Un urlo disumano gli
riempì le orecchie.
Alzò gli occhi al cielo:
un’altra vittima, l’ennesima.
Emise un lungo sospiro annoiato, poi tornò alla propria
lettura.
Sapeva perfettamente cosa si stesse
consumando in
quella stanza, e non voleva averci nulla a che fare: la sua allieva era
folle,
completamente folle, ma era anche dedita al proprio ruolo come non lo
erano i
dieci colleghi che, nella classifica del mortal level, la seguivano;
loro si
piazzavano al secondo posto e, sebbene non fosse il primo, tanto
bastava a trovarsi
sul podio, e da che il Gran Sacerdote suo padre gli aveva affidato la
sua nuova
pupilla questa era l’unica cosa della quale gli importasse
veramente.
A pensarci, si lasciò
scappare l’accenno di un
sorriso: sul podio, sì, ma a che prezzo?
Barbarie, razzie, sequestri,
stupri, torture, violenze
di ogni tipo, Hakai come se piovesse, tutti perpetrati
indipendentemente dall’età,
dal sesso e dal ceto sociale dello sventurato o della sventurata di
turno: per
Cisk, il prezzo del podio era quello.
E, francamente, poco gli importava.
Abusava di chiunque finisse sotto i
suoi artigli, compiva
genocidi indicibili, distruggeva sistemi solari interi per il solo
gusto di udire
e registrare sul suo iPod le urla delle genti che li abitavano
così da poterli
riascoltare durante i suoi “momenti privati”, Lady
Pálinka, ma tutto ciò non
interferiva in alcun modo con l’adempimento dei propri
compiti di Hakaishin, e
finché fosse stata capace di coniugare il dovere e il
“piacere” beh, che
continuasse pure a fare ciò che più la aggradava,
lui non l’avrebbe sicuramente
fermata. Nonostante ne avesse le capacità,
s’intende.
Restare totalmente indifferente di
fronte a certi
orrori ed essere riconosciuto come il maestro e l’attendente
di quel mostro lo
disgustava? Certo che sì, avrebbe dovuto essere squilibrato
tanto e più di lei
per affermare con fierezza di esserne felice, ma la sua opinione era
solo sua,
appunto: agli occhi di chiunque altro, lui continuava ad essere solo e
semplicemente
un angelo come tanti, come tutti, un angelo che svolgeva egregiamente
il
proprio dovere di angelo esattamente come facevano gli altri suoi
fratelli e
sorelle. Anzi, lo svolgeva persino meglio di loro, altrimenti il suo
universo
non sarebbe arrivato dov’era.
Intento a leggere, notò
con la coda dell’occhio la
porta della stanza della sua signora aprirsi appena. Sospirò
mentalmente,
seccato, chiudendo intanto il libro. “Rieccola”, si
disse.
A grandi falcate, col delicato
passo di una volpe
sulla neve appena caduta, la Dea della Distruzione fece finalmente la
sua
comparsa; in una mano, il cadavere nudo e martoriato di una donna sulla
trentina, a giudicare dal viso giovane che penzolava
nell’altra mano della divinità,
trattenuto per i capelli rossi.
Con tutta la naturalezza del mondo,
leccandosi
soddisfatta il sangue che colava sulla carnosa lingua biforcuta che si
protendeva dalle labbra, sbatté il proprio bottino sul
tavolo, lo stesso sul
quale l’angelo aveva appena poggiato la propria lettura. Lui
osservo la
raccapricciante scena qualche secondo, contrariato e irritato dal
vedere le
pagine candide tinte e rese appiccicaticce da quel liquido rosso male
deodorante, poi spostò i propri occhi lilla in quelli
acquamarina della
divinità.
«Ha sporcato il mio
libro» asserì atono.
Lei fece spallucce. «Ne
comprerai un altro».
«Ma non sarà questo»
insistette. La sua Lady non rispose, e lui la imitò: era
inutile discutere con
una pazza del suo calibro, a furia di insistere l’avrebbe
reso tale a sua volta
e sarebbe finita per batterlo con l’esperienza.
Si fece comparire il bastone fra le
dita e lo picchiò
per terra, pulendo le tracce di sangue dall’abito bianco.
«Immagino che ora dovrò
sistemare le vostre stanze».
«Immagini bene. Questa
bellezza» afferrandola per i
capelli, sollevò la testa decapitata «ha lottato
con le unghie e con i denti, una
vera e propria leonessa! E solo per merito mio, angelo di poca fede che
non sei
altro! Se avessi ceduto alle tue angeliche rotture di palle, allora mi
sarei persa
tutto quanto il divertimento!»
