Serie TV > Sherlock (BBC)
Ricorda la storia  |      
Autore: Spoocky    14/05/2018    2 recensioni
Partecipa della 26 prompt Challenge sul gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart [https://www.facebook.com/groups/534054389951425/ ] Prompt 2/26 - Dipendenza.
Una mattina apparentemente tranquilla, rincasando John trova Sherlock in piena overdose.
Mentre lotta per salvargli la vita si accorge che potrebbe esserci dietro molto più che una semplice ricaduta.
Dedicata a g21, per tutto il supporto di questi anni!
Genere: Angst, Drammatico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Non ricavo assolutamente alcun profitto da questo scritto.
I personaggi di Sherlock appartengono a Mark Gatiss e Stephen Satana Moffatt.
Le canzoni citate più o meno esplicitamente ai rispettivi proprietari.

Il contesto generico è la seconda stagione, prima del "Mastino di Baskerville".
Non è propriamente una slash (nel senso che non c'è una relazione romantica a tutti gli effetti) ma se volete vederla come Johnlock la potete tranquillamente interpretare così.

Buona Lettura ^.^
We find you totally innocent
Which is the worst crime of all

Le borse della spesa produssero un piacevole fruscio, strusciando tra loro mentre John le appoggiava con delicatezza sul tavolo della cucina.
Un fragrante odore di pane fresco si diffuse nella stanza e il sacchetto della forneria all’angolo crepitò quando il medico vi estrasse un panino dolce, addentandolo con un sospiro.
Niente di meglio del pane appena sfornato, ancora tiepido e profumato, per cominciare bene la giornata.
Masticò lentamente, gustandosi il momento, quando un tonfo improvviso lo fece sobbalzare.
Lo spavento durò poco: era abituato alle abitudini assurde del suo coinquilino, capacissimo di essere rimasto sveglio tutta notte ed essere ora caduto dal letto (o da qualunque altra superficie orizzontale imbottita) nel tentativo di alzarsi.
Tutto normale.

Ma il gemito basso che infranse subito dopo la quiete dell’appartamento, quello no, non era normale.

L’adrenalina di Watson schizzò alle stelle e, lanciato il panino nella direzione generica del sacchetto, si precipitò in soggiorno.
Una leggera brezza londinese lo investì ma non ci fece caso più di tanto.
A catalizzare la sua completa attenzione pensò Sherlock, raggomitolato sul pavimento in vestaglia, i capelli sudati e appiccicati alla fronte, che si lamentava pietosamente e tremava come una foglia.
Il suo incarnato pallido aveva perso ora ogni sfumatura, eccetto per una macchia estremamente arrossata su un lato del collo.
Chinandosi su di lui, John riconobbe un segno di puntura.
Appoggiò il palmo sul collo sudato di Sherlock ma lo ritrasse subito: scottava di una febbre disumana.
Senza staccare gli occhi dalla minuscola ferita sul collo dell’amico, decise di prendergli il battito sul polso.
Terribilmente irregolare e rapido come quello di un topolino.
John non impiegò molto a dedurre una diagnosi dal quadro generale dei sintomi: overdose da cocaina.

Ma come? Come?! Sherlock era pulito da anni ormai! Possibile che fosse riuscito a farla in barba a lui e Lestrade per tutto quel tempo, ma Mycroft? L’Holmes più anziano probabilmente sapeva anche quante volte al giorno andavano al cesso, si sarebbe accorto se il suo fratellino avesse ricominciato a farsi, no?
A meno che …
“Ma certo! Che stupido!” si schiaffeggiò violentemente la fronte: il segno di puntura sul collo non era certamente auto inflitto dato che pure un contorsionista avrebbe  avuto difficoltà a raggiungere quell’angolazione.
Non si era iniettato la droga volontariamente, anche volendo non avrebbe potuto.
Ovvio, non poteva avere la certezza matematica che gli avessero iniettato la droga proprio nel collo ma decise di non crogiolarsi troppo nel dubbio: aveva tergiversato anche troppo.

