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Autore: XShade_Shinra    11/04/2018    1 recensioni
Delle volte, è come se la gente sentisse fin dentro le viscere di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
A Jean Kirschtein capitò in un freddo pomeriggio di gennaio, mentre si trovava nel quartiere di Kabukichou.

[ Shounen-ai - Jearmin ]
[ Capitolo 1 partecipante alla Jearmin week 2018 indetta da The Jearmin Collective ]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Armin Arlart, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Mikasa Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Enjo Kosai
Delle volte, è come se la gente sentisse fin dentro le viscere di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
A Jean Kirschtein capitò in un freddo pomeriggio di gennaio, mentre si trovava nel quartiere di Kabukichou
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[Shounen-ai - Jearmin]
Capitolo 1 partecipante alla Jearmin week 2018 indetta da The Jearmin Collective
 
- Titolo: Enjo Kosai
- Autore: XShade-Shinra
- Fandom: Shingeki no Kyojin / L'attacco dei Giganti
- Personaggi: Jean Kirschtein, Armin Arlert, il nonno di Armin
- Pairing: Jearmin (Jean x Armin)
- Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of Life
- Rating: Arancione (per tematiche delicate)
- Avvisi: Modern!AU - Japan High School Setting, H/C, Tematiche delicate
- Capitoli: 2
- Prompt: Hurt/Comfort (giorno 4 della Jearmin week)
- Wordcount totale storia: 11031 parole
- Disclaimer: Tutti i personaggi di questa storia sono maggiorenni e comunque non esistono/non sono esistiti realmente, come d'altronde i fatti in essa narrati. Inoltre questi personaggi non mi appartengono (purtroppo...), ma sono proprietà dei relativi autori; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro ma solo per puro divertimento.
- Note: Siamo ancora in piena Jearmin week 2018 ed ecco il capitolo che pubblico per il prompt "Hurt/Comfort", uno dei warning che più amo, soprattutto con questa bellissima coppia.
Il rating è arancione poiché si parla di tematiche abbastanza delicate, ma la coppia Jearmin rimarrà sul rating giallo.
È presente un personaggio che si è visto nei primi epidosi della S3, ed è lui che mi ha dato l'ispirazione per questa FF, ma potete trattarlo benissimo come un OC generico, non ci saranno spoiler a riguardo.
Se non sapete il significato del titolo, no panic: sarà spiegato nella storia, e se volete approfondire l'argomento c'è sempre wikipedia.
Buona lettura! ^^

 

 
Enjo Kosai
 

Delle volte, è come se la gente sentisse fin dentro le viscere di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.

A Jean Kirschtein capitò in un freddo pomeriggio di gennaio, mentre si trovava nel quartiere di Kabukichou per recarsi da Okadaya a fare delle compere per la madre, che da brava donna di casa non poteva rimanere senza scorte di bottoni e filo, oltre a tutta una serie di cose strane e innominabili di cui Jean avrebbe chiesto semplicemente allungando il foglio dove lei gli aveva scritto gli ideogrammi.

Quel giorno sembrava che qualche kami stesse cercando di dirgli in ogni modo possibile di non andare. Gli si era rotta la stringa delle sue scarpe da ginnastica preferite, a scuola si era sporcato l’uniforme con parte del bento e, all'uscita, minacciava pioggia e lui era senza ombrello. Ma chi glielo aveva fatto fare? Ah, già. La madre, che non si commosse nemmeno davanti a una e-mail pregante che invocava il suo buon cuore.

Jean sarebbe dovuto andare quel giorno. Punto.

Eppure c’era qualcosa nell’aria, e lui sapeva di non dovere essere lì. «Che la yakuza faccia qualcosa oggi?», si chiese, con la bocca nascosta dalla sciarpa in lana, fatta ai ferri dalla madre.

Stava procedendo di buona lena verso la gigantesca merceria, quando qualcuno davanti a lui catturò la sua attenzione: era Armin Arlert, un suo compagno di classe. Non indossava l’uniforme scolastica, ma vestiva con dei jeans bianchi attillati e un giubottino in pelle che poco si addiceva ai suoi modi di fare da nerd. In effetti lo aveva visto schizzare via come un fulmine alla fine delle lezioni, sicuramente era corso alla stazione della JR a prendere la linea veloce che passava da Ochanomizu per Shinjuku, altrimenti non avrebbe mai potuto essere più veloce di lui sulla Yamanote Line.

Fosse stato un altro giorno, non avrebbe fatto caso a quella scena, ma aveva veramente i nervi tesi quel pomeriggio. Affianco ad Armin c’era un uomo sulla cinquantina. Di primo acchito, Jean pensò che fosse il nonno, sapendo che il compagno di classe non aveva più i genitori, poi accadde qualcosa. Vide Armin che si girava appena e sorrideva in maniera solare a quell’uomo, un sorriso che raramente gli aveva visto fare anche con Eren - l’imbecille della classe al quale Armin e Mikasa, un’altra loro compagna, erano sempre attaccati -, poi i due entrarono in un palazzo dove Jean non era mai entrato. Curioso, si avvicinò per vedere dove passasse il tempo quel soggetto con il nonno, e rimase sconvolto nel constatare che c’erano due soli negozi che si dividevano quell’edificio: un negozio in stile Harajuku con vestiti per femmine e maschi, e un sexy shop.

