“Non impara mai, quella
benedetta ragazza”.
Agli occhi di una
statuaria Harmonia, tutto si mosse come a rallentatore: la sagoma verde
dell’altra sempre più vicina, la barriera a cupola
argento bianca che si
diramava dal suo corno fino a terra per proteggerla, le labbra della
Pitchiner
che si muovevano a pronunciare bestemmie irripetibili quando le sue
spade
s’infransero contro di essa in mille e mille frammenti
luccicanti.
Investita in pieno volto
da quell’esplosione di schegge ghiacciate, Emily Jane
finì per scivolare a
terra, rotolando nell’erba soffice per metri interi prima di
essere fermata dal
violento impatto contro un masso. Poco lontano da lei,
l’anello sfilatosi dal
suo dito nella caduta.
L’altra le
trotterellò
vicino, guardandola dall’alto in basso con un misto fra
pietà, compassione e
pure un pizzico di sano divertimento.
«Attaccare alle spalle
è
da codarde, non da regine» notò sarcastica
«ma non mi aspettavo proprio altro
da te, che una regina non lo sei mai stata. E mai lo sarai, se credi
che uno
scettro in mano possa improvvisamente renderti una sovrana: una corona
in testa
dice a tutti chi sei, ma dimostrarlo è tutt’altra
storia».
Trovato l’anello, si
chinò leggermente per afferrarlo.
«Una di quelle storie che
tu preferisci non vengano raccontate, visti i disastrosi
risu-»
«ME NE FOTTO DELLA TUA
OPINIONE!» la interruppe infuriata, tentando senza successo
di rimettersi in
piedi «Se per avere la tua testa dovrò giocare
sporco, allora che possa
crescermi il cazzo seduta stante se non giocherò
sporco!»
«Anche perché
è l’unico
modo in cui tu sappia giocare».
«TACI!»
Forte di un tremendo
rilascio di adrenalina causato dal terrore di perdere nuovamente i
propri
poteri, bastò un suo calcio ben assestato sul metatarso di
una delle zampe
posteriori di Harmonia per sentire un “crack” per
farla crollare a terra con un
tonfo sordo, rendendola vittima della sua stessa imponente stazza.
Scansatasi all’ultimo
dalla traiettoria di quella massa di muscoli che avrebbe potuto ridurla
allo
spessore di un waffles, afferrando l’anello al volo, subito
Madre Natura si
alzò e ritrovò velocemente
l’equilibrio, ignorando il cuore che pareva volerle
uscire dal petto e i polmoni affamati d’aria che imploravano
un time-out che
non sarebbe mai stato loro concesso: era una guerra, quella, e in
guerra le
pause caffè non erano contemplate.
Soddisfatta, guardando la
donna che giaceva a terra con la stessa aria di superiorità
che lei aveva
mostrato nei suoi riguardi poco prima, Emily sorrise: non disse niente
di
niente, non commentò compiaciuta quello scambio di posti a
suo favore, curiosamente
non perse nemmeno tempo a blaterare su quanto fosse grande e potente e
divina
com’era solita fare! Molto semplicemente, tese un braccio
davanti a sé, le
foglie verdastre del suo abito che andavano lentamente ricoprendosi di
scintille azzurrine scoppiettanti che sfrigolavano al contatto con la
pelle
delle sue dita, sulle quali iniziarono a concentrarsi quei filamenti
luminosi.
Le saggiò qualche
istante, poi si rivolse ad Harmonia.
«Ultime parole prima che
ti frigga come un pollo da KFC?»
«Attenta al ritorno di
fiamma» rise la centauressa.
«Vedrò di
ricordarmelo»
promise, e allora chiuse la mano a pugno.
E fu l’inferno.
Non solo quella belva
famelica di puro plasma si stava riversando fuori dalle fessure fra un
dito e
l’altro avventandosi sul corpo inerme della sovrana, non solo
aveva
carbonizzato il suolo intorno a lei lasciandosi dietro macchie di terra
vetrificata, ma ciò che era iniziato come un
“piccolo” fulmine si era
trasformato in una vera e propria gabbia incandescente discesa dal
cielo, per
Harmonia.
Un cielo sereno e sgombro
da nubi, prima, ma ormai nero e buio e percorso da tremendi lampi che
illuminavano a giorno il paesaggio ormai notturno.
Quando l’odore della
carne bruciata inebriò le narici della signora incontrastata
degli elementi, un
grido di gioia si levò alto nella sua mente, mentre il suo
corpo -tremante per
l’emozione- non rispose: ce l’aveva fatta, ce
l’aveva fatta! Si era presa la
propria rivincita nonostante Harmonia giocasse in casa!
Poi Emily Jane abbassò
lo
sguardo verso il proprio piede, e si rese conto di essere
lei a stare andando a fuoco.
«Come diavolo
è-»
Il ritorno di fiamma
annunciato poco prima la travolse.
Fortunatamente per lei,
le foglie del suo abito assorbirono quella tremenda fiammata al posto
della sua
delicata pelle diafana, riducendosi a un cumulo bruciacchiato e
maleodorante di
un bel nero carbone.
La Regina di Phantasia, invece,
raggiante e fresca come la rosa arcobaleno che aveva fra i capelli, si
rialzò senza
fretta, placidamente, forte dell’impenetrabile barriera che
l’aveva protetta.
Le si avvicinò.
«Io te lo avevo detto, di
stare attenta» fece spallucce.
Dentro di sé, la figlia
dell’Uomo Nero avrebbe voluto morire seduta stante: che
umiliazione! Che
umiliazione! Va bene l’essere messa in difficoltà
da attacco altrui, ma cadere
vittima dei propri stessi poteri… ah!
Forse avrebbe dovuto
rinunciarci, alla sua voglia di riscatto, proprio come aveva fatto suo
padre
coi guardiani: lui si era ritirato insieme a Gwenllian per cercare di
ricostruire la loro storia amorosa, lei avrebbe dovuto ritirarsi dal
conflitto
e abbracciare serenamente la propria miseria. Sapeva di non essere nata
per
vincere, era un vizio di famiglia quello di passare letteralmente dalle
stelle
stalle, e la chiara dimostrazione di ciò l’aveva
proprio sotto il naso
ereditato da papà, sul proprio abito ormai carbonizzato.
Nonostante la voglia di arrendersi
fosse più forte che mai, però, quella di
riscattarsi lo era ancora di più, o
almeno provava ad esserlo: forse quello era stato solo un incidente di
percorso,
nulla di più, forse dandosi un’altra
possibilità ce l’avrebbe fatta, forse…
forse… nah, troppi forse.
Gettò lo sguardo verso
l’anello, verso lo scettro: aveva sputato sangue -e non solo
metaforicamente
parlando- per riaverlo indietro, cos’aveva da perdere nello
sputare altro
sangue per tenerselo? La vita, magari? Ah! Per quanto le importasse
della sua
miserevole esistenza, quella avrebbe potuto tranquillamente prenderla
chicchessia e anzi, l’avrebbe ceduta volentieri lei stessa!
Non valeva la pena vivere
senza lo scettro, senza essere Madre Natura, e lo sapeva fin troppo
bene da
trent’anni a quella parte: o da Quetzalli usciva vincitrice,
o da Quetzalli
usciva a piedi in avanti.
La voglia di mettersi una
corona sul capo la spinse a rialzarsi, a riprovarci, a riscattarsi: non
si
sarebbe arresa, no! Avrebbe insistito e insistito, tentato e ritentato,
provato
e riprovato!
Salvo fallire
miseramente, ma quelli erano dettagli.
Una, due, tre, quattro,
cinque, dieci, aveva perso il conto di tutte le furiose cariche a testa
bassa e
muso duro nelle quali si era impegnata pur di far cedere Harmonia, ma
ogni
volta il risultato era sempre e solo lo stesso: più lo
colpiva, più quello
scudo magico assorbiva ogni suo attacco, ricacciandoglielo indietro
dieci volte
più devastante di quanto già non fosse; di quel
passo, più che uno scontro
corpo a corpo sarebbe diventata una guerra di logoramento, dove avrebbe
vinto
chi sarebbe rimasto in piedi più a lungo.
E chi avrebbe sprecato
meno energie a mollare un affondo dopo l’altro, colpo su
colpo, ignorando la
totale inefficacia dell’affrontare il combattimento in quel
modo tanto inutile
quanto dispendioso.
Ignorando il buonsenso,
di nuovo Emily tornò alla carica, rabbiosa e furiosa e
talmente accecata dal
desiderio di vendetta da essere certa che avrebbe funzionato, questa
volta.
Ottenendo lo stesso,
identico, mesto, risultato di sempre.