«“Persa tutto
il divertimento”, dice?» ripeté Cisk,
accigliato «Solo questa mattina, il suo
“divertimento” è consistito nello
scegliere un pianeta a caso grazie a una sciocca conta; armarsi fino ai
denti
“così da non rischiare di annoiarmi quando decido
come e con cosa ammazzare la
gente” e raggiungerlo; farsi strada fra i villaggi a colpi di
mannaia e
martello e solo Zeno sa cos’altro, spargendo sangue nelle
strade, nelle case e fra
le cosce delle sue vittime, il tutto con il suo iPod alla mano per
assicurarsi
di registrare ogni singolo urlo. Infine, ha dato fuoco al pianeta
intero, dal
momento che “l’Hakai non mi impregna le narici del
dolce odore della carne
carbonizzata”, per quanto lo abbia poi Hakaizzato comunque
perché aveva troppo
caldo» spiegò calmo, tranquillo, con un tono
apatico che non lasciava trapelare
alcuna emozione. «Dopo tutto ciò, mi sta veramente
dicendo che sentiva anche la
necessità di portare a casa una
coppia “come souvenir”, solo per avere ulteriori
rapporti carnali con loro e
poi decapitarli?»
Non riusciva ancora a spiegarsi
l’insolita passione
della sua Dea per la decapitazione, era una sua fissa da che era
solamente una
giovanissima allieva di pochi anni, ma ai tempi -ancora ignorante sulle
capacità distruttive di quella frugoletta- aveva supposto
che fosse il naturale
prodotto di una famiglia disfunzionale. Che magari aveva sterminato lei
stessa.
A quei tempi, gli era addirittura scappato da ridere, ma quel sorriso
era
presto scomparso: più la conosceva, più
l’ipotesi iniziava a non sembrargli così
improbabile. Dopo qualche indagine, le conferme erano arrivate presto:
la
piccola Pálinka era l’ultima della sua razza, e lo
era perché aveva decapitato
personalmente fino all’ultimo Kindjahtl'matari esistente.
“Ha la morte nelle vene, Cisk,
è la
perfetta candidata per diventare Dea della
Distruzione”, gli aveva detto suo padre il Gran Sacerdote,
affidandole
quell’adorabile bambina dai grandi occhi acquamarina che gli
arrivava appena al
ginocchio, anziché eliminarla come avrebbe fatto una
qualsiasi persona
responsabile alla quale veniva sottoposta una piaga di quel genere:
aveva fatto
estinguere un’intera specie a mani nude, per quanto ne sapeva
avrebbe potuto
costituire un pericolo anche per gli altri universi. Di fronte alle
osservazioni di suo figlio, però, il Daishinkan non aveva
fatto una sola piega,
e Cisk non aveva insistito oltre: era bacchettone, intransigente,
moralista,
serioso, zelante a livelli allarmanti, ma non ripeteva mai le cose una
seconda
volta; chi aveva orecchie per intendere avrebbe inteso, e tanto bastava
perché
lui avesse la coscienza a posto e potesse dormire sonni tranquilli.
Allora, il suo cammino al fianco di
quella macellaia
dalle grandi orecchie morbide era iniziato, e presto si era tinto di
rosso…
come del resto era sempre stato: lui le aveva insegnato le arti
marziali e le
tecniche proprie di una Hakaishin, ma Pálinka era ben lungi
dal dover ricorrere
all’Hakai per uccidere chicchessia. Era una creatura abietta,
empia, ignobile,
ripugnante, spregevole, una creatura il cui solo nome datole dai
genitori, Tiāmtu,
evocava nelle menti dei suoi simili il caos primordiale, ma era anche
l’allieva
più naturalmente dotata che avesse mai avuto il piacere -o
dispiacere, a detta
di alcuni suoi fratelli- di allenare: visti i risultati, il resto erano
solo
chiacchiere.
«Avevo anche la
necessità di scoparmi gli orifizi dei
loro figli, se è per questo» si lagnò
la Dea, gettando indietro la testa con
uno sbuffo annoiato «ma purtroppo sono tutti quanti morti
nell’incendio: ormai
dovresti saperlo, che io sono un tipo da “basta che
respiri”, non da “basta che
sia caldo”! Comunque sia» lasciò cadere
la testa sulla zampa, iniziando a palleggiare
«partitina?» propose, ovviamente incurante del
sangue che schizzava a destra e
sinistra.
A destra e sinistra, e pure sulla
guancia di Cisk.