Jean rimase sbalordito. Forse erano andati a comprare dei vestiti strani? Magari Armin faceva anche cosplay nella vita privata...

Mosso da pura curiosità, entrò cauto, e mentre l’ascensore si chiudeva, vide tra le porte la sagoma di quell’uomo. Attese lì, guardando lo schermo sopra l'ascensore per vedere quale numero si sarebbe illuminato.

1, 2, 3.

E lì rimase.

Il terzo piano, dal disegnino appeso al muro, era proprio quello del sexy shop.

Fu allora che Jean capì che doveva avere ficcato il naso in faccende che non lo riguardavano, dalle quali anzi doveva tenersi bene alla larga.

Non poteva essere il nonno, né un fidanzato.

Gli vennero in mente quattro kanji: 援助交際. Enjo Kosai.

Ne aveva sentito parlare, e con i suoi amici ci aveva anche riso sulla faccenda, dicendo che il mondo doveva davvero essere pieno di disperati se delle persone compravano la compagnia di giovani, ragazze o ragazzi, per non rimanere soli. Aveva fatto qualche ricerca in internet a proposito dell’argomento, non capendo davvero come certa gente potesse arrivare a tanto, e aveva scoperto che tale pratica non era solo un atto fisico di presenza, ma qualcosa di più, infatti le accompagnatrici dovevano comportarsi bene con il cliente, farlo sentire speciale anche se di lui non gliene fregava nulla. Non era una pratica in voga solo tra le ragazzine, ma anche certe casalinghe approfittavano di questo compenso facile.

Da lì la sua indagine si era ampliata, scoprendo che era una pratica sporadica di qualche ragazzina che voleva farsi qualche soldo, e non si parlava di spiccioli!, o avere qualche regalo costoso, ma c’erano anche delle organizzazioni nella Tokyo Underground che permettevano un incontro ragazza-cliente in modo che lei mantenesse il più possibile l’anonimato.

Inoltre, c’era l’extra: alcune di loro, per una cifra più alta di quella pattuita, scambiavano favori sessuali. Ed era questa la parte più scabrosa di tutte.

Ovviamente, non erano solo le ragazze a far parte di questo Enjo Kosai, ma anche alcuni ragazzi ne prendevano parte - gyaku-enjo-kōsai, aveva letto - e andavano agli appuntamenti con donne più grandi di loro… o uomini.

Quando vide quel numero tre ancora fermo lì, illuminato di rossastro, capì che il suo compagno di scuola non era il nerd pudico e timido che tutti pensavano, ma un ragazzo capace di una cosa così disgustosa per… videogiochi, libri? Cosa poteva valere la pena di svendere il proprio corpo per soldi?

Jean era certo che Armin fosse uno di quelli aperti all’extra, vedendo dove era andato con quell’uomo.

Con un nugolo di pensieri in mente, capì che la sua curiosità era stata punita severamente. Non riusciva neppure a dare il beneficio del dubbio ad Armin, ma avrebbe potuto accennare all’argomento con lui domani, all’ora di pranzo, almeno per sapere se c’era dell’altro sotto, se quella situazione paranormale aveva una spiegazione molto più semplice alle spalle.

Sprofondando le mani nelle tasche della giacca della divisa scolastica, Jean continuò per la sua strada, sperando di non doversi trattenere troppo in quel negozio. Voleva solo tornare a casa e smettere di pensare.

Non era affar suo, ma non sarebbe mai riuscito a tenerselo dentro. Doveva parlarne con l’interessato.


***


L’indomani all’ora di pranzo, Armin Arlert fu sorpreso che proprio il suo compagno di classe Jean gli si avvicinasse. Da quando a inizio anno aveva cercato di avere il suo quaderno per copiare degli esercizi ed Eren lo aveva gonfiato di botte in un incontro abbastanza pari, non si erano più rivolti la parola.

«Armin? Vorrei parlarti», disse lui, volgendo poi lo sguardo verso Eren e Mikasa, ancora ai loro banchi che ritiravano i quaderni. «In privato», aggiunse. Non era sicuro che gli altri suoi due amici fossero a conoscenza di quello che Jean aveva visto la sera prima, ed era meglio non avere altre persone intorno proprio per evitare che Armin, per imbarazzo, non spiccicasse parola e gli mentisse sul fatto dell’Enjo Kosai.

«Di quale materia?», chiese lui, guardandolo strano.

Jean scosse il capo. «È personale», disse. «Niente scuola e niente compiti stavolta, giuro».

Armin lo fissò, cercando di soppesare le sue parole; dall’espressione sembrava molto deciso, anche se un po’ a disagio da come muoveva il peso del corpo da una gamba all’altra.