Armi, mani nude, elementi
naturali vari ed eventuali sui quali esercitava il proprio controllo,
nulla
pareva funzionare: Harmonia era in piedi, lei era sull’erba a
mangiare la terra;
dopo l’ennesima di quelle spiacevoli quanto umilianti cadute,
capì che un attacco
a distanza era l’unico metodo vagamente sicuro grazie al
quale avrebbe potuto
ottenere un qualche risultato in quello scontro: non poteva resistere
in
eterno, né ai colpi né a un utilizzo della magia
così massiccio, doveva darsi
una svegliata e farlo subito.
Approfittando della
vicinanza di un albero dinanzi al quale era stata scaraventata,
piantò con
decisione le proprie dita nella corteccia della pianta. Qualche
istante, e
decine di tronchi acuminati perforarono violentemente il soffice
terreno come
chiodi piantati in un muro, spuntando uno ad uno a velocità
disarmante in linea
retta verso la centauressa.
Harmonia, però, non si
fece cogliere impreparata.
Immobile come una statua
millenaria, senza mai staccare lo sguardo da quei fusti affilati che le
stavano
venendo addosso, attese che fossero a pochi metri da lei.
Sorrise.
«Riesci a intrufolarti a
Quetzalli senza farti scoprire»
s’impennò sulle zampe posteriori
«riacquisti i
poteri di Madre Natura» attese qualche secondo in quella
posizione, sforzandosi
terribilmente per mantenere l’equilibrio «millanti
chissà quale tremenda
vendetta» finalmente, lasciò ricadere il muscoloso
e pesante corpo equino a
terra, premurandosi di caricare tutto il peso sugli zoccoli anteriori
«e
qualche scheggia di legno è tutto ciò che sei in
grado di fare?»
L’onda d’urto
che ne
scaturì fu qualcosa di apocalittico, talmente potente da
piegare e spezzare e ridurre
in trucioli quei tronchi con la stessa facilità con la quale
si può spezzare un
fiammifero.
Facendo scrocchiare il
legno sotto i propri zoccoli, si avvicinò
all’altra a braccia spalancate, come
a dirle “Questa è la direzione in cui devi
guardare per capire quanto i tuoi
sforzi siano completamente inutili”.
Le si fermò davanti.
«Non sono un vampiro,
Emily, temo che tu debba scegliere un approccio differente dal ficcarmi
dei paletti
di frassino nel cuore per riuscire ad avere la meglio».
Detto fatto.
Non ebbe neanche il tempo
per voltarsi o di far scendere su di sé la barriera, che la
Pitchiner le
comparve alle spalle, a cavalcioni sul dorso; nelle mani, lo scettro.
Un movimento
deciso, e glielo conficcò alla base della schiena,
facendoglielo uscire dalla
bocca grazie all’angolazione che si era curata di imprimere
prima di
affondarglielo nelle carni.
Non un grido, non una
parola, non un lamento: sangue, solo sangue, nulla di più
era uscito dalle
labbra di Harmonia.
«Stavi
dicendo?» la
schernì.
Sfilato l’artefatto, le
saltò
giù dalla groppa; fischiettando, iniziò a girarle
intorno, fermandosi solo
quando si trovò davanti al volto inespressivo della donna
che, trent’anni
prima, le aveva rovinato l’esistenza:
c’è l’aveva fatta per
davvero, dunque? Sospettosa, le prese un polso per auscultare
se ci fosse battito: nessun segno di vita.
Prima ancora che potesse
abbandonarsi
a quel turbine di emozioni impossibile da descrivere a parole che la
stava
lentamente investendo, però, dalla bocca della sovrana
uscì… una farfalla?
Credendo di essere preda
delle allucinazioni da overdose di endorfina causate da tanta
felicità arrivata
in così poco tempo, evocò una radice che la
sollevasse all’altezza del volto
dell’altra, così da poter controllare da vicino.
Allungò il capo.
«Ma cos-»
Il tempo di sporgersi
appena, e uno sciame di lepidotteri le volò addosso.
Nel comico e disperato tentativo
di scacciare quelle bestie immonde menando botte da orbi al nulla, la
povera
donna cadde a terra; da lì, tanto ammaliata quanto
orripilata dallo spettacolo,
osservò il corpo di Harmonia dissolversi nell’aria
in un turbine di piccoli
insetti dorati che volarono subito via oltre le nubi di tempesta. Di
loro non
rimase nulla, se non un’impercettibile polverina luminescente
dello stesso
colore cascata direttamente dalle loro ali e, poi, posatasi al suolo
come
zucchero a velo su di una torta.
Non rimase nulla della
loro presenza, e non rimase nulla nemmeno di quella della regina di
Phantasia.
Cercando di controllare
l’improvviso attacco di papilofobia, si guardò
furiosamente intorno: dove
diavolo era finita? Cosa diavolo era successo? Che diavolo avrebbe
dovuto
pensare? Aveva vinto? Aveva perso? COSA?!!
Alle ultime domande,
però, una risposta l’aveva: Harmonia doveva
essere viva per forza di cose, non c’erano alternative. Se
fosse stata davvero morta, allora a
quest’ora l’intero
pianeta Exodus sarebbe dovuto essere solamente una biglia arida e
desolata e
sterile che galleggia nello spazio, proprio come lo era stato prima che
l’ultima principessa Starequus lo facesse rifiorire grazie ai
propri poteri,
dopo che il
Kælikantzoroi Th’asteria lo aveva raso al suolo: era la
guardiana della fantasia, ma ciò che aveva
creato e che creava era fin troppo reale.
Mossa dalla
consapevolezza che quindi quella battaglia fosse tutto tranne che
terminata,
Emily Jane iniziò a cercare e ricercare ovunque
l’altra donna, decisa a
scovarla e farla finita una volta per tutte.
Dapprima si limitò
all’utilizzare la vista, aguzzando lo sguardo in cerca del
movimento di un filo
d’erba, di una foglia ancora verde caduta nonostante la
mancanza di vento, di
un’onda creatasi nell’acqua. Poi, risoluta, si
mosse di persona, chinandosi a
controllare ogni più piccolo anfratto, strisciando in
qualsiasi cunicolo le
capitasse a tiro -persino quelli delle talpe, da quanto era decisa o
partita di
cervello che dir si voglia- e arrampicandosi sugli alberi, totalmente
incurante
delle escoriazioni che andava procurandosi. Infine, vista la mancanza
di
risultati e la rottura di ovaie che la stava assalendo, convenne che
fosse il
momento di tirare fuori i trucchetti di magia: se i vegetali erano
sensibili a
carezze e parole smielate, allora erano anche sufficientemente
senzienti da
poterle dire dove si trovasse la regina.
Poggiò un ginocchio e un
palmo a terra, chinando il capo. Chiuse gli occhi: immediatamente,
dalla sua
mano andarono diramandosi sottilissimi venature verde acceso che
raggiunsero
ogni albero, ogni foglia, ogni più piccola nervatura delle
stesse; adesso,
tutto pareva risplendere di una luce intermittente, come se attraverso
quei
canali le piante si stessero scambiando curiosi messaggi sottoforma di
impulsi
di linfa vitale.
E in effetti era proprio
ciò che stava accadendo.
Adesso, i suoi occhi
erano le piante alle quali si era connessa come se fosse stata una vera
e
propria rete informatica, tanti terminali che attraverso le proprie
pupille
-costituite dalle folte chiome e dai rami nodosi e dai tronchi spessi e
vecchi-
si scambiavano informazioni fra loro e poi le passavano a lei, al
mainframe,
permettendole di vedere e avvertire tutto ciò che vedevano e
avvertivano i
vegetali.
Il tempo di isolare le
voci degli alberi -che, ahimè, sentiva eccome, quel brusio
profondo e
indistinto faceva parte del pacchetto- dalle altre sensazioni che
provava sulla
propria pelle, e il “tutto ciò” di prima
finalmente comprese anche il peso
degli zoccoli della centauressa sul manto erboso. Che, poverello,
gridava pure
di dolore, mentalmente s’intende.
Non perse nemmeno un
istante: subito, senza attendere, evocò delle radici che
potessero trafiggerla.
Perse il segnale.
Salvo riottenerlo poco
dopo.
Ripeté ancora il
procedimento.
E poi ancora.
E ancora.
E ancora, in un circolo
vizioso senza fine: Harmonia appariva e scompariva, appariva e
scompariva,
appariva e scompariva, e lei di rimando era contenta e poi incazzata,
contenta
e poi incazzata, contenta e poi incazzata.
Improvvisamente, quando era ormai
talmente esasperata da volersi
disconnettere e fare le cose “alla cazzo di cane, di gatto e
di tutto lo zoo”,
un nuovo segnale prese forma in quella sorta di Wolrd Wide Web
Ecofriendly
Edition; allarmata e speranzosa, lo esaminò: era uno solo,
piccolo,
insignificante, quasi invisibile, rispetto all’imponente
sagoma della sovrana
che appariva quando veniva rilevata la sua presenza. Il dubbio che
avesse
intuito le sue intenzioni e cambiato forma di conseguenza le strinse lo
stomaco:
non sapeva cosa dovesse aspettarsi, e ciò la rendeva
più inquieta di quanto avrebbe
dovuto esserlo qualcuno con poteri della sua portata.