Senza commentare, col volto
totalmente inespressivo, l’angelo
si pulì la pelle azzurrina con la manica. «Mi
duole rifiutare la sua allettante
proposta, Lady Pálinka, ma credo proprio che ora
andrò a sistemare camera sua,
non sia mai che le tracce di sangue e fluidi corporei vari macchino le
lenzuola.
Con permesso».
«Aspetta! Non ti do il
mio perme-»
Improvvisamente, però,
si rese conto di stare parlando
col nulla, piuttosto che col suo assistente, ormai già bello
che imboscatosi
nella stanza.
«Ah! Fanculo! Fai un
po’ il cazzo che vuoi!»
“Volentieri”,
pensò l’altro.
Levatosi la divisa recante i
simboli del suo universo
e rimasto col solo completo niveo addosso, Cisk recuperò
magicamente il
grembiule immacolato che era solito indossare per svolgere quelle ben
poco
angeliche mansioni; un tempo se lo sarebbe fatto apparire direttamente
addosso,
ma aveva scoperto che l’annodare con cura i lacci dello
stesso era una sorta di
“rito” preparatorio a ciò che sarebbe
venuto dopo, un momento tutto suo durante
il quale chiudeva gli occhi, sgombrava la testa da qualsiasi pensiero
che non
comprendesse mocio e secchiello e, infine, una volta mentalmente
pronto,
valutava il da farsi. “Da farsi” che spesso e
volentieri -come quella volta-
consisteva nel pulire tutto il sangue e le interiora sparse per le
stanze della
sua signora, cambiare l’intero corredo di biancheria
casalinga imbrattato dai
suddetti organi e assicurarsi che il sapore ferroso del sangue
smettesse di
inebriargli le narici, magari.
Avrebbe potuto tirare tutto a
lucido con uno schiocco
di dita -o meglio, un colpo di bastone, ma darsi alle faccende
domestiche non
gli dispiaceva.
In primis, per via dei risultati
che otteneva: ci
aveva pure provato, a svolgere le varie mansioni con l’uso
della magia, ma -confrontando
il lavoro finito- aveva notato inoltre come del sano olio di gomito
facesse più
miracoli del picchiare uno scettro per terra e attendere che fosse
quello a
fare il lavoro -letteralmente- sporco. In
secondo luogo, lo faceva per una semplice questione di principio: gli
angeli
potevano tornare indietro nel tempo, stendere i propri Hakaishin con
una botta
in testa e, addirittura, ridere in faccia alla morte riportando in vita
chicchessia, sprecare suddette capacità per
certe quisquiglie era
semplicemente un peccato mortale, un abuso bello e buono di poteri
talmente
grandi da restare in gran parte un mistero persino per gli angeli
stessi,
nonché indice di un’estrema pigrizia.
Da quel che sapeva, nessuno degli
altri suoi fratelli
e sorelle si era mai chinato per terra a lucidare il pavimento con la
cera
delle api To’khul per ore e ore, centimetro dopo centimetro,
piastrella dopo
piastrella, stanza dopo stanza, passando e ripassando lo straccio nello
stesso
identico punto finché non vi si fosse potuto specchiare
dentro, ricominciando
da capo magari una, due, tre, cinque, dieci volte, se mai un odioso
alone
iridescente avesse rovinato il suo operato.
Non si erano nemmeno mai messi a
spazzare un pavimento
e, se pure l’avessero fatto, sarebbe stato solo per denigrare
quella nobile
arte che era il maneggiare scopa e paletta a un mero lavoro noioso,
ripetitivo,
fastidioso. Per Cisk, invece, il punto era proprio quello: la
ripetitività. Spazzare
non era solo pulire le briciole da terra dopo che la sua Dea della
Distruzione
aveva mangiato, si trattava di un vero e proprio esercizio zen al pari
della
meditazione, un momento di completo rilassamento mentale durante il
quale immaginava
di spazzare via -oltre alle briciole- i propri pensieri negativi, lo
stress
della giornata, il marcio del quale si ricopriva a furia di stare
vicino a
Pálinka, una gestualità ripetuta
all’infinito che, infine, gli permetteva perfino
di raggiungere quel grado di concentrazione ed elevamento spirituale al
quale
solo un angelo poteva ambire.
Sempre rimanendo in tema di
briciole e cibo, quel
benedetto uomo riusciva a trarre una certa soddisfazione persino dal
semplice liberare
il lavello, specie se questo era talmente pieno da parere in procinto
di dare
vita a un’eruzione di piatti sporchi da finestre e porte e
comignolo.