Estrasse il telefono dalla tasca e, senza premurarsi di sbloccarlo, premette tre volte il 9.
All’ultimo ricordò di inserire anche l’asterisco che Mycroft gli aveva ordinato di premere nel caso l’emergenza riguardasse il fratello.
Non si pose il problema di rispondere cordialmente all’operatrice mentre le abbaiava una serie di ordini e le riattaccò in faccia non appena ebbe la conferma che l’ambulanza fosse partita.

“John …”

Si chinò sull’amico non appena quel singulto a malapena riconducibile al suo nome ebbe lasciato le sue labbra esangui.
Prese ad accarezzargli la testa, obbedendo ad un insopprimibile istinto viscerale che si impossessò della sua mano fece quello che avrebbe fatto se si fosse trovato davanti un bambino spaventato.
Gli si strinse il cuore nel vedere l’uomo a cui teneva di più al mondo, lo svitato che era diventato la sua nuova famiglia, in quello stato di cruda vulnerabilità.
Nello scostargli i capelli fradici dalla fronte, non si sorprese nel trovare le pupille dilatate tra le palpebre livide e quello sguardo assente lo terrorizzò più di ogni altra cosa.
“Ehi! Come ti senti? Scusa: domanda stupida. Ovviamente stai di merda! Ecco: aspetta qui, aspetta un momento. Torno subito!”

Sopraffatto dall’orrore Watson si precipitò in cucina, dove estrasse una borsa del ghiaccio dal freezer prima di cacciare la faccia sotto il rubinetto del lavandino per riprendersi dallo shock.
L’acqua fredda fece il suo lavoro rapidamente e poté tornare in soggiorno più lucido di prima.
Aveva appena steso l’impacco sul collo di Sherlock quando sentì il calore delle sue dita febbricitanti che si arricciavano intorno al suo polso.
“John …”
“Ehi! Sì, sono qui. Sono qui, Sherlock: andrà tutto bene.”
“John, la droga … la droga …”
“Shh, non ti agitare. Cerca di fare dei respiri profondi.”
“No! Io non … non l’ho presa di proposito … io non … non volevo!”
“Shh, shh. Lo so. Lo so.”
“Io non … non volevo … John, lo giuro!”
“Ti credo, Sherlock. Ti credo, davvero. Adesso però devi cercare di calmarti: hai già il cuore a mille e rischi di avere un infarto se continui così.”
“Resta … restami vicino, John. Ti prego: ho tanta paura.”

Watson si costrinse a guardare l’amico negli occhi e rimase sconvolto nel vedere qualcosa che avrebbe giurato fosse impossibile.
Qualcosa che riteneva avesse meno probabilità di apparirgli davanti di un UFO.
Qualcosa che sarebbe rimasta incastonata nella sua memoria per il resto dei suoi giorni: Sherlock stava piangendo.
Il disgelo improvviso dei suoi occhi lo ringiovanì: il pianto aveva lavato via la corazza dell’inespressività, rivelando l’adolescente spaventato che si annidava nel cuore del detective.
Un grido silenzioso che non poteva più essere ignorato si intrecciava con un’ espressione che il medico riconobbe per averla vista sul proprio volto per mesi al ritorno dall’Afghanistan: la disillusione di chi aveva vissuto quella stessa situazione tante volte, e in ognuna di queste aveva sentito il suo grido dissolversi nel silenzio assordante della solitudine.
Beh, non questa volta! Pensò John. Adesso ci sono io e che possa essere dannato due volte se non ti aiuto a venirne fuori!

