammansire e bisognava prestare costante attenzione ai loro corni duri e affilati. I Corsola riposavano tra le rocce e in mezzo alle ramificazioni dei loro coralli volteggiavano dei Luvdisc e altri pesci minuti. Tutti quanti comunque davano l’impressione di star volando in un’aura magica e misteriosa, ed era spettacolare poterli osservare da una tale vicinanza, un’occasione come poche.
  Nessuno dei presenti quindi si fece avanti a strappargli qualche parola come ci si sarebbe aspettato, né comunque vennero presi di mira più di tanto. Ci fu giusto un momento in cui attirarono particolarmente l’attenzione. Platan stava raccontando ad Elisio dei Pokémon che erano all’interno della vasca, ed egli lo stava ascoltando interessato, ma i suoi occhi non si rivolgevano mai verso il vetro a cercare ciò a cui l’altro faceva riferimento, anzi restavano fermi su di lui con un’intensa premura. Vedendoli così, quindi, un Luvdisc aveva appunto deciso di premiare quella tenerezza mostrandosi davanti ai loro occhi.3 Augustine aveva smesso di parlare, preso alla sprovvista, ed anche Elisio non aveva potuto fare a meno di provare un leggero imbarazzo per una volta. I complimenti da parte dei presenti non avevano tardato ad arrivare, senza contare qualche augurio per delle future nozze che non si sarebbero mai celebrate, ma in linea di massima ci si limitò a quello, tralasciando un paio di frecciate più maliziose. Poi l’incanto dell’acquario riprese il sopravvento e quegli istanti vennero presto dimenticati.
  Non erano che un ammasso di ombre di fronte ad uno schermo blu oltremare, con le dita puntate verso l’alto, e in questo unico gesto ognuno sembrava del tutto simile al proprio vicino, sagome direttamente intagliate nella nera carta piuttosto che campite col semplice colore.
  Platan si era perso nelle proprie riflessioni. Se ne stava con una mano appoggiata sul vetro, e i suoi occhi vagavano assorti da una squama iridescente all’altra, soffermandosi sulla sfericità di una bolla o sull’insieme delle tinte che si mischiavano al passaggio di un banco di Pokémon in mezzo a un altro, per poi rincontrare sé stesso in un riflesso. Il suo viso era lambito da lumeggiature verdazzurre che ne mettevano in risalto l’incarnato pallido, il resto rimaneva nascosto nell’ombra del buio della sala.
  «Certe volte non posso fare a meno di chiedermi se i Pokémon che sono qui non si sentano a disagio a trascorrere la loro intera esistenza davanti a un vetro».
  A quelle parole improvvise Elisio rimase sorpreso: non si sarebbe aspettato che un commento del genere potesse uscire proprio da quella bocca.
  «Eppure, dovresti sapere meglio tu di me che questi Pokémon sono vigilati e protetti nel rispetto delle loro esigenze, Augustine».
  «Oh, no, questo lo so benissimo. Dopotutto, anche a me è capitato di fare qualche tirocinio qui, e conosco la prassi. Ma non intendevo in quel senso. Voglio dire, non pensi che sia logorante mostrarsi in questa maniera agli occhi di tutti, avere in ogni singolo momento lo sguardo puntato addosso senza alcuna possibilità di sottrarvisi, senza potersi nascondere neppure un istante?».
  «Cosa ti fa credere che non possano farlo?».
  Stavolta fu Platan a rimanere colpito, perché nell’animo intuì i sottintesi che recava con sé quella risposta.
  Abbassò lo sguardo e si accarezzò distrattamente un braccio. Aspettò che la sala si svuotasse quel poco che bastava prima di riprendere il discorso.
  «Oggi, quando sei venuto a lezione, non appena ho sentito la tua voce è stato come se mi fossi spogliato delle vesti di professore per essere semplicemente me stesso. Ero diventato improvvisamente nudo, nella maniera più esplicita che tu possa pensare».
  «Augustine».