Ai tempi antichi del suo primissimo
Hakaishin, se la
cena avveniva molto tardi o in piena notte, Cisk era solito rimandare
il
lavaggio delle stoviglie al mattino seguente; col passare delle
settimane e dei
mesi, però, si era accorto che ciò influiva
negativamente sul suo umore
mattutino, e di conseguenza sull’andamento
dell’intera giornata: il tempo che
si affacciasse in cucina, e quell’immensa pila di piatti e
piattini, e tazze e
tazzine, e ciotole e ciotoline, gli si presentava davanti agli occhi
lilla con
prepotenza immane, ricordandogli che aveva risparmiato tempo nella
serata
seguente, sì, ma che quello stesso tempo ora doveva
spenderlo comunque tutto
quanto. Anzi, doveva pure aggiungerci gli interessi, perché
in quella stessa
notte lo sporco aveva potuto tranquillamente attecchire alla porcellana
e lì
solidificarsi in ripugnanti croste nerastre o gelatine lattiginose, il
che si
traduceva in più fatica per scrostare tutto, più
schifo che saliva ad ogni colpo
di spugna e, soprattutto, scarichi che mandavano un odore nauseabondo.
Da allora, non aveva più
scordato una sola posata nel
lavello, e di conseguenza il suo umore era nettamente migliorato:
maggiore era
l’altezza della montagna di stoviglie, maggiore era il senso
di completezza che
traeva nel lavarla e vederla abbassarsi ancora e ancora e poi ancora,
finché questa
non tornava linda e pulita nella credenza, e lui non poteva finalmente
specchiarsi e aggiustarsi quel ciuffo ribelle che aveva sempre davanti
agli
occhi direttamente nel metallo splendente.
Quelle piccole soddisfazioni -da
lui stesso definite “gioie
mattutine”- non trovavano però la loro massima
apoteosi nel lavare le stoviglie
e usarle come specchio, bensì in
un’attività definita dai più come la
manifestazione dell’inferno in terra: stirare.
Una volta, forse credendosi
particolarmente divertente,
uno dei suoi fratelli gli aveva regalato un quadretto che recitava
qualcosa
-che avrebbe dovuto essere simpatico, da quanto gli avevano spiegato
poi- come
“Lavare: oggi. Stendere: domani. Stirare: riparliamone
l’anno prossimo”. Aveva
accettato quel funestamente comico ninnolo per educazione verso
suddetto
fratello, sì, ma lo aveva anche fatto volare fuori dalla
finestra dinanzi ai
suoi occhi nemmeno troppo increduli: che gli toccassero tutto, ma non
il ferro
da stiro. Loro, poi, che probabilmente non avevano nemmeno la
più pallida idea
di cosa fosse, un “ferro da stiro”, abituati
com’erano a lasciare che il loro
magico e prodigioso bastone facesse tutto quanto.
A Cisk, invece, stirare piaceva
come poche altre cose
nella sua angelica esistenza, soprattutto se si trattava di
gigantesche,
enormi, ingombranti lenzuola: come per i piatti, più erano
grandi, meglio era
per il suo benessere psicofisico.
Adorava tutto di quel macchinoso
processo che era
l’occuparsi della biancheria, che dovesse dedicarsi a un
semplice tovagliolo o
di una tovaglia da pic-nic grande quanto un modesto villaggio -aveva
davvero
dovuto avere a che fare con una cosa del genere, fra l’altro,
riordinare tutto con
la magia durante le riunioni di famiglia era sempre un problema se
erano tutti
sbronzi- non aveva importanza: se quel capo era nella pila dei panni
stropicciati, allora meritava la sua attenzione.
A dire la verità, per
lui la goduria iniziava già dal
momento in cui tirava fuori suddetti panni dall’asciugatrice,
quando le sue
mani toccavano la stoffa ancora calda intanto che il delicato profumo
dell’ammorbidente gli inebriava e narici; allora, nella sua
mente tornavano a
galla le volte in cui aveva ripetuto quel gesto con ogni singolo
Hakaishin che
aveva allenato e servito: ricordava a memoria il volto, la voce e le
abitudini di
ognuno di loro, nessuno escluso, a volte gli sembrava persino di
riuscire a
sentire di nuovo l’odore che caratterizzava uno per uno quei
suoi innumerevoli
allievi nelle vesti che tirava fuori dal cestello. Poi veniva investito
dal
sapore del sangue che macchiava spesso e volentieri gli abiti di Lady
Pálinka,
e allora si ricordava chi era la sua protetta adesso.
