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Autore: alix katlice    01/04/2018    4 recensioni
Seconda classificata parimerito al contest Raccontami una Storia indetto da milla4 sul forum di EFP
Il rumore delle acque dell'Isonzo è lontano, coperto dal ticchettio della pioggia, ma Gaetano può sentirselo nel petto. L'Isonzo, dove si muore a torrenti umani e nulla finora si è raggiunto. Terre macchiate di lacrime e sangue. Fra qualche anno, fra qualche decennio, saliranno uomini e donne sulle vette del Sabotino, cammineranno fra le rocce dell'altopiano del Carso e shh, dirà il vento. Ascoltate i lamenti, flebili, di chi è morto con la faccia nel fango.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Storia partecipante al contest Raccontami una Storia indetto da milla4 sul forum di EFP.








Due bocche nel fango
 





 
« Albè... mi aiuti un attimo? »
« Vieni qui, su. »

La trincea è silenziosa, il chiacchiericcio soffuso dei loro compagni è lontano: la notte è fredda e nelle orecchie ha ancora spari, spari, spari. 

Gaetano tiene in mano un pezzo di carta stracciato, macchiato, umido della pioggerellina sottile che li ricopre. Allunga il braccio. Tieni, controlla un po'. Alberto è seduto a terra, la schiena contro i massi che compongono le pareti della trincea. Afferra la lettera, si apre la divisa e sfila un pennino dalla tasca interna, gli occhi che scivolano attenti di parola in parola.

Mentre lo osserva, Gaetano si rende conto che nel suo corpo, nell'incurvatura delle sue spalle, nel modo in cui le sue dita stringono la lettera, c'è qualcosa che non va. Gli ricorda il gattaccio di sua sorella: la colonna vertebrale inarcata e i peli ritti, la coda gonfia simile a quella di uno scoiattolo e i denti scoperti ...una tensione felina. È un'impressione strana, nuova. Intensa. 

« Che c'hai? » gli chiede, perché non sa tenersi un pensiero per sé (non quando è con Alberto, non da quando c'è Alberto).

« Sono stanco » gli risponde. Solleva lo sguardo dalla lettera e i suoi occhi sono morbidi. « Incazzato. » Gli fa un cenno e Gaetano si siede. 

Il rumore delle acque dell'Isonzo è lontano, coperto dal ticchettio della pioggia, ma Gaetano può sentirselo nel petto. L'Isonzo, dove si muore a torrenti umani e nulla finora si è raggiunto*(1). Terre macchiate di lacrime e sangue. Fra qualche anno, fra qualche decennio, saliranno uomini e donne sulle vette del Sabotino, cammineranno fra le rocce dell'altopiano del Carso e shh, dirà il vento. Ascoltate i lamenti, flebili, di chi è morto con la faccia nel fango. 

« Tutto giusto » è il responso di Alberto. Gli restituisce la lettera, le dita che accarezzano la carta. « Stai diventando troppo bravo. »

« Merito del maestro. »

Alberto gli sorride, e sa che dice sul serio. I suoi occhi sono stelle, la pelle è sporca di terra e sudore: l'idea di essere stato sul punto di vivere una vita senza di lui gli mozza il respiro, gli fa battere forte il cuore. Come sarebbe una vita senza morte? Una vita senza perenne puzza di piscio e merda, i corpi di compagni e nemici lasciati a marcire nella terra e nel sangue. Il canto docile della violenza che ci accarezza la nuca. Che vita è. Che vita è. Per chi, tutto questo. Per chi. Per chi, quando non combattiamo per nostra volontà, ma avanziamo verso il macello con i fucili dei nostri ufficiali e dei carabinieri puntati alla testa. Andiamo avanti non per coraggio, non per orgoglio, non per patriottismo: andiamo avanti per non morire come bestie, per vivere, almeno per qualche altro secondo. 

E, poiché Gaetano non sa tenersi un pensiero per sé, lo chiede: « Secondo te per chi stiamo combattendo? »

Alberto sorride e non risponde.

« Hai mangiato qualcosa, Gaetà? Quando c'hai fame sei 'na palla al piede. »

Le sue dita si stringono al petto dell'amico, a tirare leggermente la divisa (dai, sei serio?, mi ascolti? mi vedi): Alberto ha qualcosa di tagliente nello sguardo, qualcosa che stride con la linea scura e docile delle sue ciglia. 