«Uhm… va bene. Può venire anche Er--».

«No, Armin. Noi due da soli», specificò Jean. Armin sembrò non essere d’accordo, allora l’altro ragazzo insistette: «Faremo in fretta», assicurò. «Non puoi avercela con me per quell’unica volta alle macchinette automatiche, Armin! Non ti ho torto un capello, non credevo di metterti così a disagio», si spiegò; in effetti non si era mai scusato per quella vicenda, con il senno di poi avrebbe dovuto farlo.

Armin lo guardò con i suoi grandi occhi chiari, per poi cedere. «Ok, ma facciamo in fretta», mormorò, alzandosi dal banco.

Eren, finalmente, si accorse di Jean troppo vicino all’amico e si fece avanti. «Beh, che succede, faccia da cavallo? Vuoi che ti cambi di nuovo i connotati?», chiese già sul piede di guerra.

Armin fermò sul nascere una nuova scazzottata: «Jean vuole dirmi una cosa importate; torno dopo», disse.

Eren guardò severo entrambi. «Ti fidi?», chiese. Lui no, non si fidava assolutamente di quello stronzo.

«Torno tra quindici minuti», assicurò Armin, cercando l’approvazione di Jean con lo sguardo.

«Tra un quarto d’ora puoi venire a cercarlo, se non è ancora tornato: andiamo nell’aula di musica, tanto è vuota in pausa pranzo», spiegò Jean.

Eren, ancora serio, sospirò pesantemente dal naso. «Sbrigatevi», disse, per poi mimare ad Armin con le labbra “Poi mi devi dire tutto”. Il ragazzino biondo annuì, e seguì Jean nella stanza che aveva indicato, non immaginando davvero di che cosa dovesse parlargli, date le loro sporadiche conversazioni; era arcisicuro che fosse tutta una scusa per avere  i compiti, ma Armin era un ragazzo coraggioso e non si sarebbe sottratto a nessuna sfida - fin da bambino, quando veniva davvero picchiato dai bulletti, lui non scappava mai.

Una volta chiusa la porta scorrevole dietro di loro, Armin si avvicinò al pianoforte, allontanandosi così dall’ingresso, anche se la stanza aveva le pareti abbastanza insonorizzate. Guardò Jean, in attesa, e questi andò dritto al sodo: «Ieri ti ho visto a Kabukichou».

Armin allargò appena gli occhi, sorpreso, ma non disse nulla, volendo vedere dove avesse intenzione di arrivare Jean.

«Eri in compagnia di un uomo adulto», continuò il più alto. «Chi era?».

«Era mio nonno, che ti interessa?», mormorò Armin, celando tutte le emozioni che aveva nel cuore.

«Non si va con il proprio nonno a un sexy-shop!», esclamò a quel punto Jean, sbattendogli la verità in faccia, mentre le guance gli andavano a fuoco. Nonostante la sua fama da cattivo ragazzo, era sempre stato timido su certi argomenti.

L’espressione negli occhi di Armin cambiò appena, per solo un istante. «Non capisco di cosa tu stia parlando, Jean», disse piatto, all’apparenza tranquillo.

«Non fare il finto tonto con me!», sbottò l’altro ragazzo, scocciato. «Armin, non prendermi per stupido, non osare mai».

Armin era un ottimo attore, capace di celare problemi e sofferenze dietro la sua maschera inespressiva. La notizia di essere stato visto, però, lo mandò veramente nel panico interiore, facendogli diventare irregolare la respirazione. Se non poteva negare, allora avrebbe affrontato il problema. «E quindi?», domandò allora. Lo stomaco gli era totalmente in subbuglio, non solo perché era stato visto - proprio da Jean, poi! - ma soprattutto perché ora aveva intuito dove volesse andare a parare l’altro.

«E quindi? Armin!», esclamò Jean. «È... è disgustoso!», disse senza mezzi termini. «L’Enjo Kosai è uno schifo!».

Armin si sentì ferito da quelle parole. Come se anche lui non lo sapesse… come se non ci avesse pensato a lungo prima di decidere di invischiarsi in un giro del genere.

«Cose che non cambiano la considerazione che hai sempre avuto su di me», commentò freddo Armin, lasciando sanguinare le ferite che quelle frasi gli avevano fatto nascere, senza curarsi di ricucirle, ci avrebbe pensato dopo, in solitudine, come sempre.

Jean rimase basito da quelle parole. «Questo non… non è vero!», esclamò. Non aveva mai pensato che Armin fosse disgustoso. O meglio, era il suo stare sempre appiccicato a Eren che lo rendeva tale, ma solo perché era Eren, non altro.

Armin fece roteare gli occhi, scocciato, facendo un verso di stizza. «E ora, quindi? Vuoi ricattarmi per mantenere il silenzio? O hai già messo la voce in giro?», chiese senza mezzi termini. L’idea che tutta la scuola sapesse di come passava la maggior parte dei pomeriggi lo terrorizzava, ma avrebbe fatto più male se la voce di ciò che faceva fosse arrivata a Eren o Mikasa. Loro, proprio loro, non dovevano saperlo. E nemmeno Jean avrebbe dovuto venirne a conoscenza, ma era troppo tardi per lui, ormai.