Passato il momento amarcord, per
Cisk iniziava il
“divertimento” vero e proprio: tirare fuori tutto,
dividere i panni per colore
e tessuto, impilarli in cataste disordinate piene di grinze che
toccavano il
soffitto, brandire il ferro da stiro come se fosse
un’estensione del suo polso,
sentire il vapore caldo e soffocante che gli imperlava la fronte di
sudore,
vedere i cumuli stropicciati abbassarsi e quelli stirati alzarsi
l’uno al ritmo
dell’altro; come compagnia, il solo fischio del ferro. Quando
infine terminava
di stirare, si sedeva e ammirava il proprio lavoro: immense torri
candide,
rigide, meravigliose, pulite, profumate, tutte pronte per essere
riposte ordinatamente
nei cassetti.
Non aveva idea di cosa fosse un
orgasmo e non voleva
scoprirlo, ma conveniva che la sensazione di profondo appagamento
fisico e
psicologico conseguente alla stiratura fosse ciò che di
più simile a un coito
ci fosse nel Multiverso.
Finalmente, riaprì gli
occhi.
Tirò indietro i capelli
con una bandana, infilò i
guanti facendo schioccare la gomma sulla pelle e indossò la
mascherina,
assicurandosi che coprisse la barba corta sul mento: che le pulizie
avessero
inizio.
Quando, dopo qualche ora, la figura
alta e longilinea
di Cisk fece la propria ricomparsa dal Regno delle Faccende Domestiche,
una
ventata al gusto di zenzero, arancia e chiodi di garofano si
riversò fuori
dalla porta, inebriando il resto della casa.
Appena uscito dalle vasche termali
lindo, pulito e
profumato come le sue preziose lenzuola appena stirate, si
avviò dalla sua Hakaishin:
a giudicare dal suono della TV accesa, doveva ancora essere in salotto.
Lì si
diresse a piccoli passi, lentamente, attento a non disturbarla.
«Ho terminato
le pulizie, Lady Pálinka, se vuole può
tranquillamente- oh, la prego».
Si era illuso che la Dea della
Distruzione stesse
semplicemente guardando la televisione o giocando con la stessa a uno
di quei
suoi stupidi giochi in realtà virtuale, ma la scena che gli
si presentò davanti
pareva gridare a gran voce che le sue previsioni erano state fin troppo
ottimiste.
Lei effettivamente era davvero
lì, non aveva sbagliato
a immaginarla sdraiata in posizioni improbabili su uno dei grandi e
morbidi
sofà tondeggianti che galleggiavano a mezzaria, ma il
babydoll blu elettrico
che aveva addosso suggeriva che le sue intenzioni fossero
tutt’altre, rispetto
al prendere un joystick in mano.
Non un joystick meccanico, almeno.
Appena lo vide, subito
l’Hakaishin comandò al proprio
divano di raggiungere a gran velocità l’angelo. A
vedersi un mobile di cinque metri
per quattro venirgli incontro con la stessa furia di un treno in corsa,
Cisk
non si mosse di un millimetro; semplicemente, picchiò il
proprio bastone a
terra: un istante, e il sofà si fermò a tre
centimetri netti dal suo naso. Naso
che, tra l’altro, iniziò a pizzicargli.
Alzò gli occhi, ma la
sua vista venne immediatamente oscurata
da un folto ciuffo di pelo posto all’estremità di
una coda blu notte, un
pennacchio argenteo che faceva capolino da una delle due sfere verde
acqua
impilate l’una sull’altra nella parte terminale
della coda stessa. Sebbene
potessero sembrare semplici ornamenti, suddette sfere semitrasparenti
erano
tutto tranne un accessorio alla moda, per la sua Dea: forse
l’aspetto era
quello di mere palline fluorescenti di ogni colore e dimensione, ma
quei globi
traslucidi erano invece una caratteristica propria della razza alla
quale
apparteneva Pálinka; nessuno era mai riuscito a spiegarsi
fino il fondo a cosa
servissero, come fosse possibile che ogni piccolo
Kindjathl’matari nascesse con
esse o che quest’ultime crescessero insieme a lui, ma -dopo
il genocidio- anche
fare ulteriori ricerche sarebbe stato impossibile per chiunque.
“Per chiunque”,
appunto, e gli angeli non erano
“chiunque”.
A pancia in su, malamente
stravaccata sul divano
fluttuante, la Dea della Distruzione allungò le esili
braccia coperte da
macchioline chiare e rettangolari dai bordi arrotondati verso il
proprio
attendente, posandogli le dita bianche dagli artigli avorio sulle
guance. «La
mia bella lavanderina ha finito di pulire tutto, uh?»
domandò, leccandosi sensualmente
la bocca con la lingua, un muscolo spesso, nero e biforcuto sul quale
baluginava una piccola pietra dello stesso colore di tutte le altre
sfere che
si trovavano sulla coda, sui palmi, sul dorso, sui baffi che scendevano
all’attaccatura delle corna corte e ramificate, addirittura
come fermaglio
della voluminosa treccia che le arrivava alle natiche.