Notando che suddetto punto era in
avvicinamento piuttosto velocemente,
però, trovò il coraggio di agire: aprì
gli occhi, già con i palmi carichi di
energia per attaccare.
«Vieni fuori, codarda che
non sei altro!» gridò a squarciagola
«Smettila di nasconderti dietro delle dannatissime illusioni
e fatti vedere,
così la risolviamo da regina a regina una volta per tutte! O
forse hai troppa-»
si sentì tirare l’abito.
Non vedendo nessuno intorno e
dietro di lei, abbassò lo sguardo: uno… gnomo? Uno gnomo armato d’ascia
che
cavalcava una nutria a petto nudo?
“Promemoria per me: mai
bere prima del lavoro”.
Convinta fosse un’altra
delle sue solite allucinazioni, si strofinò a
lungo gli occhi: era ancora lì, e la guardava in modo
indecifrabile con i
propri grandi occhi neri da pesce lesso.
«Do you know da
wae?» le domandò dopo qualche istante con un
accento
grave, profondo, che le ricordava fin troppo quello di un film
ugandiano visto
durante una serata all’insegna del trash.
Lei lo fisso a metà fra
il divertito e il sinceramente confuso.
«…
Come?»
«Da wae»
ripeté l’esserino «Do you know da
wae?»
«Cosa sarebbe
“da wae”?»
Prima che quella creatura le
rispondesse, avvertì un altro segnale;
qualche secondo, e le si palesò dinanzi un altro essere
assolutamente identico
a quello precedente, a differenza del cappello che -anziché
rosso- era blu.
Iniziò a scambiarsi
vigorosi schiocchi della lingua sul palato con il
collega, poi rivolse lo sguardo verso la Pitchiner.
«Do you know da
wae?» le domandò anche questo.
«Can you show us da
wae?» rincarò la dose l’altro.
Si massaggiò le tempie,
rassegnata.
«Ragazzi, io non so
cosa-»
Nemmeno il tempo di finire la
frase, e l’ennesima creatura le comparve
davanti agli occhi.
Si mise ad annusarla insieme alla
propria nutria, si scambiò uno schiocco
con i propri simili e alzò il capo verso di lei.
«You do not smell like
ebola!» asserì visibilmente contrariato, poi si
girò verso i compagni «She is a fake Queen my
bruddas! She does not know da
wae!»
Senza che potesse controbattere
-non sapeva come, dal momento che
nemmeno capiva cosa diavolo volessero da lei!- a quel curioso teatrino,
la
testa parve sul punto di esploderle: ancora connessa ai vegetali
com’era,
avvertì un altro segnale, poi dieci, cento, mille.
Non aveva la minima idea di quanti
diavolo fossero,
ma una cosa la sapeva: era circondata, era circondata da fottutissimi
gnomi dai
cappelli rossi e blu armati fino ai denti di asce e primitive lance e
martelli
che, adesso, stavano inveendo contro di lei a suon di forti e rumorosi
schiocchi di lingua sul palato.
Era assurdo.
Uno di loro -probabilmente il
capotribù,
considerando che era l’unico a portare un cappello giallo- si
fece avanti
trotterellando sul proprio animale, fermandosi ai suoi piedi.
Alzò un braccio,
indicandola.
«SPIT ON HER MY BRUDDAS!
SPIT ON DA FAKE QUEEN!»
«FAKE QUEEN! FAKE QUEEN!
FAKE QUEEN!» si levò alto un coro mentre gli
gnomi le si stringevano intorno «FAKE QUEEN! FAKE QUEEN! NO
MERCY FOR DA FAKE
QUEEN!» un rantolo grottesco iniziò a provenire
dalle loro gole «YOU WILL
FREEZE! DA FAKE QUEEN WILL FREEEZE!»
Poi le sputarono addosso in massa.
Le sputarono addosso.
Cristo.
Tanto schifata quanto spaventata da
quella tragicomica situazione
nella quale si era involontariamente infilata, Emily Jane
mulinò in aria lo
scettro per mettervi un punto… o almeno ci provò,
dal momento che uno sputo
raggiunse pure quello.
Al contrario di ciò che
si sarebbe potuto pensare, se la Pitchiner non
lo stava utilizzando non era per il disgusto, ma perché
materialmente
impossibilitata a farlo; la saliva posatasi sul suo corpo, infatti, si
stava
indurendo come se fosse stata gesso, immobilizzando lei e intrappolando
il suo
bastone in un ripugnante involucro semi trasparente a pochi centimetri
dalle
sue mani.
Quando poi credeva che la
situazione non potesse degenerare
ulteriormente, arrivò il colpo di grazia.
Dagli alberi, con tutta
l’eleganza e la calma del cosmo, spuntò
Harmonia, impettita sui suoi zoccoli scintillanti e con uno sguardo di
perculìo
così tagliente che avrebbe potuto trafiggere la sua
contendente come se fosse
stata fatta di burro.
Appena la vide comparire, lo gnomo
capo si mise sull’attenti.
«STAAAAAAAAP MY
BRUDDAS!» gridò.
Subito, tutti smisero di
sputacchiarle addosso, rivolgendo le proprie
attenzioni e i propri occhi estasiati alla Regina di Phantasia.
Quello col cappello giallo le si
avvicinò, fremente. L’annusò.
«SHE SMELL LIKE EBOLA MY
BRUDDAS! SHE IS OUR REAL QUEEN!» concluse
entusiasta «OUR QUEEN IS HERE! OUR QUEEN IS HERE TO SHOW US
DA WAE MY BRUDDAS!»
«DA QUEEN! DA QUEEN! DA
QUEEN!» convennero tutti.
Immediatamente, accerchiarono la
centauressa, ma senza sputarle
addosso: le salirono in groppa saltellando e ballando sulla stessa, le
abbracciarono le zampe strusciandovisi contro, la coprirono di baci
dopo essersi
arrampicati fin sulle sue spalle, scivolano giù per le onde
che la coda creava
muovendosi nell’etere, addirittura le spazzolarono i capelli!
Harmonia li lasciò fare
a lungo, senza fretta, fino a quando il loro
capo non le si mise davanti esibendosi in un goffo inchino.
«Do you know da
wae?» le chiese.
«I know da wae»
sorrise la donna «and I will show to you and your bruddas
da wae later, Commander Gaztons».
«She is a fake
Queen» di rimando, le indicò la figlia
dell’Uomo Nero
«she does not smell like Ebola, she is a poser. But we
bruddas spit on her my
Queen! We give her no mercy!»
«Thank you brudda, da
Queen blesses you» gli sfilò delicatamente il
cappello e, dopo essersi abbassata, gli diede un bacio sulla testa.
Additò un
punto non meglio definito nel folto del Tauremorna, assicurandosi che
la
vedessero tutti gli gnomi «This is da wae, my bruddas, da wae
that da Queen
show you!» concluse.
Dire che a quelle parole fosse
corrisposto un terremoto di grado sette
per lo spostamento in massa sarebbe stato un eufemismo.
Tre secondi prima il luogo era
pieno di gnomi impegnati ad ascoltare
la sovrana nemmeno fosse una dea scesa in terra, tre secondi dopo puff, spariti, volatilizzati, galoppati
via sul dorso delle loro nutrie dal pelo ispido verso da wae,
“la via”.
Non poteva andare peggio.
Rimaste finalmente sole, Harmonia
le si avvicinò, facendo un breve
inchino di scherno appena l’ebbe davanti. Sfiorò
il liquido viscoso -ormai
quasi completamente solido- che teneva in gabbia l’altra,
saggiandolo fra le
dita.
«Comoda nel tuo bozzolo
di saliva di gnomo?»
«Fottiti».
«Farmi fottere
è precisamente ciò che spero di poter fare questa
sera»
convenne con una punta di acidità che non tentò
nemmeno di nascondere «sempre
che per allora abbia ancora una donna che possa fottermi,
s’intende. E da ciò
che mi hanno detto non è una cosa che dovrei dare
così per scontata, mi
sbaglio?»
«Oh no, non ti sbagli
affatto» sorrise Emily Jane «anzi, oserei dire
che sei fin troppo ottimista: l’ultima volta che ho visto la
tua compagna questa
era mezza morta, agonizzante, infilzata come un pollo allo spiedo sul
mio
scettro» con lo sguardo, lo indicò «che
implorava la mia pietà e rinnegava la
sua reginetta dai boccoli arcobaleno. Ora come ora, probabilmente
quella
serpentessa schifosa è già carne per le
mosche» rise.