Con gli occhi a sua volta pieni di lacrime, Watson raccolse l’amico tra le proprie braccia e se lo strinse al petto, incurante del sudore e del calore che emanava il suo corpo emaciato.
Dondolandosi avanti e indietro, prese a cullarlo dolcemente mentre con una mano premeva l’impacco freddo sulle arterie pulsanti del suo collo e intrecciava le dita dell’altra con le sue, stringendo forte per far penetrare nei suoi nervi sconvolti il messaggio che non era solo, che sarebbe andato tutto bene, che avrebbero lottato insieme per salvargli la vita.
Il corpo di Sherlock era scosso da tremori sempre più violenti e, all’apice degli spasmi, nascose la fronte alla base del collo di John, artigliando la sua camicia con la mano libera .
I suoi rantoli erano intervallati da grida rauche sempre più frequenti, per la maggior parte suoni inarticolati ma anche parole di senso compiuto e in lingue incomprensibili.

Il dolore acuiva l’ansia data dalla cocaina e si agitava sempre di più, tanto da trasformare l’abbraccio di Watson in una presa contenitiva.
Finché i tremori non diventarono convulsioni a tutti gli effetti.
John sapeva esattamente cosa fare: stese Sherlock a terra e gli mise un cuscino sotto la testa per evitare che sbattesse sul pavimento.
Poi si ritrasse per agevolare i movimenti involontari quanto più possibile e cronometrò l’attacco: un minuto netto.

Quando gli spasmi ritornarono al precedente stato di tremore diffuso e Holmes si accasciò sul cuscino con un gemito Watson usò il polsino del proprio maglione per asciugare il rivolo di sangue che colava dalle labbra incolori dell’amico.
Nel voltarlo in posizione di recupero gli abbassò la mascella e gli guardò in bocca, per sicurezza.
Come aveva immaginato, si era morso la lingua durante la crisi. Nulla di grave, almeno quello.
Già, perché tutto il resto stava andando all’inferno più rapidamente di quanto potesse gestire da solo.

Proprio quando anche l’ultima speranza lo stava abbandonando un’orda di paramedici fece irruzione nell’appartamento, seguita a ruota dalla signora Hudson.

John scattò in piedi immediatamente e li lasciò lavorare in pace: non aveva dubbi sul fatto che sapessero esattamente cosa fare perché sapeva chi li aveva mandati.
Per ciò si ritirò verso la porta e avvolse un braccio intorno alle spalle tremanti della padrona di casa, cercando di ignorare le cuffie che portava al collo e ancora emanavano Run to the Hills degli Iron Maiden ad un volume spropositato.
La donna si strinse a lui, evidentemente sconvolta: “Cosa gli è successo, povero caro?”
John scosse la testa: “Ancora non lo so per certo, ma sembra un’overdose da cocaina.”
“Cocaina?! Ma Sherlock è pulito da anni, ormai!”
“Infatti non credo l’abbia assunta volontariamente.”
Qualunque ulteriore tentativo di conversazione fu interrotto dal team che trasportò rapidamente la barella fuori dal soggiorno e verso le scale, lasciandosi dietro un cumulo di cartacce e confezioni di attrezzature mediche usa e getta.
Watson riuscì ad intercettare uno di loro: “Dove lo portate?”
“Al St Mary’s. E’ il Pronto Soccorso più vicino.”l’uomo squadrò rapidamente il medico e la donna “C’è posto solo per un altro passeggero, in ambulanza.”
“Vengo io con voi.”
“John! Aspetta! Cosa vuol dire che non l’ha assunta volontariamente?!”
Ma Watson si stava già precipitando giù dalle scale, alle calcagna dei paramedici: “Presto verrà qualcuno a spiegarglielo, signora Hudson!” furono le sue ultime, concitate parole prima che i portelloni del furgone si richiudessero dietro di lui e l’ambulanza si dileguasse a sirene spiegate.

Avevano appena voltato l’angolo che la padrona di casa si trovò di fronte due uomini bardati con delle tute protettive bianche ed un kit per l’analisi forense e un altro sconosciuto con un completo.
Quest’ultimo le sorrise affabilmente mentre gli altri due si introducevano nell’abitazione senza tante cerimonie: “Buongiorno, la signora Hudson presumo. Mi manda il signor Mycroft Holmes.”
“Giusto Cielo! C’era da aspettarselo. Beh, venga: faccio strada. Gradireste una tazza di tè?”