«Ho terminato le pulizie,
sì» confermò. «Come stavo
dicendo prima che lei m’interrompesse, se ora vuole recarsi
nelle sue stanze
può farlo senza alcun-»
«Ho un’idea
migliore, mio carissimo angelo frigido
frigidissimo, un’idea che comprende me»
indicò se stessa «te» poi lui
«e le
lenzuola che hai appena lavato, asciugato e, ovviamente, accuratamente
stirato
nemmeno ne andasse della tua esistenza: so che appianare le grinze dai
letti e
dalla biancheria in generale ti provoca tanto piacere quanto un
orgasmo, ma se
ti decidessi a darmi una bella botta come ha fatto l’Uomo
potrai avere direttamente
entrambi! Lenzuola stropicciate da spianare, e soprattutto un orgasmo vero! Vero, Ciskuccio, uno di quelli con
il liquido seminale che schizza ovunque ritinteggiandomi le pareti
vaginali e
anali! Ma pure quelle della camera, considerato da
quanto non ti svuoti quelle angeliche palle!»
Alzò gli occhi al cielo.
«Per l’ennesima volta, Lady
Pálinka, non sono interessato alle sue proposte oscene.
Nonché di cattivo gusto,
aggiungo: potevate evitare la similitudine fra l’eiaculazione
e la
tinteggiatura delle stanze, sapendo che sono io ad
occuparmene» la rimproverò.
«Qual è il
problema? Temi di scambiare lo sperma per
tempera, la prossima volta che darai la vernice a casa?»
ridacchiò. Si portò
due dita alla bocca, iniziando a leccarle con gusto come se fossero
ricoperte
di un qualche topping dolce. «In questo caso, non devi
assolutamente
preoccuparti: ormai mi conosci, sai bene che sono un esserino
estremamente goloso,
motivo per cui penserei io a ripulire tutto quanto. Pennello
compreso» ammiccò.
«La smetta di-»
«Ssssssssh» gli
posò delicatamente l’indice sulle
labbra, zittendolo.
Prima che l’altro potesse
scostarle il dito e
controbattere, Pálinka diede sfoggio di una delle doti
più apprezzate dai
malcapitati che -ignari del fatto che da quella camera ne sarebbero
usciti a
piedi in avanti, se mai fossero rimasti attaccati al corpo maciullato-
capitavano
volontariamente nel suo letto: il contorsionismo. Fece leva sulla
robusta coda
per spingersi verso il proprio angelo, gli agganciò le cosce
al collo tenendo
le zampe tese e, con un’acrobazia che avrebbe rotto la
schiena a qualsiasi
altra creatura, atterrò perfettamente a terra, il tutto
senza emettere il
minimo rumore.
Stesa sul pavimento,
strisciò in mezzo alle gambe del
suo ormai esasperato attendente. «Ollellè!
Ollallà! Faccelo vedè! Faccelo
toccà!... eh, a proposito! Sarebbe pure ora che me lo
facessi toccare, con
tutto il tempo che mi fai sprecare a pregarti!»
«È lei che si
ostina a perdere tempo, Lady Pálinka, non
io: per quanto mi riguarda, il mio completo disinteresse verso le sue
proposte
oscene l’ho espresso molto chiaramente sin dalla sua
primissima molestia che-»
«E me la sono legata al
dito, sappilo: sono la tua
Dea, se ti chiedo di sverginarmi tu devi
farlo! Rientra nei bisogni vitali ai quali devi fare fronte in quanto
mio
schiavo!»
«Maestro e assistente,
prego» la corresse. «Tornando
al nostro discorso, e tralasciando che ai tempi lei era
“solamente” la mia
allieva e che quindi non le era dovuto più rispetto di
quanto lei stessa ne
dovesse -ma non ne desse- a me, devo forse ricordarle cosa ha
comportato la sua
deflorazione? Settimane di ricerca per il “candidato
perfetto” in tutto
l’Universo 1, tredici pianeti Hakaizzati perché
nessuno degli abitanti era “degno
di cogliere il suo fiore, o anche solo di annusarlo, ma pure solamente
di
guardarlo col telescopio”, per non parlare degli innumerevoli
richiami da parte
di Zeno-Sama che minacciava di farle fare la fine dei sei universi
già
distrutti se non si fosse data una regolata, dal momento che il suo
povero
Kaioshin faticava non poco a stare al passo con i suoi Hakai.