La regina, contro ogni sua
aspettativa, la imitò.
«Passi pure per Myricae
che mi rinnega per avere salva la vita, ma lei
che implora pietà? Se vuoi che io ci
creda, allora in futuro dovrai inventarti qualcosa di ben
più credibile di
certe baggianate, Emily Jane Pitchiner, perché che quella
benedetta Ophidian
sia disposta a farsi decapitare piuttosto che cedere ai ricatti di
chicchessia
è un dato di fatto che ormai persino i fili d’erba
conoscono!» fece una breve
pausa «E immagino che te lo abbiano già detto,
visto quanto ci hai conversato».
Un’espressione di pura
sorpresa si dipinse sul volto della Pitchiner:
sapeva tutto, tutto, aveva intuito
le
sue mosse fin dal primissimo istante!
«… Tu sapevi
che-»
«Che stavi tracciando i
miei movimenti? Ovviamente».
Iniziò a girarle
intorno, sfiorandole il volto con la coda fluttuante
solo per infastidirla.
«In
caso contrario, non avrei
certo chiesto aiuto agli gnomi per confonderti: si chiama strategia, ma
non
pretendo che una come te la conosca, considerando che -sebbene la
strategia
migliore per sopravvivere fosse farsi gli affari propri sulla Terra-
sei venuta
a minacciare, ad attaccare, a uccidere, la mia
gente. Di nuovo».
Si fermò,
afferrandole il mento con una certa prepotenza «Sei
tremendamente prevedibile, lo
sai? Sono stati trent’anni di pace, quelli passati dal nostro
ultimo incontro e
scontro, ma in cuor mio ho sempre immaginato che prima o poi saresti
tornata a
riprenderti ciò che sostieni ti appartenga“di
diritto”, per cui-»
«Non lo sostengo, è così»
la
interruppe bruscamente, liberandosi dalla presa delle sue dita
«e lo sai anche
tu: quello scettro contiene i poteri di Madre Natura, gli stessi che io vi ho riversato dentro
perché nessuno
me li rubasse e, dal momento che sono io
Madre Natura, allora quelli sono i miei
poteri. A me sono stati donati, e solo a me possono e devono
essere restituiti: nessun altro può averli né
reclamarli,
nessuno se non la sottoscritta!»
«Ed è proprio
qui che ti sbagli, carissima».
Con in volto un ghigno beffardo che
non sembrava nemmeno appartenerle,
Harmonia si chinò fino a incrociare i suoi occhi, due pepite
d’oro nelle quali
piantò il proprio sguardo rosa azzurrino che ci
affondò dentro come un pugnale.
«Quelli sono i poteri di
Madre Natura, che -come certamente saprai-
è solo un titolo come tanti: duca, conte,
principessa, regina, Madre Natura, sono solo e soltanto modi diversi
per
identificare la posizione sociale di una persona; inoltre, come tutti i
titoli,
può ovviamente essere assegnato a chiunque si dimostri degno
e volenteroso di caricarsi
suddetto macigno sulle spalle, un macigno che va ben oltre il
giocherellare con
nubi che seguano i propri nemici tutto il giorno. Pensa che potrei
diventare
Madre Natura anche io, proprio qui, senza tanti fronzoli e cerimonie
d’investitura come per i guardiani, mi basterebbe prendere il
tuo bastone et
voilà! Cambio di testimone!» scoppiò a
ridere.
Si girò.
«Inoltre, se non ricordo
male, il titano Typhan ti ha fatto dono di
quei poteri con l’intento di utilizzarli per fare del bene,
non per fare del
male» le si avvicinò all’orecchio
«Scommetto che infatti non rispondono come
dovrebbero, vero?»
«C-come fai a…
sa-saperlo?»
«Ricevere le avanche del
principe dei Lunanoff ha i suoi vantaggi,
tipo quello di venire a conoscenza dei cazzi delle altre Costellazioni
senza
volerlo» fece spallucce «delle Costellazioni, e
anche della figlia di un
generale caduto in disgrazia per essere andato a ficcare il proprio
naso negli
affari di famiglie del calibro degli Alab…
Abalar… Alderab-»
«Aldebaran».
«Quelli lì,
brava. E poi anche i... i Cha… Chacha… no,
aspetta…
Champasemar… no, no, non era così…
Cha-»
«Chandrasekhar»
sbuffò.
Harmonia schioccò le
dita, come se avesse improvvisamente avuto un’illuminazione.
«Loro, sì, i
sovrani dei complotti e i signori dei draghi!»
confermò
schioccando le dita, come se avesse avuto un’illuminazione
«Quelli che ti hanno
distrutto la famiglia, insomma, anche se sappiamo entrambe che sarebbe
più
accurato dire che è stato papà a cercarsi le
rogne: se fosse stato al proprio
posto, allora-»
«Cosa sai tu
di ciò che mi è
successo?!»
Black
out globaletotale.
Al momento, nella già
confusa mente della figlia dell’Uomo Nero era
appena scatto l’allarme rosso, rossissimo, più
rosso del suo volto avvampato
dal dubbio: chi le aveva parlato del suo passato? Come faceva a
conoscere certi
dettagli e, addirittura, millantare di essere a conoscenza anche di
altri? Ma
soprattutto, quanto sapeva?
Da lei non era uscita mezza parola,
da Phobos nemmeno -non avendo lui ancora
incontrato la centauressa-, dovette persino scartare dalla lista dei
sospettati
quel puttaniere infame di suo padre dal momento che, sfortunatamente
per lui e
fortunatamente per lei, della sua vita come il generale Kozmotis
Pitchiner
ricordava solo vaghissimi e sporadici momenti, e la maggior parte di
essi non
comprendevano sua figlia.
Come se avesse intuito i dubbi che
la assillavano, l’altra donna -intanto
sedutasi comodamente a terra, con le braccia poggiate su di un masso-
prese
parola.
«Non so nulla, in
realtà, solo ciò che Manny -fra un tè
e una proposta
di matrimonio- mi ha riferito settecento anni fa, suppongo per cercare
di
impressionarmi con le sue doti di cantastorie» rise,
facendole
involontariamente tirare un lunghissimo sospiro di sollievo.
Si fece pensierosa.
«Però ricordo
chiaramente che mi raccontò di questa bella bambina
dagli occhi dorati e i capelli corvini, figlia di una donna che aveva
sposato
questo grande generale tanto amato dal popolo quanto ritenuto
fastidioso da chi
aveva qualcosa da nascondere, una dolce e tenera frugoletta che aveva
sempre
avuto un’infanzia piena di amore, di affetto e di ignoranza
verso i giochi di
corte» si abbracciò da sola, ovviamente in segno
di scherno. Finse di
rabbuiarsi in volto «Ma poi il suo papà, un certo
generale Koyotis se non
ricordo male, ha pisciato fuori dal vaso, ficcando il suo grooosso naso
nei
gombloddi di una famiggghia relativamente potente,
all’apparenza, ma che dietro
le quinte aveva nelle mani un impero. E allora…».
«Taci» le
intimò Emily, la rabbia che iniziava a montarle dentro
insieme alla magia.
La sovrana, ovviamente, non le
diede retta.
«Tacere? E
perché dovrei? Sono stata brava e buona, ti ho dato una
seconda possibilità quando chiunque altro -con
ciò che avevi combinato- nemmeno
ti avrebbe lasciato in vita, ho cercato di ragionare con te
perché desistessi:
dal momento che con le belle parole non ho ottenuto nulla, non
biasimarmi se
ora faccio la parte della donnaccia acida e cattiva che usa il tuo
stesso
tragico passato per farti del male» agitò le mani
davanti a sé, come a
discolparsi, le labbra impegnate in un sorriso che diceva
“hai voluto la
bicicletta? Ora pedala”.
«Ma non perdiamo altro
tempo! Dicevo, a quel punto è successo un bel patatracchete,
eh già! Caccia grossa a suddetto generale, morte della sua
cara mogliettina per
una serie di sfortunati eventi, fuga verso la-»
«Taci»
pronunciò di nuovo,
questa volta con una voce differente, gutturale, a tratti inquietante,
gli
occhi ridotti a due fessure perse fra la pelle che stava
inspiegabilmente
andando scurendosi sulla fronte, sugli avambracci e sui polpacci;
Harmonia,
tuttavia, non notò quei cambiamenti, coperta
com’era dai capelli la prima e da
quella gabbia semi trasparente gli ultimi due.
Come pure non notò i
pugni stretti di una Pitchiner -che,
intrappolata, non avrebbe dovuto nemmeno riuscire a gonfiare troppo i
polmoni-
furiosa, le sottili venature verde acceso illuminatasi a disegnarle una
mappa sulla
pelle, la prigione di saliva coperta di crepe scriocchiolanti.