«No, senti, sei fuori strada», disse l’altro ragazzo, muovendo una mano davanti alla faccia come se stesse scacciando una mosca. «Niente del genere: starò muto».

«E allora perché me lo hai detto?», chiese Armin in tono basso, non sapendo cosa aspettarsi e a cosa portasse quella discussione. Era un po’ agitato.

«Parlarti per… capire. Perché lo fai? Cosa ne viene da questa storia? Libri? Videogiochi? Quelle cose da otaku che ti piacciono tanto?».

«Se era solo per questo, dovresti imparare a farti gli affari tuoi, Jean», rispose il ragazzo biondo, duro. «Non mi hai praticamente mai parlato in anni di scuola, perché farlo ora, per qualcosa che non ti deve importare?». Era imbarazzante e avvilente che qualcuno lo avesse colto con le mani nel sacco. Aveva sempre scelto luoghi d’incontro lontani dalla scuola appunto per non incappare in qualche suo compagno, eppure non era stato abbastanza cauto…

Jean a quella domanda non seppe esattamente cosa rispondere. «Forse perché speravo che mi fossi sbagliato», ammise.

Armin lo guardò, sbattendo più volte le palpebre. «Avrei preferito che continuassi a ignorarmi», ammise.

Jean fece schioccare la lingua, inquieto. «Armin, finché ti compravi quei cazzo di robottini, o andavi alle tue convention piene di gente demente che sbava sulle poppe disegnate non me ne fregava nulla. Ognuno ha i suoi hobby. Ma questo non è un divertimento è u-».

«Un lavoro», lo bloccò freddo Armin. «È il mio lavoro, Jean».

Il ragazzo più grande non poté crederci. «Armin, esci con degli uomini più grandi!».

«Non vedo dove sia il problema», rimostrò lui.

«Che se frequenti quel tipo di negozi con loro significa che non ti fermi al solo uscirci. Ci fai sesso?», chiese Jean a disagio.

Le guance di Armin si imporporano a quella domanda così schietta. «E anche se fosse?», chiese duro, mentre l’umiliazione lo corrodeva. «Che ti importa. Sono gay, va bene?! Ora sai tutto…». Non poteva andare peggio di così.

Proprio Jean doveva aver saputo dell’Enjo Kosai? Se fosse stato solo, Armin si sarebbe messo a piangere in un cantuccio, vomitando il poco che aveva nello stomaco dalla colazione, unito agli acidi succhi gastrici che in questo momento sembravano ribollirgli dentro. Fare coming out ormai era la cosa minima, dato che già in molti a scuola avevano messo in giro questa voce a causa del suo aspetto e dei suoi modi, oltre che per la compagnia.

Jean rimase di sale nel sentire quelle parole. Aveva solo minimizzato il disagio nello stare con un uomo così grande rispetto a lui.

«Sì, ma non puoi continuare così», disse Jean, mettendo le mani aperte davanti a sé in uno scatto. «Non hai un po’ di amor proprio? Non pensi a quanto fai soffrire la tua fidanza--il tuo fidanzato, così?».

Armin gli stava per dare uno schiaffo. Quelle parole oneste sapevano far male come spade conficcate nella schiena. «Ti pare che se avessi il ragazzo farei certe cose?», aveva sentito troppo. «Non sai nulla di me, e ti ostini a farmi la paternale, Kirschtein?».

«Beh, allora pensa al tuo futuro fidanzato. Come si sentirebbe se mai sapesse?!».

«Non lo saprà!», urlò Armin, turbato.

Non ne poteva più.

Il suo piano di copertura era fallito, e lui doveva assolutamente pensare, in silenzio. Non era fatto per affrontare i problemi seduta stante: lui era uno stratega, aveva bisogno di tempo per ponderare sull’accaduto.

Dopo aver preso un grosso respiro per ricacciare dentro le lacrime - la sua maschera non aveva retto tutto quel dolore, di fronte a Jean -, decise che la faccenda, per quanto gli riguardava, era chiusa lì, visto che Jean non sembrava voler fare la spia, e andò verso la porta.

«Oehi! Aspetta!», esclamò l’altro ragazzo, inseguendolo per arrivare con veloci falcate alla porta e superarlo affinché non la aprisse; avere dodici centimetri di più di altezza era molto utile a volte.

«Che vuoi?», domandò Armin, guardandolo duro. Voleva forse ferirlo ancora?

«Devi smettere con questa merda», gli disse diretto, come suo solito.

«Non sei tu a decidere per me».

«Lo so, ma fai qualcosa di non accettato a livello sociale! Ti rendi conto? Se si dovesse sapere...».

«Hai detto che non parlerai».

«Non posso promettertelo».

«Che bast-».