Fortunatamente
per lei, e anche per il sottoscritto, l’arrivo di Lord Lobo
è stato
provvidenziale».
Il volto dell’Hakaishin
parve illuminarsi. «Lobo! Lobuccio!
Oh, cosa mi fai tornare in mente!»
«Le faccio tornare in
mente un ex Dio della
Distruzione rozzo e volgare che vagabonda da un universo
all’altro a bordo
della sua motocicletta, trascinando con sé
oscenità, caos e talmente tante
imprecazioni che persino io, un angelo, ho dovuto aggiornare la mia
conoscenza
in materia, ecco cosa. Un vero e proprio mostro, non saprei con quale
altro
aggettivo definire quell’uomo, un mostro al quale lei ha
concesso il suo corpo
e la sua innocenza senza indugiare nemmeno un istante e anzi, dovetti
addirittura insistere perché vi spostaste nella camera da
letto, anziché
consumare i vostri invericondi rapporti nello spazio aperto come
stavate già
procedendo a fare» si fece pensieroso qualche istante
«Anche se, con senno di
poi, perlomeno lì nessuno avrebbe sentito i vostri coiti. E
credetemi che non è
stato nulla di piacevole».
La Kindjathl’matari si
lasciò scappare un sorrisetto
malizioso. «Ti eri messo dietro la porta ad ascoltare,
Ciskuccio? Potevi dirlo,
anziché rimanere lì a menarti la fava, ti avremmo
invitato!»
«In verità
lasciai direttamente il pianeta e passai la
giornata e la notte al palazzo del Kaioshin, ma sfortunatamente al mio
ritorno
dovette constatare come non aveste ancora finito di fare i vostri porci
comodi,
e anzi nel mentre vi foste spostati e aveste imbrattato un
po’ per tutta la
casa coi vostri fluidi corporei» sospirò.
«Avete copulato con modalità e foga
animalesche per tre giorni e tre notti intere, Lady Pálinka,
questo è ben oltre
la mancanza di pudore e autocontrollo».
«Dillo a tuo
fratello».
Cisk si irrigidì:
già, suo fratello. Suo fratello
Colada, per la precisione, operativo nell’Universo 3.
Era sempre stato un angelo posato,
responsabile,
virtuoso, serio, a tratti un po’ puritano, ma con quella
variopinta giraffa
giuliva di Lady Piña come Dea della Distruzione beh, tanta
compostezza e
pazienza erano assolutamente necessarie, per non dire vitali:
sopportare quel
suo atteggiamento da classica pupa stupidina con il cervello negli
enormi seni
anziché nella testa era già difficile quando
ancora non aveva un partner, ma
quando il “fenomeno Lobo” -alias “Lo
Sterminatore di Vergini”, epiteto a lui
riservato da che aveva riservato lo stesso indecente trattamento anche
all’Hakaishin
pavonessa dell’Universo 2, tale Lady Corona, mancava giusto
all’appello quella
micetta paurosa di Lady Cacique dall’Universo 6 e poi avrebbe
fatto l’en plain!-
aveva colpito anche lei, la cosa era andata totalmente fuori controllo.
E non
solo perché quei due avevano continuato a copulare per ben
più di un paio di
settimane.
Da allora, le occupazioni
principali di quella
buon’anima di un angelo erano state quelle di procurarle
partner su partner su
partner per soddisfare il suo risvegliato appetito sessuale,
assicurarsi che lei
non rimanesse incinta durante quelle sue orge degeneri e, infine,
pulire ciò
che rimaneva di queste ultime una volta terminate.
Allora, Colada urlava, urlava e
urlava, urlava tutto
il giorno contro quella disgraziata senza vergogna né
pudore, ma le sue urla
non riuscivano mai a coprire gli orgasmi della sua signora; grida oggi,
grida
domani, alla fine gli era venuto un brutto mal di gola. Avendo
manifestato i
primi bruciori mentre era in giro a zonzo per gli Universi, si era
fermato sul
primo pianeta che gli era capitato dinanzi, finendo in una
città chiamata
Pettinathia. Era sceso a terra, era entrato in una farmacia, aveva
comprato una
confezione di quelle pastigliette colorate che sembrano caramelle ed
era
tornato a casa tranquillo, sereno e con la gola che stava una favola.
Purtroppo per lui, Colada non
sapeva molte cose, su
quelle “caramelle”.
Non sapeva che Pettinathia era la
capitale
multiversale dello spaccio delle peggiori sostanze stupefacenti che la
mente
potesse immaginare, tanto efficaci sui comuni umani quanto sulle razze
superiori come gli immortali, gli angeli, forse persino Zeno-Sama in
persona.