« Dai » gli dice, anche se sa che Alberto ha capito -perché è bastato quel contatto, quel tocco un po' insistente, a fargli capire che è serio e che una risposta la vuole. Parla ad alta voce perché a volte va bene restare in silenzio e toccarsi di nascosto, a volte va bene singhiozzare con la sensazione di non avere più aria in corpo dopo un assalto, e a volte va bene sentirsi dire le cose come stanno. Per chi? Per cosa? Chi devo ringraziare, contro chi devo imprecare e piangere e urlare?

« Penso che quando ti trovi davanti ad uno che c'ha nelle mani un Mannlicher M95, e ce l'hai puntato in faccia, non te ne frega niente di chi è lui. Ti frega solo di chi sei tu, e di continuare ad esserlo » dice Alberto. Ha il volto sfregiato, ma è bello lo stesso. « Non lo so. Io-... non, non lo so. »

Qualcosa colpisce Gaetano all'altezza dello stomaco, qualcosa di gelido e fastidioso. Nella sua mente, l'Alberto che non sa, confuso e stanco, non coincide con l'Alberto sicuro e dagli occhi pieni di forza (anche nei momenti peggiori) che ha conosciuto e ammirato fino a questo momento. 

Sente il corpo dell'amico accanto a sé, il calore che rilascia, e vorrebbe avvicinarglisi: non lo fa. 

« Non so chi c'è sopra » continua Alberto. « So chi mi da gli ordini, e so chi da gli ordini a lui, perché li guardo negli occhi ogni giorno... ma poi? Tu stai combattendo per te, e chiunque ti troverai davanti domani combatterà per sé. »

« Albè, ma perché » chiede, domanda, prega. « Perché siamo costretti a... questo. »

Questo. La puzza dei cadaveri che impregna ormai vestiti e pelle. Abbassa la testa, ti dicono. Abbassa la testa e vai a morire. 

Alberto è stanco, Alberto è triste, Alberto è disperato e incazzato nero. Lo vede dal modo in cui stringe le dita attorno alla propria divisa, dal modo in cui il suo petto si abbassa lentamente mentre respira. Il suo mezzo sorriso, un marchio di riconoscimento, non dipinge il suo viso. Alberto è scuro, Alberto è colmo, Alberto è vivo e vuole solo tornarsene a casa.

« Non lo so. Non so nulla » dice. « Mi è arrivata una lettera ieri, nel pomeriggio, di un mio vecchio compagno di studi. C'è stata un'insurrezione nel suo reggimento, uomini che non volevano andare in trincea: hanno gridato, hanno sparato. Il colonnello ordina un'inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda: siano estratti a sorte dieci uomini, e siano fucilati. Colpirne dieci per educarli tutti, è atroce, ma è la guerra. Ma i fatti sono avvenuti il 28 scorso, e il 29 sono arrivati i "complementi". Dobbiamo imbussolare anche i nomi dei complementi? Non possono essere colpevoli, il 28 non c'erano, si domanda. E il colonnello, il colonnello dice, imbussolate tutti i nomi. Ne vengono pescati, fra i dieci, due. Due uomini che vengono fucilati assieme agli altri. Prima di morire, uno dei due, bendato, si rivolge al colonnello. Signor colonnello, io sono della classe del '75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c'ero. In nome di Dio! E, il colonnello: Figliuolo, io non posso cercare tutti quelli che c'erano e che non c'erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto.»*(2).

La sua bocca è deformata da una smorfia di disgusto, i suoi occhi lontani e irraggiungibili. Gaetano si pente, in questo momento, di aver avuto certi pensieri. Si pente di aver posto la domanda, di aver tirato fuori la questione: per chi stiamo combattendo?. Non ha importanza, non ora. Continuerà a non avere importanza fino a quando non saranno sani e salvi a chilometri e chilometri dalle trincee.

« Non ha importanza per chi stiamo combattendo » dice Alberto, come se avesse letto la sua mente. La fronte corrucciata, le labbra strette in una sottile linea. « Voglio solo tornarmene a casa. »

Il silenzio cala fra loro, la pioggia che si è fatta più intensa: nessuno potrebbe vederli, né sentirli. Gaetano allunga una mano e -con timore strisciante, afferra il polso di Alberto.