«Sarebbe per il tuo bene, Armin!», esclamò Jean, bloccando il suo insulto. «Sei un nerd effettivamente disagiato, ma non puoi distruggerti così. Sei intelligente e carino, sono sicuro che troveresti qualche altro modo per far soldi, se ne avessi bisogno per le tue cose. Non hai i sensi di colpa per come prendi quel denaro?!».

Una domanda che Armin si era posto più volte, arrivando sempre e solo ad un’unica possibile conclusione: «No». Ci aveva pensato tanto, quando aveva deciso di iniziare con l’Enjo Kosai, ed era certo che non avrebbe mai rimpianto quella sua scelta.

Jean non fu per niente contento di quella risposta, ma non fu abbastanza veloce nell’argomentare, che Armin lo scansò e raggiunse la porta, senza aggiungere altro.

Il ragazzo più alto lo lasciò andare, seguendolo con lo sguardo.

Sapeva che Armin aveva ragione sicuramente su una cosa: doveva farsi i fatti propri, ma per tutto il resto si sbagliava, e di grosso.


***


I giorni continuarono a passare tranquilli come al solito.

Jean, per la prima volta da quando erano compagni di classe, iniziò a guardare più spesso Armin, con il risultato di farsi pure beccare di rimando, ogni tanto.

Non si era mai soffermato troppo su quel ragazzo, etichettandolo come amico nerd di quello sfigato di Eren, ma si accorse che non aveva sbagliato quando gli aveva detto che era carino: era esile di spalle e dai muscoli poco tonici, basso e con il viso puerile, reso ancora più puro dai capelli biondi dal taglio datato e gli occhi celesti; nonostante ciò, in questi c’era una scintilla imperitura di ingegno, fantasia e intelletto. Ogni tanto aveva orecchiato i suoi discorsi, a volte - troppo volte - si fermava a parlare dei suoi stupidi hobby con passione maniacale, ma anche quando parlava di argomenti più seri sembrava sempre sapere tutto, quasi ostentato quanto fosse informato e studioso, come una sorta di Hermione Granger un po’ più simpatica. Sì, perché Armin era anche simpatico, oltre che brillante.

Più ci pensava, più lati positivi trovava in Armin, più aveva il disgusto per quello che faceva una volta finite le lezioni. Nonostante le uscite con quell’uomo, o quegli uomini, Armin era sempre in pari con lo studio, come testimoniavano le occhiaie bluastre che ogni tanto gonfiavano i suoi occhi.


Fu dopo quasi due settimane che Jean decise che non doveva arrendersi, ma anzi continuare a insistere con Armin. Tutto il tempo che passava con quell’uomo avrebbe potuto impiegarlo per un part-time, forse meno remunerativo, ma di sicuro meno umiliante. Trovava impossibile che a livello psicologico lui non ne soffrisse.

Fu così che una sera tardi si presentò davanti a casa di Armin. L’indirizzo lo aveva saputo da Connie, un loro compagno di scuola, che si era posto mille domande sulla richiesta di Jean, ma si era placato quando l’amico gli spiegò che doveva rendere un quaderno ad Armin, poiché quella mattina si era dimenticato.

«Da quando siete amici?», gli aveva chiesto Sasha, altra loro compagna e fidanzata di Connie.

«Da poco», aveva risposto Jean, mentendo in parte. Altro che amici, era certo che Armin si sarebbe infuriato, ma era per il suo bene e doveva ritentare di nuovo, almeno un’ultima volta.

Per Armin e per se stesso.

Dopo aver preso un profondo respiro, aveva suonato al citofono del condominio dove abitava il ragazzo, attendendo che gli rispondesse.

«Chi è?», chiese una voce adulta e flebile.

«Buonasera, signor Arlert, sono Jean Kirschtein, un amico di Armin», disse il ragazzo, dandosi poi dello stupido per aver esplicitato chi fosse, avendo paura che il compagno di classe potesse bloccare il nonno.

«Sali pure, terzo piano», gli disse l'anziano, aprendogli il cancelletto.

Jean tirò un sospiro di sollievo, entrando nella struttura; a ogni scalino che faceva, però, si sentiva sempre più oppresso. Non avrebbe cavato un ragno dal buco, ne era certo, ma voleva tentare, stare a posto con la propria coscienza e salvare Armin da quel ciclo di autodistruzione che aveva innestato.

Arrivato al piano indicato, vide subito una porta accostata dalla quale filtrava la luce dell’abitazione, in contrasto con il buio della sera rischiarato dai rari lampioni della zona che a stento giungevano all’appartamento - quello non era un quartiere borghese.

Jean si avvicinò ad essa, e dall’interno gli aprì un vecchio piegato dal peso degli anni, dagli occhi chiari e il volto sorridente.

«Mio nipote mi ha parlato ogni tanto di te, entra», disse l’uomo, facendogli spazio.