  «Non intendevo essere volgare. È che non sentivo neppure il bisogno di coprirmi, capisci? Di fronte a te il mio corpo, che dico, il mio intero essere palpita in una maniera così spontanea che ogni inibizione svanisce e riesco ad accogliere qualunque sentimento di letizia, di dolore, di gentilezza, di paura, di lascivia e insicurezza dentro di me. Persino la rabbia e la violenza che non tollero acquistano un senso che mi permette di accettarle. Senza che escano fuori, vivo tutte queste sensazioni e attraverso di esse vivo ciò che io sono. Ed è splendido poter unire me stesso a te. Avrei continuato volentieri il nostro scambio di battute, ma poi ho sentito gli occhi degli altri addosso e mi sono reso conto di essermi esposto troppo e ho avuto paura. Il fatto è che non mi ero mai accorto di quanto il mio camice mi proteggesse. Per la prima volta ho avuto l’impressione di star indossando una maschera della quale non avevo mai sospettato l’esistenza. Ti sono sembrato così diverso quando mi sono tolto il camice davanti a te?».
  «Avevo stima di te quando ti ho conosciuto con il camice e ho continuato ad averne anche quando l’hai messo via, se è questo che vuoi chiedermi. Diverso, non direi. Più umano, forse. Ma per quanto tu possa essere spontaneo con me, Augustine, ci sarà sempre una parte di te più intima e vera che non vorrai mostrarmi. Non negarlo, sai che è così. Come non ti dimostri in un certo modo con i tuoi studenti, ugualmente non lo fai con me. Anch’io ho dei tratti del mio carattere che non posso rivelarti. Queste nostre barriere, comunque, non mi impediranno di amarti».
  «Vorrei che non fosse così. Vorrei che potessi aprirti».
  «Non è possibile».
  «Io ti accetterei. Ti darei tutto lo spazio di cui avresti bisogno. Sarei disposto a sacrificarmi e a farmi da parte in un angolo, se non dovesse bastarti».
  «Vorrei che non fossi così dimesso. Non ti accorgi che in questo modo è troppo semplice approfittarsi di te? Che cosa farai quando prenderanno il tuo cuore e lo spezzeranno? Quando gli altri ti lasceranno il vuoto dentro e ti sarai fatto talmente piccolo che non riuscirai più a colmarlo?».
  «Mi stai forse sottovalutando?».
  «Mi sto preoccupando. Perché anch’io una volta mi dedicavo agli altri come stai facendo tu. E non avrei dovuto. È stato un errore».
  Tacquero. Il silenzio si interpose tra di loro, e sembrò come se quelle parole in realtà non fossero mai state pronunciate. Forse rimasero a galleggiare in qualche pensiero o all’interno dell’acquario, relegate intenzionalmente oltre il vetro affinché annegassero, prive di qualunque fondamento. Se soltanto avessero avuto il coraggio di alzare un po’ di più la voce...
  Platan abbassò lo sguardo e si accarezzò distrattamente un braccio. Aspettò che la sala si svuotasse quel poco che bastava prima di riprendere il discorso.
  «Oggi, quando sei venuto a lezione, non ho fatto altro che averti in mente tutto il tempo».
  «A che cosa pensavi?».
  «Pensavo al modo in cui sospiri quando sei stanco. O a come ti accarezzi le tempie mentre rifletti su un problema. So che sono gesti che non mostri a nessun altro, magari perché segno di debolezza. Ecco. Ti ringrazio per esserti aperto a me».
  «Non avrei potuto farlo con nessun altro. Grazie a te per avermi accettato».
 
 
  Stavano girando dentro Petroglifari alla ricerca di un alloggio per la notte. Ormai aveva smesso di piovere da un pezzo e le nuvole si andavano via via diradando. Ad un certo punto si imbatterono in un cartello che suggeriva la strada per un villino in periferia che metteva a disposizione delle stanze per dormire e offriva la colazione alla mattina. A lato vi era una fotografia del posto e, sebbene i colori fossero decisamente sbiaditi dal tempo, sullo sfondo si riusciva a intravedere un accenno di paesaggio marino. Elisio e Augustine si confrontarono brevemente un paio di minuti sul da farsi, poi decisero di provare ad andare.
  Sotto alla tettoia c’era una donna anziana che stava controllando le Baccaprugne mature all’interno di un grande cesto di vimini poggiato sul tavolo. Non appena vide arrivare l’automobile, si alzò dalla sedia preparandosi ad accogliere gli eventuali clienti. Stese per bene il grembiule sulle ginocchia con le mani un po’ tozze e si apprestò ad avvicinarsi alla macchina appena parcheggiata. Quando riconobbe la persona che stava scendendo dal lato del volante rimase per qualche secondo come stordita.
  «Buon Gesù!» esclamò. Allora tornò a lisciare le pieghe del grembiule con ancor più foga e addirittura si mise a raddrizzare sulla capigliatura bruna dalle lumeggiature argentee il grosso chignon che ormai dopo un’intera giornata pendeva da una parte.