Il viaggio verso l’ospedale fu un’agonia: i suoni dall’esterno arrivavano attutiti nell’abitacolo del veicolo, aumentando l’impressione di trovarsi in un ambiente altro, sospeso nello spazio e nel tempo, mentre la vita nel mondo esterno proseguiva incurante del piccolo dramma che si stava consumando tra quelle pareti di lamiera.
Ma John non aveva occhi che per il monitor cardiaco accanto alla testa del suo amico.
Il frastuono delle sirene rendeva impossibile udirne il rumore, ma il grafico incostante sullo schermo elettronico nutriva l’animo del medico mentre stringeva la mano sudata e inerte di Sherlock tra le sue, pregando che la maschera dell’ossigeno e la flebo bastassero a stabilizzarlo fino all’ospedale.
Una vera agonia: pochi minuti sembrarono eterni.

E quando finalmente aprirono le porte per scaricare il paziente, Watson aveva vissuto quei pochi minuti tanto intensamente da avere i capogiri e non riuscire quasi a reggersi in piedi.
Un’infermiera lo prese per un gomito e, gentilmente ma con fermezza, lo accompagnò in sala d’attesa.
Nessuno fece domande, gli porsero dei moduli da firmare e un bicchiere d’acqua.
Firmò tutto e li riconsegnò rapidamente.
Non fece domande e non ricevette informazioni di alcun genere.
Il tutto si svolse in modo rapido ed efficiente.

Nel giro di un’ora e mezza un infermiere venne a prelevarlo e ad accompagnarlo in Terapia Intensiva, dove lo accolse un uomo all'incirca della stessa età dell'Holmes anziano, un uomo alto e magro il cui cartellino recitava "Dottor Melville Brooks"
Avevano ricoverato Sherlock in una camera privata, gli spiegò, e al momento non poteva ricevere visite: la situazione complessiva era ancora instabile, non si poteva assolutamente rischiare un’infezione ecc.
La cosa non stupì John più di tanto ma per qualche motivo, non lo spaventò come avrebbe immaginato. Forse perché in cuor suo sapeva che Mycroft li avrebbe mandati dal migliori nel settore e che, se ci fosse stato qualcuno al mondo in grado di salvare la vita di Sherlock, non poteva che essere l’uomo di fronte a lui.
Watson strinse le labbra ed annuì pazientemente mentre il dottor Brooks non faceva che confermargli quello che già aveva intuito: lo avevano preso per i capelli.
Gli avevano somministrato del naloxone per contrastare gli effetti della droga ma, dopo il recupero iniziale, era ancora molto fragile e faticava a respirare. Ragion per cui avevano deciso di intubarlo.
Avrebbe trascorso la notte in Terapia Intensiva, le prime sei ore in isolamento completo mentre gli venivano somministrati per via endovenosa antibiotici ad ampio spettro.
Per precauzione, sottolineò il medico.