«Grazie...», mormorò Jean. Davvero Armin gli aveva parlato di lui? Chissà che gli aveva detto… Sicuramente non belle cose. Era strano che gli permettesse di entrare in casa... che fosse una trappola? Magari voleva avvelenarlo con del tè?

«Gradisci del tè?», chiese l’uomo, chiudendo la porta.

Appunto.

«No, grazie», fece gentile Jean, nonostante il disagio. Si tolse le scarpe, rimanendo con le calze in giro sul parquet che rivestiva il pavimento.

«Armin tornerà tra poco, insisto», disse l'uomo, accompagnando con passo lento Jean in cucina.

Casa Arlert era minimale e piccola, ma pulita. Jean, una volta giunto in salotto, si guardò intorno: la stanza fungeva anche da cucina, come testimoniavano l'angolo cottura, il frigo e il forno schiantati contro la parete antistante il televisore, dove numerose mensole erano ricche libri, libri, libri, libri e ancora libri, più qualche rivista, dei manga e alcuni modellini che il ragazzo riconobbe come qualche rappresentazioni di protagonista di anime. Sul piccolo kotatsu centrale, senza la coperta, c’era già apparecchiata la tavola per due; probabilmente mangiavano molto presto, visto che non erano ancora nemmeno le sette.

«Accomodati», gli fece l’uomo, e Jean si sedette su uno dei quattro cuscini attorno al tavolino, quello senza i piatti davanti.

«Grazie, toglierò il disturbo il prima possibile», disse Jean.

«Non preoccuparti», rispose l’uomo, andando a mettere su l’acqua per il té.

Mentre il nonno di Armin gli dava le spalle, Jean guardò il tavolo, apparecchiato con due ciotole, due bicchieri, una brocca d’acqua, due paia di bacchette e due piccoli contenitori di plastica con dentro delle pillole, entrambi dallo stesso lato del coperto. Il giovane strinse gli occhi per mettere meglio a fuoco l’etichetta e riconobbe un medicinale per le vie aeree, l’altro per la pressione.

Pensieroso, tornò a guardarsi intorno, pensando che una cucina non fosse proprio il posto ideale per tenere dei libri, ma non commentò, soffermandosi a notare che ce n’erano un gran numero di quelli di avventura. Dovevano essere di Armin, probabilmente non aveva più spazio nella propria camera e aveva invaso la cucina, pensò.


Proprio mentre Jean stava finalmente bevendo il suo té matcha fumante, si sentirono dei rumori dall’ingresso.

«Nonno, sono a casa!», urlò la voce di Armin, seguito dal suono della porta che si chiudeva.

«Bentornato, Armin. C’è il tuo amico qui», lo informò il nonno. «E c’è ancora l’acqua calda se gradisci del té».

«Grazie, nonno!», esclamò Armin, camminando verso la cucina. «Eren, non mi avevi detto ch-», iniziò a dire, raggelando poi sul posto quando notò che il ragazzo di spalle alla porta non era affatto il suo migliore amico. «J-Jean?!», esclamò, completamente preso in contropiede.

L’ospite girò il volto. «Ciao, Armin», lo salutò, tranquillo.

«Jean! Cosa… cosa ci fai qui?!», gli chiese Armin, arrossendo. Il vecchio ridacchiò per lo sgomento negli occhi del nipote, non lo aveva mai visto così.

«Devo parlarti», disse Jean. «Farò in fretta», assicurò, come quella volta.

Il nonno si alzò, ma Armin ebbe da ridire: «Se vuoi restare qui a guardare la tv, possiamo andare in camera tua».

La proposta suonò strana alle orecchie di Jean, ma non fece commenti. Perché non voleva portarlo nella propria di cameretta? Pensò ci fosse qualcosa di scabroso da nascondere che magari avesse lasciato in giro…

L’anziano annuì. «Non c’è problema, così Jean può finire la sua bevanda».

«Ok, nonno, saremo veloci», disse.

Il vecchio annuì e se ne andò. Appena i due giovani sentirono una porta scorrevole chiudersi, Armin entrò in salotto, accese il televisore, avendo cura di alzare il volume, e andò a versarsi un po’ di tè matcha nella tazza, andando poi a sedersi nel posto di tavolo libero.

«Allora, perché sei qui?», chiese al ragazzo, soffiando sul caldo liquido verde chiaro per poterlo bere più in fretta. Era nervoso, non aspettandosi che Jean potesse piombargli in casa. Quel ragazzo riusciva sempre a capire i punti deboli dei suoi piani, se avessero lavorato dalla stessa parte sarebbero stati un duo imbattibile.

«Volevo solo sapere se avessi smesso», disse Jean, saltando i noiosi preamboli.

Lo sguardo di Armin divenne stanco e spento. «Non ho voglia di litigare, Jean. È stata una giornata non proprio ok», gli disse, senza rispondere esplicitamente alla sua domanda.

«È un no?», chiese Jean, notando che il ragazzo fosse vestito con la divisa scolastica.

«Non posso», sospirò lui, stringendo la tazza per scaldarsi le mani dal gelo dell’esterno.