  «Buonasera», salutò Elisio accostandosi a lei. Augustine si era fermato più dietro ad accarezzare il Furfrou della signora che era corso verso di loro facendo le feste: il pelo che doveva essere il suo vanto era lungo e arruffato, non disciplinato come quello degli esemplari che si potevano vedere passeggiare in città, ma in compenso il barboncino sembrava molto felice di stare all’aria aperta ed era in ottima salute.
  «Monsieur Elisio, che onore averla qui! Sta per caso cercando una stanza per dormire?».
  «Sì. Io e il mio compagno siamo venuti in gita a Petroglifari questo pomeriggio e domani mattina torneremo a Luminopoli. Le saremmo grati se potesse ospitarci stanotte».
  La donna, cercando di capire se si trattasse anch’egli di qualche personaggio famoso, allungò lo sguardo sull’altro uomo che ancora si divertiva a giocare con il suo Pokémon, ma non lo riconobbe.
  «In gita, eh? Certo che siete capitati proprio male con questo tempo, oggi», commentò notando i loro abiti umidicci «Ultimamente è sempre così, però pare che già questa sera dovrebbe stabilizzarsi. Per fortuna non è ancora stagione di turisti... Ma venite, vi faccio vedere le stanze! Furfrou, lascia in pace l’ospite!».
  «Ah, non si preoccupi, non mi sta dando alcun fastidio! Sono professore di Pokémon e passo con loro la maggior parte del mio tempo», la rassicurò Platan mentre regalava l’ultima carezza, poi li raggiunse davanti la porta di casa «Mi chiamo Augustine».
  «Piacere, io sono Mireille!» si presentò cominciando ad entrare «In effetti non me ne intendo molto, per cui le chiedo scusa se non l’ho riconosciuta. Lei, Elisio, la vedo così tanto spesso alla televisione che in genere mi darebbe fastidio, ma con tutto il bene che fa per noi è sempre un piacere! È un sollievo sapere che ci siano ancora persone di buon cuore al giorno d’oggi».
  Attraversarono il salottino con la cucina e il caminetto e salirono al piano superiore, dove c’era un corridoio con cinque porte, tra cui quella del bagno. La signora Mireille mostrò loro una ad una le camere da letto, ma mentre la donna parlava con Elisio per chiarire cifre e prezzi, Platan rimase colpito dal paesaggio che si vedeva oltre la finestra di una in particolare, la cui luce si riversava pallidamente sulle tende bianche facendole splendere del loro colore.
  «Per qualsiasi cosa dovesse servirvi, io e mio marito Louis dormiamo nella stanza al piano di sotto. Scegliete pure quella che preferite, per stanotte non abbiamo altre prenotazioni».
  Elisio si mosse come per rivolgersi ad Augustine, ma egli si era già addentrato nella camera ad osservare il tratto scosceso di terra che dalla villa scivolava fino al mare. Se ne stava con una mano appoggiata sul vetro, e i suoi occhi vagavano assorti tra il grigiore del cielo e l’aspro color nero degli scogli più in basso, oltre le chiome fragili degli alberi arroccati lungo le pendici del giardino.
  «Questa pare che gli piaccia molto», disse Elisio senza smettere di guardarlo. Sulle sue labbra si impresse un tenue sorriso.
  «Da qui si vede la scogliera», spiegò l’altro. Si girò per chiedergli che prendessero quella. Soltanto allora si accorse che il letto era a due piazze.
  «Ti va?».
  Elisio semplicemente annuì.
  «Scegliamo questa».
  «La matrimoniale, quindi. Ottimo! Se mi seguite giù procederemo con la registrazione dei documenti e il pagamento».
 
 
  Cenarono in un ristorante in riva al mare, rigorosamente a lume di candela, godendosi le ultime sfumature del giorno nel cielo ormai quasi limpido, dove il rosso del sole si univa all’azzurro della sera. Più tardi si fermarono a passeggiare lungo la spiaggia dall'odore umido e salmastro, con la sabbia ancora bagnata che si attaccava sotto le scarpe. Restarono finché l’orizzonte non si fu tramutato in una distesa indistinta di nero, ravvivata appena in qualche punto dal bagliore delle stelle e dei pescherecci lontani. Allora camminarono un po’ sul lungomare costeggiato dai lampioni, tenendosi stretti a braccetto.