Totalmente estranea a tutti quei
dettagli che non preannunciavano
nulla di più, la Regina di Phantasia continuò a
infierire.
«Come sei
noiosa!» sbuffò indispettita «Guarda, se
proprio vuoi la
farò corta, ma solo perché il resto è
storia: tuo padre che diventa Pitch
Black, la fine della Golden Age e la cancellazione della stragrande
maggiorranza
delle Costellazioni, tu che vieni presa sotto l’ala da un
titano morente che ti
accudisce, ti mente perché ti vuole tutta per sé
manco fosse un vecchio maniaco
e, dulcis in fundo, ti dona i poteri di Madre Natura. E quando tu
scopri la
verità cosa ne fai, di questo ben di dio?»
Emily, in vena di fare tutto tranne
che rispondere, rimase in
silenzio.
«Distruggi una nave e
ammazzi solo gli dei sanno quante persone,
spingendolo a reciderti quella fetta di poteri sugli astri che ti
avrebbero
reso una dea in terra, ecco cosa!»
In una mano, si fece comparire un
sottile pugnale color crema,
l’impugnatura -che terminava in una piccola rosa con una
pietra iridescente al
centro- finemente lavorata in sinuose e delicate forme eteree che
parevano
nuvole.
Le trotterellò vicino.
«Non sei furba,
esattamente come non lo erano i tuoi genitori».
Le poggiò la lama sul
petto, premendo abbastanza perché la pelle si
arrossasse, ma non a sufficienza perché si tagliasse.
«Non era furbo tuo padre,
che se avesse messo a tacere il suo presunto
senso del dovere avrebbe evitato di finire dritto dritto nella tela del
ragno,
trascinandosi con sé i propri familiari come mosche sul
miele» la fece scorrere
fin sotto il mento, alzandoglielo leggermente «E non era
furba tua madre, che è
rimasta a bearsi nella propria ignoranza accontentandosi degli
“Ho tutto sotto
controllo” di suo marito per vivere serena. Non la conoscevo,
ma -visto com’è
finita e com’è uscita sua figlia- sarà
certamente stata una di quelle ragazzette
follemente innamorate del proprio consorte al punto di seguirlo per
terra e per
mare e per cielo, pur di vederlo contento, sempre pronta a supportarlo
e mai a
dargli contro pure se ha torto, una donnuccia che non ha capito in cosa era stata involontariamente
messa in mezzo fino a quando non hanno dovuto raccoglierla da terra col
cucchiaino. Povera scema».
«TACI!»
Un’esplosione di rabbia,
un’esplosione di magia, un’esplosione della
gabbia che conteneva Madre Natura e tutta la sua furia, dissoltasi in
un lampo
accecante.
Senza che Harmonia potesse
realizzare ciò che stava accadendo, un
frammento duro come il marmo la colpì in pieno, poco al di
sotto della zona di
congiunzione fra il corpo equino e quello umano, scaraventandola contro
lo
stesso masso sul quale, poco prima, stava crogiolando.
Un solo colpo, e adesso una delle
zampe anteriori penzolava mestamente
a mezz’aria.
Tentò subito di
rialzarsi, ma invano: prima ancora che potesse farlo,
delle spesse radici coperte di spine perforarono la terra e le
afferrano gli
arti, immobilizzandola; al contrario, Emily Jane era libera,
liberissima.
E incazzata abbestia.
«Non
ti permettere»
alzò lo sguardo, la
pupilla ridotta a un puntino disperso in quelle iridi dorate intrise
d’odio e
di rabbia e d’omicidio «assolutamente»
strinse con forza le dita artigliate coperte di vera e propria
corteccia -come
pure lo erano gli avambracci e la parte inferiore della gambe- sul nero
scettro, un malsano alone grigiastro che ribolliva nelle striature
smeraldo dello
stesso e colava come lava fumante su tutta la sua lunghezza «di
nominare mia madre!» una manciata di
lingue di immani lingue
rocciose sventrarono la terra tutta intorno alla regina, circondandola.
“Pensa!
Pensa! Pensa!”
«Non
ti permettere mai più!» tutto d’un tratto si
richiusero su di lei, intrappolandola e stringendola in uno spazio
angusto che
a malapena la conteneva «Mai più!»
l’estremità appuntita di un ultimo masso centrale
fece capolino dal suolo,
pronto a impalarla «Mai più!»
con
violenza tale da far tremare la terra, infine emerse dal terreno.
Un tuono esplose, squassando
l’aria calda.
Il bagliore di un lampo si
profilò fra le sbarre di pietra, ora tomba
della Regina di Phantasia, della Guardiana della Fantasia, della
custode del
pianeta Exodus. Come allertati dall’accaduto, uno stormo di
uccelli gracchiò in
lontananza, volando via fra le nuvole nere illuminate a giorno dalla
ragnatela di
fulmini che dilaniavano il cielo.
Volarono via tutti, tranne un
piccolo, insignificante, minuscolo,
passero bianco dalle ali di perla, che invece tornò
indietro; goffamente, si
posò su di un arbusto dall’altra riva del fiume, a
poche decine di metri da
Madre Natura.
Il tempo che il ritmico alzarsi e
abbassarsi del suo lillipuziano
petto si regolasse, e venne avvolto da una nuvola rosata che lo strinse
in un
abbraccio morbido, candido, materno, al riparo dalle intemperie che lo
circondavano; persino le saette e la pioggia battente ora grandine,
infatti,
non sfioravano quella sfera dei colori dell’alba, venendo
respinti ancor prima
che ne toccassero la superficie liscia oltre ogni umana concezione.
Tempo al tempo, e la Pitchiner si
sarebbe pentita di non aver dato
peso a quel curioso fenomeno atmosferico.
Lentamente, senza fretta, e quel
soffice bozzolo andò sfogliandosi
strato dopo strato, coltre nebbiosa dopo coltre nebbiosa, lasciando che
sottili
fasci di luce dorata ne fuoriuscissero frementi, tremolanti, come se
fino ad
ora non avessero atteso altro che librarsi nel cielo come farfalle
umide appena
uscite dalla loro crisalide.
E, proprio come un insetto che
lascia il proprio bozzolo, anche da quella
sottile foschia si schiusero quattro immense ali color madreperla
simili a
quelle di una libellula, coperte superiormente da un soffice e spesso
strato di
piume nivee la cui attaccatura andava perdendosi in una cascata
fluttuante dai
colori di un brillante arcobaleno verde acqua e azzurro e violetto e
rosa, un
arcobaleno che finiva a terra e si originava sul capo coronato dal
corno d’oro
dell’ultima principessa Starequus, splendente e raggiante
come mai prima d’ora.
Ritta sui propri zoccoli dorati, a
mostrarsi fiera letteralmente come
mamma l’aveva fatta, Harmonia se ne stava lì, sul
margine del fiume opposto a
quello dell’altra, la lunghissima coda che galleggiava
nell’etere circondandola
e perdendosi fra i capelli nebulosi tipici della sua gente.
Fino a quel momento aveva giocato,
si era concessa di conservare
durante lo scontro quella forma da centauressa a lei tanto cara
pensando di
poter fare a meno della quantità di magia e concentrazione
necessari a mantenerla,
ma si era sbagliata. Si era sbagliata, sì, e allora aveva
rimediato: niente uso
dei poteri per cambiare i propri connotati rispetto
all’originale, adesso, solo
il corpo umano dotato di zampe equine e ricoperto da una morbida
peluria bianca
-più lunga e folta sulle estremità degli arti,
che s’interrompeva giusto sul
petto e sul volto- che denotava senza ombra di dubbio, che urlava, a quale razza appartenesse.
La razza che avrebbe rispedito
Madre Natura nel buco di regno perduto
dal quale proveniva, per la precisione.
Sebbene però fuori
stesse ostentando tanta regalità e sicurezza,
dentro di sé la regina tirò un profondo,
lunghissimo, necessario, sospiro di
sollievo: meno male che aveva trovato da qualche parte la forza per
trasformarsi all’ultimo, perché in caso contrario
non era poi così certa che ne
sarebbe uscita intera!
Poco importava: le era andata di
lusso, ora aveva il dovere di
sfruttare al massimo quel colpo di fortuna che il fato le aveva
concesso.
Senza attendere che Emily Jane
recuperasse la mandibola che -da quanto
se ne stava con la bocca aperta- pareva esserle caduta per terra,
Harmonia
mosse qualche passo verso la riva, gli zoccoli che lasciavano dietro di
sé piccole
tracce luminescenti.
Si fermò sul ciglio del
fiume reso grosso dalla tempesta, talmente
intimorita dal rivedere una creatura millenaria che deviava le proprie
gocce ancor
prima di sfiorarle la pelle.