«Armin...».

«Jean, non posso smettere, ok?», sussurrò Armin, sospirando.

«Perché? Per questi?», chiese lui, indicando con un ampio gesto del braccio libri e modellini dietro di sé.

«Per lui», rispose il più piccolo in un mormorio, guardando davanti a sé, dove il tavolo era apparecchiato per il nonno. Era triste quella sera, nonostante si fosse mostrato felice al nonno. Aveva bisogno di sfogarsi un attimo, e forse la presenza di Jean lì, l’unico che sapesse la verità, avrebbe potuto offrirgli un po’ di conforto. «Mio nonno è peggiorato, ha sempre sofferto ai polmoni, ma in quest’ultimo mese abbiamo dovuto fronteggiare molte spese e l’assicurazione sanitaria non ci rimborsa tutto, inoltre si avvale di una clinica specialistica. Speriamo solo che passi in fretta, ma pure i farmaci hanno un loro costo», spiegò Armin, sottovoce, guardando il proprio riflesso sulla superficie del té.

Jean rimase senza parole. Avrebbe veramente pensato di tutto, ma mai che Armin lo stesse facendo per quel motivo. Le sue parole lo colpirono come macigni. «Non potevi aspet--».

«No, il denaro serviva subito, non potevo aspettare uno stipendio a fine mese. E ora sto continuando a vedere quell’uomo, finché non sono sicuro che non servano altri soldi urgenti», continuò a spiegare, sospirando piano alla fine di tutto. «Io e mio nonno campiamo con la sua pensione, Jean. Non è tanto, ma lui non vuole che io lavori per mantenermi gli studi; ha sempre fatto molti sacrifici per me, ora io voglio aiutare lui… Ho anche già rivenduto parte delle mie cose».

Jean si sentì una merda per aver additato Armin con brutte parole, quando invece in ragazzo lo faceva per una giusta causa; anche se quello che faceva non poteva dirsi giusto, affatto.

«Armin io...».

«Ti dispiace?», chiese il ragazzo dai capelli biondi, calmo e freddo, iniziando a bere. «Non voglio la pietà di nessuno. Né che i miei amici lo vengano a sapere, capisci? Posso farcela da solo».

«Sei sicuro?», domandò Jean. Lo vedeva molto giù.

«Sì, come ho sempre fatto», annuì Armin. «È tutto a posto».

Jean però sapeva che le sue parole non erano veritiere. «Basta dire cazzate, Armin», disse severo, senza urlare. «Mi dispiace di averti detto quelle cose, ma tutto ciò che è uscito dalla mia bocca lo penso tutt’ora, soprattutto il fatto che tu non possa continuare così. Ormai sono invischiato pure io in questa storia e se non me ne fosse fregato di te, semplicemente non sarei qui ora».

Armin sollevò lo sguardo al suo viso dall’espressione dura, con i piccoli occhi che lo fissavano severi.

«So che non sono mai stato tuo amico, ma forse potrei esserlo ora, ti pare? Ora parlami e dimmi cos’è successo. Non puoi continuare a tenerti tutto dentro».

L’altro ragazzo si morse il labbro inferiore, tornando a centellinare la bevanda. Non era solo questa che riusciva a scaldargli il cuore, ma anche le parole di Jean.

Credeva che lo reputasse spazzatura, ormai, e invece era lì, che tentava in ogni modo di salvarlo.

«Lui… mi ha fatto una proposta», spiegò Armin con il cuore in gola e gli occhi chiusi, stringendo talmente forte la tazza che le nocche gli divennero bianche. «Mi ha detto di accettare o non ci rivedremo più, e io ho bisogno di rivederlo».

Jean lo guardò strano. «Cosa?», chiese gentile, mettendo una mano sulla sua. Il gesto fece riaprire di scatto gli occhi ad Armin, il quale fissò quella mano con il fiato corto.

Chi toccherebbe mai della spazzatura?

«Lui mi ha chiesto di fare sesso con lui», sussurrò piano, vergognandosene.

Jean batté le palpebre, non capendo. «Non lo avevi mai fatto prima con lui?».

Armin negò con il capo. «No, quando andavamo nei Love Hotel… facevamo altro. Lui non mi ha mai toccato, se non oggi», aggiunse in un fiato, guardando in direzione della porta, per controllare che il nonno non fosse uscito. Jean si chiese perché non andasse direttamente a casa di quell’uomo, dopotutto avrebbero avuto molta più privacy, che non in un albergo a ore.

«Cosa ti ha fatto?», chiese preoccupato Jean.

«Mi ha infilato la mano nelle mutande, ma l’ho scacciato, e lui si è offeso per i modi», spiegò il ragazzo, sospirando.

«Mi dispiace...».

Armin scosse il capo. «Dovevo essere più cauto io, sapevo che non sarebbe riuscito a stare ai patti ancora per molto… ha detto che se domani non lo accontento, taglia i ponti».

«E lo farà?».