« Ci torni a casa. » Fa scorrere il pollice sulla sua mano in una ruvida carezza. « Ci torniamo tutti e due » dice, con l'improvvisa consapevolezza di star mentendo (lo sente sussurrare dal vento, dagli alberi scossi dalla pioggia violenta: ci morirai in quel buco). Ma c'è una piccola parte di sé che spera, che crede. Ne usciranno vivi entrambi, e ricorderanno. Ne usciranno vivi entrambi, e andranno di casa in casa a raccontare la merda, lo schifo, l'orrore che hanno dovuto subire. Immagina il volto di Alberto accarezzato dal sole, quel suo mezzo sorriso impresso sulla pelle: un po' più bello, un po' più pulito. 

« È una storia molto triste, quella del tuo amico » dice Gaetano.

« È atroce. »

« Potrei scrivere anche di quella, quando torneremo a casa. » 

Alberto gli rivolge un'occhiata piena di malinconia, ma gli sorride, e Gaetano improvvisamente viene investito da un'ondata di gratitudine. Alberto gli ha insegnato a scrivere, per poter comunicare con sua madre, suo padre, sua sorella. Alberto gli ha dato lo strumento per poter tirare fuori tutti quei racconti che affollavano la sua mente da bambino e da ragazzo: gli ha dato modo di mostrarli al mondo in tutta la loro cruenta bellezza, quando la guerra sarà finita. Alberto gli ha insegnato a vivere nelle trincee, a trovare i posti migliori per dormire, a riconoscere chi è degno di fiducia e chi ti denuncerebbe per una frase denigratoria detta sovrappensiero. Gaetano, classe '98 e figlio di contadini, è arrivato a combattere in trincea nel novembre del 1916 senza la più pallida idea di come si sopravvivesse nel mondo, figurarsi sul campo di battaglia. E le prime volte ha pianto, ha ingoiato la bile, ha stretto gli occhi di notte cercando di scomparire (nei suoi incubi, afferrava le mani di sua madre, suo padre, sua sorella e urlava urlava urlava). Fino a quando le mani di Alberto non si sono posate sulle sue spalle, dopo un assalto particolarmente cruento, e non gli ha retto la fronte mentre vomitava. 
E si sono trovati.

Alberto che in guerra gli ha dato tutto.

« Certo, scriverai anche di quella » gli dice.

Le loro dita si intrecciano, le loro spalle si sfiorano. La pioggia e la morte coprono ogni cosa, ma adesso, in questo preciso istante, c'è pace.  





 
[ Due giorni dopo, alle 02:00 in punto del 24 ottobre 1917, le artiglierie austro-tedesche iniziano a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza, alternando a granate convenzionali lanci di gas, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo.

Gaetano muore con un pugno alla gola, la sensazione che qualcuno stia risucchiando dai suoi polmoni tutta l'aria che fino a quel momento ha respirato nella vita. Negli occhi, il corpo di Alberto riverso a terra accanto al suo. Due bocche aperte nel fango. ]









 
Note super veloci:

*(1) Lettera di un generale dissidente a Giolitti, 1915
*(2) Silvio D'Amico, Diario di guerra (in: Corriere della Sera del 30 marzo 1980, rid.)


La prima guerra mondiale e la vita in trincea è un argomento così inquietante e angosciante per me che solitamente preferisco non leggerne: è un periodo che ho studiato però recentemente, quindi ho deciso di provare a rappresentare con le mie poche conoscenze quello che sono i miei pensieri riguardo ad un evento terribile della storia dell'umanità. 
Il finale è un po' brusco, ma era il senso che volevo dargli. Da soldato penso che tu abbia a che fare con la morte ogni giorno, ma non sai effettivamente quando/se arriverà: ho cercato di trasmettere questo senso di velocità e quasi imprevedibilità ma non sono sicura sia riuscito al meglio ahahahha vedremo!
Questo è un racconto su cui stavo ragionando da settimane ma che ho poi effettivamente scritto in due giorni: mi piace l'idea, mi piacciono i personaggi, la resa è un po' meh... ma non avrei saputo fare di meglio con un argomento del genere quindi eccoci qui. Spero che il racconto vi sia piaciuto, e ringrazio la giudice del contest per la disponibilità e la gentilezza :) 
 

Alice.


 





 

 

 
  
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