«Credevi di avermi
ucciso, ma la verità è che non morirò
mai, non
posso morire: fino a quando ci sarà anche un solo suddito
che necessiterà del
mio aiuto, bambino o adulto o vecchio che sia, a qualsiasi razza
apparterrà e
in qualunque tipo di rapporto mi troverò con lui, allora io
ci sarò, e sarò
pronta a offrirgli i miei servigi».
Improvvisamente, il suo corpo venne
come cosparso da una nebbiolina
argentea che le si depositò sulla pelle, aderendo ad essa;
qualche istante, e
suddetta nebbia si tramutò in un’armatura
finemente lavorata dello stesso
colore, sulle spalle un mantello blu notte cosparso di puntini
brillanti che
parevano stelle.
«Sono la regina, ma prima
di essere colei che porta la corona sono
sono la serva, l’amica e la madre della mia gente: prima di
sedermi a fare
colazione mi assicuro che abbiano il cibo di cui necessitano, prima di
riposarmi
mi curo che possano dormire sonni tranquilli, prima di concedermi
qualsiasi
cosa non programmata mi assicuro che un mio lusso non incida sulla
qualità
delle loro vite. Sono contenta quando c’è un nuovo
nato, festeggio insieme a
loro dopo che ho officiato un’unione o un matrimonio, piango
con e per loro
quando qualcuno ci lascia».
Allargò le braccia.
Tutto d’un tratto,
materializzatosi dal nulla, in una mano le comparve
un’imponente lancia da giostra dello stesso color crema del
pugnale di prima,
l’elsa che ricordava una testa di unicorno dagli occhi
cristallini e la lama
costituita dal corno dell’animale.
«Non lotto per me stessa,
per la ricchezza, per l’onore, per la
vendetta o per dimostrare la mia superiorità a chicchessia:
lotto per il mio
popolo, perché tragedie come quella di sei millenni fa non
si ripetano, perché
non ci siano più bambini costretti a veder morire impotenti
i propri genitori
come è successo a me, perché il futuro di coloro
che mi hanno affidato le loro
vite, quelle dei loro figli e dei loro nipoti, possa sempre essere
luminoso e sereno».
Nell’altra mano, invece,
prese forma uno scudo allungato che le andava
dalla vita fino a terra, il pezzo centrale formato dalla testa di un
cavallo e
il resto della protezione offerta dalle piume metalliche dello stesso
che la
circondavano.
Si calò l’elmo.
«Il mio nome è
Harmonia, Regina di Phantasia, principessa degli Starequus,
Guardiana della Fantasia, protettrice del pianeta Exodus, ultima della
mia
specie» puntò l’arma in direzione di
Madre Natura «e finché il mio cuore
batterà, finché le gambe mi reggeranno,
respingerò chiunque osi mettersi sulla
strada fra i miei sudditi e la loro felicità».
Clap,
clap, clap.
Degli applausi furono tutto
ciò che provenne dall’altra parte del
fiume, i palmi legnosi della Pitchiner che s’incontravano
svogliatamente
producendo uno stridio fastidioso. Con un rapido movimento del capo, si
scostò
dagli occhi i viticci fioriti che le spuntavano fra i capelli corvini.
«Tante belle parole, non
lo metto in dubbio, ma se c’è una cosa che so
per certa è che nessuno ha mai vinto una guerra con discorsi
strappalacrime
sull’onore e sull’ammmore per i propri sudditi e
quel genere di stronzate da
adolescenti» rise.
«Senza tanti giri di
parole, mi hai dunque chiesto di scegliere fra le
buone maniere e la violenza?»
Harmonia annuì.
Di rimando, la rivale
avanzò di qualche metro verso le sponde del
canale, l’erba che -alla faccia dell’essere Madre
Natura- s’inaridiva ad ogni
suo passo. Si fermò.
Con lo scettro stretto
nell’altra mano, alzò un indice: come
rispondendo a un suo comando, sassi e pietre e persino la ghiaia del
fiume s’illuminarono
di un bagliore smeraldo, levandosi dalle acque e dalla terra per
iniziare a
levitare a mezz’aria intorno alla figlia dell’Uomo
Nero.
Sorrise.
«Scelgo
la violenza».
Un cenno, e quelli che qualche
istante prima non erano stati altro che
cumuli di rocce di ogni forma e grandezza andarono aggregandosi
l’uno con
l’altro, pezzo per pezzo, assumendo sembianze che nel loro
essere grottesche e
terribilmente deformi -fra teste minute su corpi enormi e viceversa,
arti
mancanti o di dimensioni differenti l’uno
dall’altro, occhi in più e occhi in
meno- parevano umanoidi.
A vedersi comparire davanti una
manciata di imponenti golem, la
Starequus -che avrebbe dovuto quantomeno essere impressionata, se non
dall’indicibile
bruttura di quegli esseri, almeno dalla superiorità numerica
dell’altra- non si
scompose per nulla.
Chiuse gli occhi, il corno sulla
fronte che prese a baluginare di una
luce perlacea la quale, poco dopo, mutò in uno e poi due e
poi tre sottili
cerchi dello stesso colore che le cinsero il capo.
«Nîn
o Chithaeglir lasto
beth daer» le venature iridescenti delle sue ali
presero a brillare a
intermittenza, come se vi si stesse incanalando da un qualche tipo di
potente
magia «rimmo nîn
Kelusindi dan in
Hatha Laurinque».
Ma non accadde nulla.
La Pitchiner scoppiò a
ridere, intanto che i suoi giganti di pietra si
gettavano nel torrente per attraversarlo e raggiungere la sovrana.
«È
così che pensi di sconfiggermi? Blaterando parole totalmente
a
caso?» la schernì. Allargò le braccia
«Se qualcuno che millanta di essere
chissà quale minaccia ma poi non sa fare altro che parlare
è il massimo sul
quale Exodus possa fare affidamento per proteggersi, allora ti concedo
di
andare a dire ai bambini di iniziare a recitare le proprie preghierine,
perché
fra poco ne avranno un estremo bisogno!»
Nessuna reazione provenne
dall’altra donna, che continuò a recitare
quella formula imperterrita, irremovibile, solenne nella sua
immobilità: quei
mostri erano sempre più vicini, eppure Harmonia era calma,
tranquilla,
totalmente serena, lo era persino di fronte al fiume che sembrava
starsi
prosciugando!
Era pazza? No, era semplicemente
paziente.
E la sua pazienza venne
ricompensata.
Nel preciso istante in cui tutte
quante le creature si trovarono nel tragitto fra lei e la
loro padrona,
rigagnoli di dimensioni sempre crescenti iniziarono a scorrere sul
letto quasi
asciutto del fiume, attirando l’attenzione di quegli uomini
di freddo sasso
senza cuore né anima che, finalmente, si girarono verso la
direzione dalla
quale proveniva quello strano fenomeno. Lo scrosciare
dell’acqua era ormai
assordante, talmente tanto che i ciottoli rimasti a terra iniziarono a
tremare
prima piano, in modo quasi impercettibile, poi più forte,
sempre più forte,
fino a quando la terra stessa non venne scossa da violenti tremori
uniti a
suoni infernali, assordanti, come se le viscere del mondo stessero
venendo
attraversate da un branco di cavalli scalpitanti.
Che poi furono precisamente
ciò che si palesò davanti agli occhi
increduli di Madre Natura qualche secondo dopo, quando il fiume si
riversò sì
sul proprio letto di fango e sabbia, ma lo fece con la forza e la forma
di un’onda
di grandi e limpidi stalloni che al loro interno custodivano alghe e
pesci e
qualsiasi cosa quel torrente portasse con sé, una carica
selvaggia di equini
che nitrivano furiosi sbuffando vapore e galoppando già per
il fiume che
costituivano travolgendo qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino.
Golem compresi.
Una volta abbattuti quei giganti,
un’innaturale calma piatta tornò a
dominare il corso d’acqua, ormai quieto e silenzioso
com’era sempre stato.
Una soddisfatta e sorridente
Harmonia avvicinò una mano all’orecchio,
protendendosi verso l’avversaria come a voler sentire meglio.
«Stavi dicendo qualcosa a
proposito del mio “blaterare parole a caso”?
Sono costernata, ma l’assordante rumore della vittoria ha
coperto le tue parole,
saresti così gentile da ripeterle a quest’anziana
puledra?»
Non
l’avesse mai detto.
Dire che Emily Jane fosse furiosa,
non sarebbe bastato nemmeno a
descrivere la sommità dell’iceberg di rabbia e
odio e frustrazione che quella
benedetta ragazza covava dentro di sé.
Senza darsi tregua per permettere
al suo corpo -adulto, sì, ma non più
abituato a sostenere i ritmi imposti da un utilizzo così
intenso dei propri
poteri- di riprendersi, evocò altri golem di pietra ancora
più grandi di quelli
di prima.
