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Autore: Generale Capo di Urano    25/04/2018    3 recensioni
[ 25 aprile 1945 ]
Ormai sicura è già la dura sorte
del fascista, vile e traditor.

Aveva ucciso e aveva salvato, con la rabbia di un uomo in catene. Sparò quell’altro colpo, tenne gli occhi ben aperti per vederne il risultato.
E con l’animo ormai impuro e lacerato, immaginò il giorno in cui una delle sue pallottole avrebbe raggiunto il petto più bastardo di tutti.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Fischia il vento


« A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale. »
 
 
 

Fischia il vento e infuria la bufera
scarpe rotte e pur bisogna andar
 

A Feliciano il rosso non era mai piaciuto.
Eppure sembrava essere il colore della libertà, e della lotta per raggiungerla. Ma il rosso puzzava anche di sangue, di guerra e di morte, di rottura e di rabbia e di utopie irraggiungibili e crudeli.
Feliciano era un sognatore, e i sognatori erano facili da corrompere.
Gli avevano promesso, dopo secoli di oppressione e derisioni, riconoscimento e grandezza, in cambio di completa dedizione. Aveva pensato a suo nonno, l’aveva compianto e in nome suo si era vestito di nero e aveva innalzato nuovamente i fasci littori per ritrovare la potenza che aveva perduto.
Si era illuso, dopo essere stato un – neppure completo – riconquistatore di se stesso, di poter essere anche un conquistatore di altri.
Non dimostrandosi migliore di coloro che l’avevano sempre schiacciato.

 
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il Sol dell’avvenir!
 

Feliciano era abituato ad obbedire, principalmente per codardia – o sensibilità, come preferiva definirla; non gli piaceva sentire la rabbia degli altri contro di sé.
Probabilmente per questo aveva accettato senza grandi problemi l’occupazione, il giogo e gli ordini che lo straniero gli aveva imposto. L’aveva creduto amico, l’aveva, forse, persino ammirato, gli aveva voluto bene; aveva odiato le stesse persone che lui odiava – perché così funziona l’amicizia, o no?
Aveva visto il suo migliore amico squartare suo fratello, il fratello che lui si era scelto, spartirselo a tavolino come le vesti del Cristo e non aveva fatto domande, non aveva gridato e non gli aveva mostrato il suo pianto e il suo orrore.
L’aveva seguito lontano da casa, in mezzo ai ghiacci e alla desolazione, senza ribellarsi.
Non si era lamentato quando costui l’aveva diviso e strappato dal fratello con cui condivideva il sangue e la terra. Aveva odiato colui che più lo amava al mondo, piuttosto che ammettere i propri errori, la propria paura.
Feliciano era un codardo e un illuso, e dall’alto dei suoi sogni aveva finito per sporcarsi le mani con la vita di migliaia di innocenti.

 
Ogni contrada è patria del ribelle
 

Poi aveva aperto gli occhi.
E aveva visto la propria gente morire e aveva sentito l’odore della polvere da sparo e udito le urla delle madri e toccato e assaggiato il sapore del sangue vischioso; non si riconobbe, cercò di lasciarsi morire, gli fu impedito.
Gli fu impedito dalla forza della gioventù che ancora credeva nella libertà e nell’Italia e che avrebbe combattuto fino allo stremo, senza sosta, cancellando la paura – quella gioventù che sapeva essere coraggiosa anche per lui.
E allora era stato forte davvero, non come fino a quel momento aveva creduto di essere. S’era vestito del colore dell’uguaglianza e della lotta e aveva imparato, di nuovo, come si abbracciava un fucile in favore della propria patria.
Ricordò cosa significasse odiare un invasore.
Riscoprì la furia e l’orgoglio della ribellione.
Odiò senza vergogna, per amore degli italiani – per davvero, quella volta.
 

 
forte il cuore e il braccio nel colpir.
 