«Non lo so, potrebbe essere tutta una farsa, fingersi offeso per un po’ per poi tornare. Ma io ho bisogno ora dei suoi soldi, non quando vorrà rivedermi. E non sono sicuro di voler fare quel passo con lui».

«Meno male...», soffiò Jean. «Io pensavo che già facessi quelle cose con lui, e invece...».

«Le avrei fatte», lo interruppe Armin, prima che potesse dire qualcosa di carino su di lui che non corrispondeva al vero.

«… e allora cosa ti ha fatto desistere oggi? Ti sei trovato faccia a faccia con la realtà e non ti è piaciuta?», domandò Jean. Ormai il suo té si era raffreddato e non ne aveva bevuto che un sorso, ma al momento non gli importava.

«Non mi piaceva già da prima, ma avrei sopportato di tutto, per nonno».

«E allora?», insistette Jean.

La mancina di Armin andò al dorso della mano di Jean, stringendola. «È colpa tua», disse lapidario Armin, spostando lo sguardo ai suoi occhi. «Di quello che mi hai detto l’altro giorno nell’aula di musica. Ho pensato che finché i miei modi di fare avessero riguardato solo me, allora non ci sarebbero stati problemi, ma se mai io dovessi far soffrire qualcuno vicino a me, se il mio comportamento facesse male a una persona importante per me, allora non aveva più senso. Io sono capace di sacrificare tutto me stesso per le persone a cui voglio bene, se questo può servire a cambiare qualcosa, ma finché non mi hai fatto pensare a quanto schifo avesse potuto avere un mio futuro ragazzo nel sapere dell’Enjo Kosai… io non...». Una lacrima muta e solitaria accarezzò la guancia di Armin, cadendo nella tazza di tè e increspando la superficie con piccoli cerchi concentrici.

Jean si sentì scosso da quelle parole. Aveva sbagliato tutto su Armin: era un ragazzo molto più coraggioso di quanto credeva, e sicuramente con un grosso spirito di sacrificio. Senza pensarci, si avvicinò ginocchioni a lui e lo abbracciò, facendo riposare la sua testa sul proprio petto.

Il ragazzo, a quella stretta gentile, avuta proprio da chi meno se lo aspettava, non riuscì a contenere le lacrime e pianse piano contro la giacca della sua divisa, stringendola tra i pugni. Il corpo mosso da fremiti, era al sicuro tra le braccia di Jean, che rimase per interi minuti così, offrendo al nuovo amico uno sfogo da tutte le sue paure e le sue frustrazioni.

Non si accorsero del tempo che era passato se non quando il nonno di Armin tornò in cucina, facendo capolino dalla porta. «Tutto bene, ragazzi?», chiese, preoccupato.

Armin trasalì e allontanò il volto da Jean; i suoi occhi erano ancora umidi e arrossati, ma aveva smesso di piangere, godendo solo di quel caldo abbraccio. «Sì, nonno. Tutto bene», disse, tirando un po’ su con il naso.

«Se vuoi...», fece per dire, ma Armin negò con il capo.

«No, ora sto bene… Grazie, Jean», disse rivolto al compagno di scuola. Aveva gradito davvero la sua vicinanza; non glielo aveva mai detto, ma aveva da sempre avuto una brutta cotta per lui, ma non gli era mai andato giù il suo comportamento da bullo fighetto e aveva ben deciso di tenersene alla larga. Il sentirsi trattare alla stregua di un rifiuto proprio da lui lo aveva fatto stare molto male da quel giorno, ma poi gli era sembrato di rinascere lì tra le sue braccia, cullato dalle sue parole che lo avevano fatto credere di più in se stesso e in quanto in realtà valesse.

«Di niente, dovevo dirtelo, era importante», sorrise il ragazzo più alto.

Armin adorava il suo sorriso, era la cosa che per prima lo aveva fatto innamorare di lui.

Gli sorrise di rimando, stanco.

«Jean vuole fermarsi con noi a cena?», propose il nonno.

I due ragazzi lo guardarono. «Non vorrei disturbare», disse l’interessato.

«Nessun disturbo, se ti va», lo tranquillizzò il nonno.

Armin annuì, anche a lui gli avrebbe fatto piacere se Jean fosse rimasto.

«Va bene, grazie», accettò lui.

L’anziano sorrise. «Volete che rimanga di là ancora un po', così potete parlare?».

«No, abbiamo finito», disse Armin, andando ai fornelli, ben deciso a preparare del buon riso al curry.

L’uomo annuì e andò a sedersi al proprio posto, cambiando canale alla televisione e abbassando il volume.

Jean fissò la schiena di Armin - così esile, ma capace di sostenere tutto quel peso - e si disse che gli avrebbe parlato prima di andare via, mostrandogli che gli sarebbe stato vicino, anche economicamente se questo avesse potuto aiutarlo, sperando che la notte gli portasse consiglio, e Armin potesse fare la scelta giusta e approfittare della situazione per rompere ogni legame con quell’uomo.



Continua...
XShade-Shinra

  
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