“Per il resto, si vedrà nei prossimi giorni.” Concluse il medico “Mi sento di escludere una ricaduta: lo abbiamo rivoltato da capo a piedi e non abbiamo trovato segni di aghi, eccetto quello sul collo, e le mucose sono intatte quindi non può averla inalata ne tantomeno ingerita. Inoltre, abbiamo motivo di credere che la dose ricevuta, per quanto concentrata, non fosse eccessiva. Nel pieno della dipendenza ci sarebbe voluto ben altro per ridurlo così. Concorda, dottor Watson?”
“Concordo, senz’altro. Ma, se posso chiedere, ha mai avuto Sherlock in cura, prima di oggi?”
“Potremmo dire che … oh, al diavolo! Tanto il signor Holmes gliel’avrebbe detto, prima o poi: io ho seguito personalmente la riabilitazione del giovane Holmes dopo che suo fratello lo ha portato qui, più morto che vivo, diverso tempo fa. Non posso dire altro, lei è medico, credo capisca.”
“Certo, certo: il segreto professionale. Ma la prego, in quanto coinquilino/ babysitter di Sherlock ho bisogno che risponda ad una domanda …”
“Mi perdoni se la interrompo, credo di sapere dove voglia andare a parare: non credo che ci sia il rischio concreto di una ricaduta. Bisognerà seguirlo con attenzione nei primi giorni ma è per questo che siamo qui. Certo” sorrise “con Sherlock non si può mai essere sicuri al 100% di nulla: è troppo imprevedibile! Però non credo che ci siano i presupposti che lo hanno condotto alla dipendenza. Non ora che c’è lei.”
“In che senso, scusi?”
“Quello che intendo dire è che adesso il giovane Holmes non è più solo ad affrontare la vita. Non ha bisogno di cercare l’oblio in un oppiaceo perché sa di avere in lei un riferimento sicuro, qualcosa a cui aggrapparsi quando il suo mondo crolla. Mi segue?”
“Sì. Ma lui sembra vederla in tutt’altro modo!”
“Oh, lui non ammetterà mai nulla del genere! Non dopo che quello stitico emozionale del fratello gli ha fatto il lavaggio del cervello. E pensare che era un ragazzino tanto sensibile!”
“Sembra conoscerli bene, per essere solo il medico di Sherlock.”
Brooks si strinse nelle spalle: “Tanto per cominciare, sono psichiatra. E poi io e Mycroft siamo … molto legati, ecco. Credo di essere stato il suo unico amico, da ragazzo e frequentavo spesso casa Holmes. Per questo credo si siano rivolti a me.”
“Lei crede molte cose, dottore!”
“Sa com’è, con gli Holmes: definirli complicati è un pallido eufemismo. Ad ogni modo, ora devo proprio andare! Si accomodi pure.” Indicò una serie di sedie di fronte alla vetrata della stanza di Sherlock “Più tardi verrà qualcuno a portarle qualcosa da mangiare. E’ stato un piacere averla conosciuta, dottor Watson: Sherlock non potrebbe essere in mani migliori.”
Si congedarono con una stretta di mano.

Per tutta l’ora successiva, contemplando il corpo pallido e immobile dell’amico al di là del vetro, John non fece che pensare che il rapporto tra Brooks e Mycroft fosse più intimo di una semplice amicizia.
L’alternativa era tuttavia talmente inquietante che il suo cervello si rifiutava di prenderla in considerazione seriamente.
Tuttavia continuava a ripresentarsi, imperterrito e fastidioso come un pidocchio, andando a punzecchiare la sua coscienza.
Nonostante “Mycroft non ha amici, figuriamoci fidanzati!” fosse ormai diventato il suo mantra e nonostante fosse quasi riuscito a convincersi per inerzia della veridicità di questa affermazione, dovette concentrare tutta la sua volontà nello sforzo di non cedere ad una risatina imbarazzata quando sentì l’ormai famigliare ticchettio di un ombrello venire nella sua direzione.
Riuscì comunque ad ostentare una espressione di composta preoccupazione nel trovarsi faccia a faccia con Mycroft.