 
I suoi occhi incontrarono quelli azzurri e vitrei di un uomo sdraiato a terra, rigido e immobile. La pallottola nella sua testa era del calibro della propria arma – non che lo conoscesse; gli bastava avere in mano qualcosa, in realtà. Qualcosa che potesse ferire.
Sai, una volta l’idea di uccidere non mi provocava altro che orrore.
Forse avrebbe dovuto chiudergli gli occhi, ma chissà se quell’uomo avrebbe avuto lo stesso rispetto per lui, se fosse stato più rapido ad ucciderlo. Feliciano si ricordò di non essere al loro livello, e lo fece.
Ho imparato che c’è un sacrificio per tutto. Ho imparato che, se voglio essere libero, devo smettere di permettere agli altri di fare ciò che vogliono.
Devo smettere di credere in persone che vogliono far del male a molti per il bene di pochi...
Strinse il fucile tra le mani tremanti, pensò a Romano, pianse. Alzò lo sguardo, incontrò le iridi scure e decise di un ragazzo – non doveva avere più di diciott’anni – con abiti lisi, sporchi e consunti e un fazzoletto rosso al collo, che lo aspettava.
Non sapeva chi era, non sapeva che stava combattendo anche per lui. Non sapeva quanto Feliciano gli fosse grato.
Italia si asciugò gli occhi e accennò un sorriso. Debole, ma resistente.
 

 
Ormai sicura è già la dura sorte
del fascista, vile e traditor.
 

Spia.
Prese la mira, nascosto tra le sterpaglie.
Era un italiano.
Sentì l’arma scivolargli dalle mani sudate, cercando di tenerla stretta.
Un traditore.
Deglutì. Sbatté le palpebre, per impedire alle lacrime di offuscargli la vista, di nascondergli quella camicia nera come il male.
Un fascista.
Feliciano aveva perso il conto di quanto tempo aveva passato nascosto, cercando di rifuggire dall’invasore e dai suoi stessi compatrioti. Aveva perso il conto di quanti giorni aveva passato a tremare, a piangere e a sentirsi più che mai attaccato alla vita, sempre più vicino alla morte e alla libertà.
Aveva ucciso e aveva salvato, con la rabbia di un uomo in catene. Sparò quell’altro colpo, tenne gli occhi ben aperti per vederne il risultato.
E con l’animo ormai impuro e lacerato, immaginò il giorno in cui una delle sue pallottole avrebbe raggiunto il petto più bastardo di tutti.

 
 
Cessa il vento, calma è la bufera
torna a casa il fiero partigian
 

Si era ricordato come si urlava, e lanciò al cielo un grido che doveva essere di liberazione, disperata e sofferente, mentre cadeva in ginocchio e, ancora, piangeva.
Era stato corrotto e sporco, aveva conosciuto l’inferno e lui stesso ne era stato un diavolo. Si era pentito, e come il figliol prodigo avrebbe voluto crollare ai piedi della gente e implorare perdono a ognuno di loro – chinarsi poi davanti al suo stesso fratello, e chiedere scusa, e supplicare un ultimo abbraccio.
Vide le sue mani insanguinate, e così il suo petto; non sapeva se il sangue fosse suo o di qualcun altro. Rosso, come la libertà, il dolore, la ribellione e la guerra.

 
sventolando la rossa sua bandiera
vittoriosi, alfin liberi siam!

 
 
Gli parve di udire una voce chiamarlo, prima che un paio di braccia lo sostenessero e si accorgesse di star quasi perdendo i sensi – forse, quel sangue tanto rosso e brillante, era proprio il suo.
Anche Romano era rosso, e piangeva e gemeva il suo nome e lo stringeva e lo accarezzava, giurando su Dio che non avrebbe mai più permesso che qualcuno li separasse, li opprimesse, li umiliasse.
Sentì che il proprio cuore era leggero, e capì di essere finalmente libero.
Lo sentì biascicare, tra i singhiozzi, che era fiero di lui.

 
Vittoriosi, alfin liberi siam.


 
   
 
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