  Verso una certa ora si avviarono sulla strada del ritorno, consci del fatto che l’indomani si sarebbero dovuti svegliare presto. Nelle loro menti già facevano capolino la sagoma slanciata della Torre Prisma e l’immagine del traffico e i rumori molesti della città che presto però diventavano nulla in confronto alla quiete di Petroglifari che ancora li circondava. Si crogiolarono in essa fino a che non rimisero piede nella villa. A quel punto, mentre sbadigliavano, si dissero che in fin dei conti era stata una bella giornata e che potevano considerarsi soddisfatti.
  Così, stanchi, erano saliti in camera. Si erano spogliati degli abiti e coricati nel letto, assonnati si erano stretti tra le braccia a sussurrarsi parole. Forse per un bacio o una carezza di troppo, avevano finito per fare l'amore, in silenzio, lentamente. I loro corpi si sfioravano appena, cauti, godendo di ogni minimo tocco, d’ogni respiro che si posava fragile sulla pelle nuda e subito fuggiva via imbarazzato, per poi tornare di nuovo, inquieto e tremante. Le dita correvano a serrare le labbra dell'altro, più spesso sigillate da un bacio, con la bocca morbida che premeva, forte, per celare i sospiri, perché nessuno doveva sentirli, nessuno doveva scoprirli. Come due amanti clandestini favoriti dall’oscurità della notte, nel buio della stanza si cercavano, si perdevano, si ritrovavano.
  Erano due rami d’albero venutisi incontro e intrecciati, accavallati come edera che tutto ricopre, col desiderio o forse la presunzione di diventare insieme una cosa sola. Ma per quanto si stringessero e si avvinghiassero i loro corpi non potevano permettere la loro unione e così restavano divisi, scontrandosi e annaspando mentre affogavano nelle onde tortuose che erano le loro membra. Allora si tormentavano nell’impossibilità di entrarsi più affondo di così, di non poter aprire uno squarcio nelle carni per trovarsi veramente, e all'improvviso si sentivano soli, lontani, inconciliabili.
  Bastava uno sguardo, però, affinché si scoprissero l'uno cupido dell'altro e tornassero a esplorarsi, consci del desiderio di entrambi di venirsi l’uno dentro l’altro.
  Platan si smarriva in ogni dettaglio che gli presentava il corpo del compagno, senza riuscire a raccapezzarsi e tuttavia non anelando ad altro che al disperdersi della propria mente in quel groviglio di percezioni, di suoni, di umori che trapelavano alla vista dell’altro.
  Il fiato corto. Le guance arrossate. Lo sguardo languido e quell’espressione di assoluta estasi impressa sul viso. Il suo ultimo gemito basso e soffocato entrò dolcissimo nelle orecchie di Augustine.
  Mentre Elisio si ristendeva tra le lenzuola, gli lasciò quegli istanti d'intimità più pura senza intromettersi. Osservò il suo volto in silenzio, accarezzandogli delicatamente il petto ampio che si contraeva sempre più lento mano a mano che riprendeva a respirare regolarmente.
  I suoi occhi solcarono attentamente la capigliatura stravolta, le labbra socchiuse colme di sospiri, rosse, la presa allentata della mano che poco prima si era allungata a stringere il lembo del cuscino.
  Era forse questo il vero Elisio?, si chiese all’improvviso. Quello spoglio, privo di ogni inibizione, fiero, grandioso, ma allo stesso tempo indifeso, fragile, un giglio sull'orlo del pianto.
  Augustine pensò con rammarico che magari in un giorno lontano si sarebbero separati e che allora quella smorfia meravigliosa non gli sarebbe più appartenuta, mostrata ad un'altra persona. Dunque, che gli sarebbe rimasto del suo essere più spontaneo? Forse un vago ricordo, o una sensazione lancinante nel petto, ma non avrebbe mai potuto possedere neppure una singola parte di lui che gli restasse per sempre, cristallizzata nella sua forma più pura al di là del tempo e dello spazio. Gli sarebbe sfuggito completamente, e dal suo distacco non avrebbe colto altro che qualcosa della propria singola individualità, una propria opinione, una propria visione, di cui Elisio non sarebbe stato che una congettura imprecisa, un’ipotesi, una mera supposizione.