Come al solito, l’Holmes anziano saltò i convenevoli: si sedette alla sinistra di Watson e gli schiaffò sotto il naso il proprio telefono: sullo schermo campeggiava la foto di un dardo in plastica rossa.
“I miei uomini lo hanno trovato sul pavimento del vostro soggiorno. Presupponiamo che stamattina qualcuno abbia attirato l’attenzione di mio fratello verso la strada, per costringerlo ad aprire la finestra, e glielo abbiano sparato nel collo quando si è sporto. La cosa ironica è che all’interno abbiamo trovato tracce di cocaina concentrata al 7%, la stessa che usava quando … comunque: non sappiamo con certezza da dove sia provenuto lo sparo ne chi fosse il cecchino – anche se, ovviamente, abbiamo le nostre ipotesi – ma penso di poter andare sul sicuro con il mandante. Anzi, mio caro dottore, immagino che anche lei sappia di chi possa trattarsi.”
“Immagina male, allora. Perché non lo so!”
Una persona meno ossessionata dalla compostezza avrebbe roteato gli occhi, ma Mycroft Holmes sbatté solo le palpebre. Lentamente, molto lentamente: “Ma se dovesse fare una supposizione, quale sarebbe il primo nome che le verrebbe in mente? Coraggio, dottore: so che non è ingenuo come sembra!”
“Jim Moriarty?!”
“Bingo.”
“Ma perché? Cioè, non che ad uno psicopatico serva un motivo valido. Ma questo era un periodo tranquillo, Sherlock non stava facendo niente per attirare la sua attenzione! Niente di eclatante, almeno.”
“E’ proprio qui che sta il problema, dottore: Sherlock non stava facendo niente. Ecco, mi dia un momento.”
Mycroft smanettò un po’ con il suo smartphone prima di far partire un audio, con un volume decentemente basso, per non attirare l’attenzione ma John riconobbe immediatamente la voce melliflua del professore.

A questo punto vi starete chiedendo la causa di tutto questo.
La risposta è talmente semplice che se non ve la dicessi non la considerereste nemmeno. Ma io voglio che voi sappiate, quindi ve lo spiegherò: per noia.
Il nostro carissimo Sherlock Holmes in questo periodo si è macchiato di quello che io considero il crimine peggiore: l’innocenza. Non intendo dire che sia candido e puro come un agnellino, beninteso. Anche perché tutti noi sappiamo bene che è ben altro.
Quello che voglio dire è che non sta facendo nulla per darmi la caccia e, se lo sta facendo, non si sta impegnando a fondo. In ogni caso, mi sta annoiando e a me non piace annoiarmi: sono un ragazzo intelligente e vivace che ha bisogno di essere continuamente stimolato! E va da se che non lo sono a sufficienza se l’unico essere umano in grado di competere con me si fa i fatti propri.
Così il vostro affezionatissimo ha pensato: se dessi al caro Sherly un aiutino? Magari anche lui è a corto di idee, in questo momento, no?
Allora gli ho mandato un po’ del suo stimolante preferito, nella speranza di smontare il suo blocco mentale. Avevo anche previsto che potesse reagire così e, sinceramente, mi sta divertendo lo stesso.
Riuscite ad immaginare qualcosa di meglio della propria nemesi che si contorce sul pavimento in preda agli spasmi, in un lago di bava e sudore? Io no.

Si sentì chiaramente “Stayin’ alive” in sottofondo.
CAZZO! Il crimine non dorme proprio mai! Oh beh “Addio, addio, amici addio. Noi ci dobbiamo lasciare, ma ehi, io dico che è OK. Io non vedo l’ora di tornare! Voglio ritornareeeh!”

L’audio si interruppe bruscamente, e Mycroft rintascò il telefono con un sospiro rassegnato: “Nel caso in cui se lo stia chiedendo, abbiamo trovato una minuscola scheda di memoria incollata al dardo che ha colpito Sherlock. E questo è quanto ci è dato sapere.”
“Un po’ surreale ma, visto il soggetto, posso anche crederci.”
“Diciamo pure così.”
“Andiamo, non avrà mica pensato che Sherlock avesse ricominciato a farsi!”
“Dottor Watson, credo sappiamo entrambi quanto poco siano affidabili le persone affette da una dipendenza. Credo anche che sappia quanto sia difficile accettare che siano i propri fratelli ad attraversare un simile calvario. Ma sono certo che, come medico, comprenda anche meglio il loro comportamento e che sia consapevole della costante minaccia di una ricaduta. Certi bisogni non se ne vanno mai del tutto.”
“Primo: questo è un colpo basso anche per lei, Mycroft! Secondo: se fosse meno soffocante nei confronti di Sherlock forse sarebbe più facile anche per lui restare pulito! Terzo …”
“Basta così, dottore. Ho capito, ma non ho le energie fisiche ne mentali per continuare questa discussione, non in questo momento. E poi non fa che confermarmi di avere preso la decisione giusta nel scegliere lei come coinquilino per mio fratello e, per quanto mi faccia piacere sapere di avere ragione, la costante ripetizione è profondamente irritante.”