«Taci! TACI! STAI ZITTA!
DEVI STARE ZITTA! ZITTA!» le gridò contro con
quanto fiato aveva in corpo, la gola che le bruciava per lo sforzo.
Non contenta, completamente in
balìa della necessità vitale di
eliminare la Regina di Phantasia, ignorando ogni segnale che il suo
cervello
logorato dal rancore le mandasse intimandole di fermarsi,
ampliò il proprio
esercito con qualsiasi cosa le venisse in mente: creature alate simili
a
pipistrelli che trafissero le nuvole trascinando i fulmini dietro di
sé, radici
improvvisamente trasformatesi in serpenti grassi e sibilanti, fiere
ruggenti
emerse dalle voragini che si stavano aprendo nel suolo -le cui
striature sul
corpo roccioso lasciavano intravedere il magma che ribolliva nei loro
corpi- e
mille altri mostri.
Infine, aggiunse anche il carico da
novanta: elefanti.
Colossali elefanti di pietra e
legno e liane che tenevano insieme il
tutto, bestie alte almeno venti metri dotate di tre paia di enormi
zanne di
ghiaccio simili a quelle di un mammut una più grande
dell’altra, una più
spaventosa dell’altra, dove quello più imponenti
-che si snodavano dalla testa
dell’animale fino a terra, incurvandosi orizzontalmente verso
l’interno- potevano
tranquillamente essere utilizzate per svolgere lo stesso lavoro di uno
spazzaneve:
travolgere di tutto.
E i Mûmakil
della
battaglia dei Campi del Pelennor potevano accompagnare solo.
Un rivolo di sangue le
colò dal naso, scorrendo sulla corteccia che
stava sempre più spandendosi sul suo volto: doveva fermarsi
prima che fossero i
suoi poteri a controllare lei e non il contrario, ne era consapevole,
ma non
poteva, non voleva, farlo. La
vendetta era tutto ciò che la guidava, e la vendetta sarebbe
stato ciò che
avrebbe ottenuto a fine giornata: non importava il prezzo, non
importava se per
raggiungerla avrebbe dovuto annegare nelle sabbie mobili della follia
più di
quanto già non ci fosse dentro, a dirla tutta non le
importava nemmeno dello
stare rischiando la propria vita: finché non avesse avuto
ciò che bramava
disperatamente da trent’anni a quella parte, allora non
avrebbe arretrato
nemmeno di un passo.
Alzò lo scettro dinanzi
a sé, indicando la regina sua rivale ai propri
mostri.
«Prova a usarla adesso, la tua
magica acqua frizzante scacciademoni! Vediamo se farai ancora la
fichettina, una
volta che sarai ridotta a una crepê farcita con sangue
d’unicorno e codette
arcobaleno! È finito il tempo delle mele,
PUTTANAH!»
Un cenno, e quelle creature si
riversarono in terra: verso di lei
“solamente” i pachidermi, verso il limite del
Tauremorna e la città il resto di
loro.
Con quella scena davanti agli
occhi, Harmonia non poté fare altro che
ingoiare faticosamente quel groppo che le chiudeva la gola, inspirare
profondamente e, infine, prepararsi al contrattacco: c’era un
intero pianeta
che contava sulla sua vittoria, non poteva deluderlo.
Strinse le dita intorno alle
proprie armi fino a sentire dolore,
comandando ai propri occhi lucidi di ricacciare indietro le lacrime che
stavano
per solcarle le guance: svariati soldati sarebbero morti quel giorno,
padri e
madri di famiglia avrebbero perso la vita sul campo di battaglia, e a
lei
sarebbe toccato l’infame compito di spiegare ai loro figli di
come fossero
rimasti orfani.
Non era colpa sua, aveva fatto e
stava facendo il possibile, di certo non
poteva salvare tutti… esattamente come non aveva potuto
farlo seimila anni
prima, quando lei-
No, non avrebbe permesso al proprio
disturbo post traumatico da stress
di avere la meglio proprio ora, non era un lusso che poteva concedersi,
non sul
campo di battaglia: quella era la guerra, e in guerra si muore.
Punto.
Il suo esercito se la sarebbe
cavata egregiamente, le Ophidians si
sarebbero difese da sole senza problemi, e lei li avrebbe ripagati
sconfiggendo
la Pitchiner il prima possibile, così da recidere alla
radice gli umuncoli da
lei generati. Ai figli dei caduti, avrebbe detto la stessa identica
cosa che si
era detta lei in prima persona per sei lunghissimi millenni, in quei
momenti
bui durante i quali la nostalgia del calore delle ali di sua madre e
delle
braccia forti di suo padre le attanagliava l’anima: i loro
genitori erano
caduti come eroi, e come tali sarebbero stati ricordati.
Sorrise: sarebbe andato tutto bene,
lo avrebbe fatto andare bene.
Mossa dalla forza che le donava
quella nuova consapevolezza, Harmonia iniziò
a squadrare quella manciata di mastodontici elefanti che le venivano
incontro: una
mezza dozzina, tutti tremendamente grandi, ma quello li rendeva solo
bersagli
più facili da colpire.
Senza indugiare oltre,
spalancò le ali e si alzò in volo.
Destreggiandosi fra le gocce di
pioggia più taglienti della lama che
aveva nella mano, zigzagando fra un fulmine e una nube che le oscurava
temporaneamente la vista, a furia di sferzare furiosamente
l’aria le sue ali la
portarono in breve fra a quelle montagne erranti. Avvicinarsi,
tuttavia, non fu
altrettanto semplice: tralasciando l’attenzione che -se non
voleva finire
impigliata e schiacciata fra le zanne- doveva porgere al non volare
troppo
rasoterra, il problema maggiore era costituito dalle interminabili
proboscidi
di quelle bestie che, come braccia provenienti dagli inferi, si
levavano e
dimenavano nel cielo a catturare qualsiasi cosa o animale o persona
capitasse
loro a tiro; già un paio di volte si era trovata a dover
virare all’ultimo per
evitarle, ora non poteva più permettersi errori.
Impegnata a riflettere
com’era, non si accorse di quando arrivò il
terzo colpo.
Fortunatamente per lei, il suo
corpo agì istintivamente, senza consultarsi
col cervello: ancoratasi con la coda a una delle zanne,
effettuò una
rapidissima sterzata -che per poco non le fece perdere la presa ed
essere
scagliata chissà dove, da quanto fu improvvisa!- in volo che
portò le estremità
affilate delle ali a sfiorare la pelle corazzata
dell’animale, penetrando a
fondo in essa.
Un giro della morte, e la
proboscide venne tranciata di netto. Cadde a
terra, agitandosi come la coda di una lucertola.
Completando
quell’evoluzione, si trovò -senza sapere
precisamente
come, ma visto il risultato le modalità non erano poi
così importanti- sul capo
dell’animale, ovviamente ormai imbizzarrito a causa della
ferita; il solo restare
attaccata a quella bestia che correva e sbandava e s’inarcava
disperata era una
sfida, ma non si arrese: doveva andare fino in fondo, letteralmente.
In balìa delle
intemperie a venti metri d’altezza, costretta a
scansarsi o appiattirsi ogni tre per due per evitare le forze aeree di
Emily
Jane, con la sola presa delle ali nelle carni a mantenerla in un
equilibrio che
chiamare precario sarebbe stato un complimento troppo grande,
afferrò la lancia
con due mani e ne poggiò la punta sulla pellaccia
dell’elefante, in quella
minuta area scoperta nella congiunzione fra la testa e il collo. La
spinse
dentro fino all’impugnatura, decisa.
Un barrito agonizzante si sparse
tutt’intorno.
L’animale
rallentò la propria corsa, tramutandola prima in un cammino
lento a testa bassa, sempre più pericolosamente bassa, poi
in un’andatura ondeggiante,
sconclusionata, senza ritmo, un trascinarsi dietro le zampe molli che,
infine,
cedettero completamente sotto il loro stesso peso, facendo crollare al
suolo
quell’abominio della natura; mentre questo collassava,
Harmonia si calò giù per
le zanne di ghiaccio usandole come uno scivolo, ruzzolando via giusto
pochissimi istanti prima che quelle s’infrangessero come
bicchieri di cristalli
sul pavimento.
Nemmeno il tempo di riprendere
fiato, che subito l’ombra di
un’imponente zampa le si profilò sopra la testa,
talmente vicina da sfiorarle
addirittura i capelli.
Non poteva volare via:
l’altro arto era troppo vicino alle sue ali
perché queste non si impigliassero.
Non poteva lanciarsi di lato:
sarebbe stata troppo lenta.
Non poteva usare la magia: il suo
cervello sarebbe stato ridotto in
poltiglia ancora prima di riuscire a pronunciare qualsivoglia formula o
incantesimo.