  Si chinò sopra di lui a baciarlo sulla fronte, stringendogli delicatamente la testa tra le mani, con le dita che si infilavano nella bella barba curata, nei capelli, pago di tutto quello che si erano dati a vicenda, con la sottile ed innata intenzione di imprimerselo dentro ancor più visceralmente di quanto avrebbe umanamente potuto. Sdraiandosi al suo fianco, si permise di osservarlo ancora, senza nascondersi, e fu dolce quando sentì la sua mano, denudata del guanto che sempre la copriva, raggiungere le sue labbra e tastarle, accarezzarle piano, al punto che non poté trattenersi dall’offrire un’altra volta a quelle dita i propri baci.
  Restarono a fissarsi l’un l’altro, i visi così ravvicinati che la vista mutava le loro sembianze. Si abbracciarono sotto alle coperte, i corpi ancora accaldati, pregni del piacevole odore del sesso. Poi il sonno cominciò a scendere lungo le palpebre, gli occhi si chiusero. E ormai stretti tra le braccia di Morfeo si addormentarono.

 


~~~

 
1    Angolino del francese  
     Excusez-moi : Mi scusi ;
     Bien sûr : Ma certo/Certamente/Naturalmente ;
     Monsieur : Signore .
2  La prima volta che lo si incontra nel Laboratorio di Luminopoli in Pokémon X e Y, Elisio dice che: «Il Professore è stato per me una preziosa fonte di conoscenza sui Pokémon. Ciò che ho appreso mi sarà molto utile per il mio obiettivo di costruire un futuro migliore». Nella versione francese più precisamente dice: «Afin d'assurer un brillant avenir à ce monde, j'ai poussé mon étude des Pokémon aussi loin que je le pouvais, sous la bienveillante férule du Professeur», che tradotto in maniera molto molto spicciola sarebbe: «Al fine di assicurare un brillante avvenire a questo mondo, ho spinto/approfondito i miei studi sui Pokémon più in là che potevo, sotto la benevola autorità del Professore». Però se vogliamo andare un po' più a fondo, l'espressione être sous la férule de che poi si traduce con l'essere sotto l'autorità di, deriva dal fatto che la férule altro non è che il bastone che veniva utilizzato in ambito scolastico dagli insegnanti per disciplinare gli studenti, da qui per estensione ha iniziato ad indicare la sottomissione all'autorità in senso di potere di un'altra persona o cosa. Non avrei mai pensato che nella mia vita sarei mai riuscita a raggiungere simili livelli di ambiguità e doppi sensi vari in appena poche righe, ma facciamo finta che va bene anche così! Il punto a cui volevo arrivare era quello di mettere in risalto l'eventuale sottinteso del fatto che forse questi due potrebbero essere stati davvero alunno e professore nella maniera più propria. Dopotutto non sappiamo in che rapporti fossero effettivamente all'interno del gioco. È un'ipotesi che mi è sempre piaciuta molto e avrei voluto svilupparla meglio in una storia prima o poi, anche se qui in realtà ho provato a darle un taglio un po' particolare.
3  In realtà non so se ci sia bisogno di specificarlo, ma si dice che le coppie a cui capita di vedere Luvdisc siano destinate a vivere un'intensa passione che non avrà mai fine.


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Ciao a tutti!
L'idea per questa storia in realtà mi era venuta in mente un anno fa, penso proprio verso questo stesso periodo, ma mi sono decisa a scriverla soltanto quest'estate e soprattutto durante l'ultima sessione invernale tra una pausa dallo studio e l'altra mi sono messa sotto per cercare di finire questo primo pezzo. È una storia in due parti, quindi finirà con il prossimo capitolo che pubblicherò. Stavolta non dovrebbe essere qualcosa di eccessivamente lungo.
Per quanto riguarda l'ultima parte di questo capitolo, è la prima volta che scrivo qualcosa del genere, per cui spero di non averla resa in maniera troppo poetica da farla risultare banale. Alla fine ho anche voluto mettere un mio disegno, era da un po' in effetti che non mettevo delle illustrazioni. Spero che possa piacervi! (Edit: L'ho modificato rispetto a prima e ho lasciato solo le teste perché tutto il resto dei corpi non mi convinceva più...)

Ringrazio di cuore JoksBK, GingerGin e HolyBlackSpear per il loro prezioso supporto, e tutti coloro che sono passati di qui a dare un'occhiata. Dato che probabilmente nel frattempo non riuscirò a pubblicare altro, ne approfitto anche per fare a tutti quanti tantissimi auguri di buona Pasqua: spero che possiate passare delle belle vacanze, anche se corte!
Un abbraccio,
Persej
  
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