Watson rimase basito da quella combinazione tra insulti e complimenti, aprì la bocca e la richiuse un paio di volte ma poi decise saggiamente di non proferire ulteriore parola.
Non avrebbe avuto modo di averla vinta, comunque.
Non in questo universo.

La notte trascorse senza incidenti e alle 7:00 del mattino successivo decisero di rimuovere il tubo endotracheale.
Sherlock ora respirava da solo, seppure con l’aiuto di una cannula nasale, ed il battito era più stabile.
Al suo capezzale, appollaiato su una sedia imbottita, se ne stava un John Watson rinfrescato da una notte di sonno nello stanzino dei medici e da un’abbondante colazione, cortesemente fornita da Mycroft Holmes.
Quest’ultimo si era poi assentato fisicamente dopo la discussione del giorno prima e non era più ricomparso.
Meglio così.
In quel momento la stanzetta era illuminata da un esuberante sole primaverile che accarezzava dolcemente i lineamenti affilati del detective. Era ancora molto pallido ma la luce naturale lo faceva sembrare meno cadaverico che i neon, e nascondeva in parte il rossore della febbriciattola che ancora lo tormentava.
Adesso che avevano rimosso l’ammasso ingombrante del respiratore, la giungla di elettrodi e flebo era anche molto meno inquietante.

Gli avevano diminuito i sedativi e prevedevano che riprendesse conoscenza in mattinata.

Per una volta nella sua vita, Sherlock Holmes soddisfò in toto le aspettative e riaprì le palpebre esattamente ventiquattro ore dopo averle richiuse.
Si guardò intorno disorientato e il monitor alla sua sinistra schizzò improvvisamente verso l’alto mentre cercava di raccapezzarsi in tutto quel marasma di tubi e lenzuola color pastello.
Una mano calda scese lentamente sulla sua spalla, abbassandolo dolcemente sul cuscino mentre davanti alle sue labbra si materializzava un bicchiere di plastica bianca.
Senza riflettere, lasciò che gli versassero in gola quella che razionalmente riconobbe come acqua ma che percepì come un nettare paradisiaco.
Lo trangugiò avidamente, rischiando di farselo andare di traverso.
Il recipiente scomparse improvvisamente come era apparso e, finalmente riconobbe la voce che aveva registrato solo come rumore di sottofondo.

“John?”
Watson si chinò nuovamente su di lui, accarezzando la sua spalla nuda con la mano: “Eccomi. Mi hai fatto prendere un bello spavento, sai?”
“John, qualunque cosa tu abbia visto, non è stata colpa mia. Non mi crederai ma, io non volevo: te lo giuro! Non volevo!” aveva ancora la gola molto irritata e un improvviso attacco di tosse sconvolse il suo magro torace.
John lo aiutò pazientemente a voltarsi su un fianco, strofinandogli la schiena mentre passava.
Poi lo riadagiò sui guanciali e per qualche istante si limitò a fissarlo dritto negli occhi.

Quello che venne dopo, Holmes non se lo sarebbe aspettato.
Il medico gli mise di nuovo la mano sulla spalla e gli rispose: “Ti credo, Sherlock. Dio sa quanto sia assurda questa storia, ma io ti credo. E penso che anche Mycroft ne sia convinto anche se si prenderebbe a martellate sugli alluci piuttosto che ammetterlo. Ma anche se così non fosse, hai la mia piena fiducia su questo aspetto, tienilo bene a mente. Non ho potuto salvare Harry ma che sia dannato …” la voce gli si spezzò in gola e dovette fare un respiro profondo prima di continuare “Che sia dannato se non salverò te! Voglio che tu sappia che farò tutto il possibile perché questo rimanga un episodio isolato, costo di sedermi sopra di te giorno e notte. Hai capito?”
A quel punto, Sherlock era genuinamente commosso ma il condizionamento di Mycroft era più forte anche del cocktail di farmaci che scorreva nel suo sangue, indebolendo il suo giudizio.
Non riuscì a produrre altro che un sincero ma sottile: “Grazie, John. Grazie, per tutto.”
“Aspetta a ringraziarmi: la mia è una promessa, non una minaccia.”
“Oh, ci conto! Adesso però, lasciami dormire. Sono malato: ne ho diritto. Buonanotte! O giorno! O quello che è!”