Fece l’unica cosa che
poteva fare: chiuse gli occhi.
Un boato squassò la
terra.
Il tempo di riaprire le palpebre, e
una voragine si aprì dietro le sue
spalle, inghiottendo l’elefante che la sovrastava; senza
più nulla intorno che
la ostacolasse, riuscì a spiccare il volo
all’ultimo momento, giusto una
manciata di secondi prima che quel buco nero improvvisamente apertosi
nel
terreno inghiottisse anche lei come aveva fatto con la povera bestia.
Povera bestia che, adesso, se ne
stava sospesa a più di un centinaio di
metri d’altezza, intrappolata e stritolata fra le gigantesche
fauci a tenaglia di
una creatura ben più grossa di lei, capace di sventrare il
terreno e
sbriciolare la pietra come pasta frolla: vermi di terra, diggerwurm. Adulti.
Sul capo di quello emerso dinanzi a
lei, con tanto di briglie -briglie!-
alla mano, una perfettamente
calma Alice Castle Wonderwood che salutava con la manina
l’amica.
«Ehi! La prossima volta
ricordati di mandarmi l’invito alla festa!»
gridò da lassù.
La regina -ora nella parte di colei
alla quale rischiava di cadere la mandibola
per il troppo stupore- la fissò sbalordita: alla faccia del
tempismo! Si era
premurata -e vergognata- di non dirle nulla temendo che desse di matto
come
solito, considerando i precedenti con Madre Natura risalenti a
trent’anni
prima, ma a quanto pare tenerla all’oscuro della spedizione
non era servito per
tenerla lontano dal campo di battaglia.
Senza che la sovrana potesse
risponderle, Alice le indicò l’orizzonte.
«Ho portato anche il
resto della cavalleria, per quanto non sia dato a
sapere se venuti solo per combattere, o anche per assicurarsi che la
sanità
mentale non mi abbandoni durante la battaglia: in quel caso, sarei un
problema beeeeen
peggiore di Miss Bellicapelli!» ridacchiò.
Non sapendo come ribattere,
Harmonia girò il capo dove l’altra aveva
additato: dal folto del Tauremorna, sulle cime dei vulcani
più o meno attivi di
Quetzalli, una vera e propria valanga di metalupi che digradavano
giù per le
montagne con la stessa facilità e agilità con le
quali avrebbe potuto farlo una
capra; in testa a loro, affiancata dai suoi pelosi genitori adottivi,
Scarlet in
groppa a Spettro, nelle mani quella che riconobbe subito trattarsi
della Spada
Vorpale.
Aveva tirato fuori
l’artiglieria pesante, quella ragazzetta bipolare,
faceva davvero sul serio!
E che tutti stessero facendo sul
serio si capì presto: diggerwurm che sbucavano
dalla terra inghiottendo qualsiasi cosa si trovasse sopra i loro musi,
lupi che
si gettavano a zanne spiegate sulle creature della Pitchiner disfandole
pezzo
per pezzo, pietra dopo pietra, la Cacciatrice che -lama alla mano-
passava in
mezzo ai pachidermi e, con un colpo netto, scavava con essa
profondissimi
solchi nelle loro tozze zampe perché si ribaltassero e
fossero alla totale
mercé dei suoi fratelli e sorelle.
La Starequus si concesse un mezzo
sorriso: di quel passo, il grosso
delle truppe di Madre Natura sarebbe stato abbattuto prima che potesse
raggiungere il bosco o la città, il che per la sua gente
avrebbe significato
meno tombe da scavare, meno morti da piangere, meno bambini da lasciare
orfani.
Sperando che avesse ragione,
ovviamente, il che -a guardare Emily
Jane- non era proprio da dare per scontato.
Più pioggia, fulmini,
più tornado, più crepe nel suolo, più
mostri,
più di tutto ciò che lo scettro le consentiva di
evocare: stava dando di matto,
quella benedetta ragazza, e ne era consapevole tanto quanto lo era che,
non
facendolo, sarebbe stata sconfitta per l’ennesima volta.
Specchiandosi in una pozzanghera ai
suoi piedi, si toccò il viso:
cos’era rimasto della donna che era stata? C’era
ancora lei sotto quella
corteccia che, lentamente ma inesorabilmente, a furia di utilizzare la
magia,
la stava letteralmente divorando? Come aveva fatto a ridursi in quello
stato
pietoso?
Le bastò alzare lo
sguardo per capirlo: le sue bestie venivano
continuamente abbattute, esattamente com’era stata abbattuta
lei durante quegli
anni di miseria e autocommiserazione ed elemosina.
Quando il barrito
dell’ennesimo elefante che collassò al suolo le
riempì le orecchie, chiuse gli occhi: lo scettro
brillò, e allora radici
provenienti da esso iniziarono ad arrampicarsi su per il braccio,
avvolgendo in
poco tempo le sue stanche membra in un abbraccio caldo, accogliente,
protettivo, un po’ come quello offerto del ventre materno; si
richiusero sul
suo capo, isolandola dal mondo, dalle umiliazioni,
dall’imminente sconfitta.
Che si fottesse la sua mente che
gridava di smetterla, di fermarsi, di
non oltrepassare quel limite che l’avrebbe resa schiava dei
propri stessi
poteri.
Che si fottesse la raccomandazione
di Typhan di non utilizzare mai,
per nessun motivo, per qualsiasi cosa al mondo, la sua magia al pieno
della
potenza, pena il diventare incapace di distinguere il bene dal male, la
verità dalla
menzogna, la realtà dalla fantasia.
Che si fottessero Pitch e Gwenllian
e chiunque le avesse remato contro
nel suo millennio e mezzo di vita immortale.
Adesso, di Emily Jane Pitchiner non
restava che un guscio di puro
potere ruggente, ma senza coscienza: ormai era una divinità,
un essere
superiore a quella plebaglia con la quale era stata costretta a
condivide
l’ossigeno per troppo tempo, e pretendeva i propri sudditi.
Con i suoi nuovi e luminosi occhi
di dea, ora vedeva chiaramente il
passato e il presente e il futuro, chi era stata e chi era e chi
sarebbe potuta
e dovuta essere, vedeva razze
estinte
e razze che ancora dovevano nascere, frasi pronunciate per cambiare il
mondo e
frasi che sarebbero state pronunciate per distruggerlo, in quel bozzolo
vegetale riusciva addirittura a scorgere pianeti sconosciuti e galassie
mai
osservate e universi lontani, tutti che galleggiavano
nell’occhio di una
creatura incarnazione stessa dell’esistenza e della
non-esistenza.
E vedeva anche quel bozzolo
diventare prima giallo, poi marrone scuro,
infine nero, le radici -secche e senza vita- che si staccavano e
cadevano a
terra, denudandola: la sveglia era suonata destandola dal sogno,
l’incantesimo
si era spezzato, la carrozza era tornata ad essere una zucca.
Il palmo di una mano -forse reale,
forse frutto della sua immaginazione-
fece irruzione nel suo mondo che stava crollando a pezzi, mostrandole
un
minuscolo frammento di legno scuro; un’altra mano le
indicò un punto preciso sul
suo artefatto: allora, e solo allora, notò che ne mancava un
pezzettino lì,
proprio sotto l’incrocio fra una venatura e un nodo.
Mentre avvertiva chiaramente lo
scettro scivolarle fra le dita, sentì
un respiro caldo vicino all’orecchio.
«Mai
fidarsi di chi mangia i
faciola con la forchetta anziché il cucchiaio».
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Angolino dell’autrice
Autrice in ritardo di una
settimana, perché si è accorta giusto
l’altro
giorno che il capitolo era talmente LUNGO da necessitare -dopo attente
consultazioni- di essere diviso in due capitoli, come ho appunto fatto:
chiedo
venia, mi faccio perdonare con i millemila riferimenti al
“Signore
degli Anelli” e quelli agli Ugandan Knuckles! :’D
Detto questo, vi assicuro che col
capitolo 19 terminerà la “saga” di
Quetzalli che perdura da nonricordoquanti capitoli, che se la
Th’anera
Yuvenciae vuole ormai siamo agli sgoccioli di questa long :) je la famo
regà!
Dopo i consueti ringraziamenti,
sotto vi lascio la traduzione della
frase detta da Harmonia, che poi è la stessa -con qualche
modifica sui nomi- pronunciata
da Arwen Undómiel per respingere l’attacco dei
Nazgul sul fiume Bruinen.
“Nîn
o
Chithaeglir lasto beth daer, rimmo nîn
Kelusindi dan in Hatha
Laurinque” = “acque delle montagne
di fuoco, ascoltate le mie parole: scorrete acque del Kelusindi contro
lo
spettro di Madre Natura”
Alla prossima!