Senza aggiungere altro, si rannicchiò sotto le coperte, dando le spalle a Watson perché non vedesse la smorfia di dolore che premeva per farsi strada sul suo volto.
Non aveva mentito, il giorno prima, nell’appartamento: aveva davvero paura di sprofondare di nuovo nell’abbruttimento della dipendenza.
Aveva paura di svegliarsi un giorno su un materasso putrescente in un buco dimenticato da Dio e dagli uomini, senza sapere come ci fosse arrivato e con le braccia crivellate di fori.
Aveva paura del dolore dell’astinenza, quello che ricordava meglio degli effetti piacevoli della droga, quello che avrebbe accompagnato i suoi prossimi giorni dopo quel contatto improvviso.
Aveva paura di cedere a quella sofferenza e di scegliere la via più facile, ritornando a farsi di nascosto-
Aveva paura di trascinarsi a casa un mattino, sudicio e puzzolente come un cane bagnato e di perdere la fiducia di John e della signora Hudson.
Aveva paura che anche loro e Mycroft e Lestrade gli avrebbero voltato le spalle alla fine.
Aveva paura di morire solo.

Ma poi.

Una mano calda iniziò ad accarezzargli i capelli, pettinandoli piano all’indietro, e una voce gentile gli si insinuò nell’orecchio: “Non devi più avere paura, Sherlock. Non sei solo in questa battaglia. Non mi importa di quanto possa essere difficile. La combatteremo insieme, passo a passo. E vinceremo, te lo prometto!”
Questo fu davvero più di quanto potesse sopportare.
Il detective seppellì il volto nel cuscino e scoppiò finalmente a piangere, liberando tutta l’angoscia che minacciava di soffocarlo.

Ma quella mano!

Quella mano continuò inesorabile ad accarezzargli i capelli mentre il materasso accanto a lui si piegava sotto il peso di un’altra persona.
Quella mano ci sarebbe sempre stata, quella mano sarebbe stata l’ancora sicura a cui aggrapparsi quando i mostri sotto al suo letto avrebbero di nuovo alzato la testa.
Perché agli occhi di John era sempre lo stesso, incredibile, Sherlock Holmes.
Sia che risolvesse in pochi minuti un dilemma complicatissimo, sia che tornasse a casa con i rimasugli di un esperimento malsano, sia che piangesse come un bambino in un letto d’ospedale.

Perché John gli voleva davvero bene, sempre e comunque.
- The End -


Note:
Come avrete sicuramente notato, questa è la mia prima fiction su Sherlock e mi piacerebbe sapere cosa abbia funzionato e cosa invece no,  quindi mi farebbe particolarmente piacere sentire un vostro parere riguardo a questa storia in particolare.

Informazioni non richieste ma inserite perché sì:
1) la canzone all'inizio è la versione inglese de "La corte dei Miracoli" dal cartone animato Disney "Il Gobbo di Notre Dame".
2) Jim cita la "Canzone dell'arrivederci" della serie "Bear nella grande casa blu", dato che in originale è andata in onda in America dal 1997 al 2006 ho immaginato fosse verosimile che la conoscesse.
3) Il dottor Brooks NON è il fidanzato di Mycroft. Infatti, è suo marito. Dato che Gatiss è gay ho pensato avesse senso.

Ogni anima pia che avrà la bontà di recensire avrà un coniglietto insieme alla risposta!

Alla prossima ^.^






 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Spoocky