Non sapeva che laggiù le
farmacie altro non erano che supermercati
di quartiere dove vendere allucinogeni e narcotici e oppiacei e chi
più ne ha
più ne metta.
Non sapeva che gli avevano venduto
della droga, anziché
delle Zigulì.
Quella stessa sera, quando aveva
accompagnato la sua protetta
a una delle leggendarie feste di Lady Zivania, la divinità
squalo dell’Universo
11, l’inevitabile era diventato realtà: era finito
a letto con la propria Hakaishin.
E con una manciata di amici e amiche della stessa.
Ma del resto non era stata colpa
sua, drogato e
sbronzo com’era non si era reso minimamente conto di
ciò che stava facendo,
nemmeno lo ricordava, e l’estremo sbigottimento da lui
mostrato la mattinata
seguente nell’apprendere di aver consumato un rapporto
carnale con Lady Piña -e
viceversa, fra l’altro!- ne era stato la conferma: non aveva
infranto le regole
di propria volontà, e di questo nessuno gliene avrebbe mai
fatto una colpa… se
non fosse stato che Colada ci aveva pure preso gusto, a fornicare con
la
propria Dea della Distruzione, complice il fatto che lei avesse
definito
l’esperienza “quasi epica quanto la mia prima volta
con l’Uomo”.
Da morigerato e austero che era,
Colada era diventato
ospite fisso alle orge organizzate dalla sua signora, e ormai non
raramente da
lui stesso.
Una volta che la lobite colpiva,
non c’era cura che invertisse
il processo.
Cisk fece spallucce. «Mio
fratello è liberissimo di
vivere come crede la propria vita sessuale senza rendere conto a
nessuno, Lady
Pálinka, non sarò certo io a impedirgli di avere
rapporti carnali con la sua
protetta, né a fargli la paternale in proposito:
gliel’ho fatta una volta, e
tanto basta. Dal momento che chiunque altro a lui superiore che potesse
fargliela non ha diritto di parola sull’argomento»
faceva riferimento al
Daishinkan e ai due Zeno, che ormai passavano più tempo a
giacere con la loro
sgualdrina personale rispetto a quanto ne dedicassero alla gestione dei
dodici
Universi «allora credo di poter affermare con certezza che il
caso di Colada
sia da considerarsi più unico che raro, oltre che chiuso, ed
è proprio questa
unicità a rendere impossibile paragonarlo con qualsiasi
altra situazione o
persona».
“Più unico che
raro”, sì, perché da quel che sapeva
oltre
a Colada c’era solo altri due angeli che si erano dati alle
“azioni impure”: sua
sorella Tongba, assegnata all’Universo 5, e una tale Ginger,
che da ciò che
aveva capito era stata l’attendente di Lord Lobo, ma che lui
non conosceva
personalmente.
La situazione di Tongba, tuttavia,
era totalmente
diversa: aveva un solo e unico partner fisso, un certo russo di nome
Vlad, e
con lui aveva ormai intrecciato una relazione seria fatta di amore,
passione e
soprattutto rispetto reciproco, anziché una tresca da una
notte e via come suo
fratello; quest’ultimo dettaglio rendeva ancora
più sensato il discorso fatto
da Cisk: qualsiasi angelo avrebbe potuto trovarsi un compagno o
compagna, con
quello che combinava suo padre figurati se avesse potuto lamentarsi, ma
erano
le modalità in cui ciò accadeva e si sviluppava a
fare la differenza.
Differenza che, ahimè,
Pálinka non riusciva -o meglio,
non voleva- afferrare, a giudicare da come gli si stesse avvinghiando
intorno
alle gambe. «Se tu mi dessi ascolto e ti decidessi a darmelo,
allora Coladuccio
non sarebbe più l’unico angioletto monello che si
sbatte la propria Dea: dì,
non lo immagini mai cosa potremmo fare noi due insieme,
uh?»
«In verità
no».
«Io sì,
invece, e l’ho immaginato talmente tante volte
che ormai mi sembra di aver scopato con te per davvero» rise
«Anche se purtroppo
sono consapevole che non è così, dal momento che
ti comporti ancora come un
verginello frigido e cinico».
«Dubito fortemente che la
perdita della verginità
abbia un qualche effetto scientificamente provato sulla psiche, mia
signora».
«Uh uh! Come no! Basta
guardare Piña e Corona per
capire che è tutto il contrario! La prima è
passata dall’essere una bambola
sexy che te la sventola davanti ma non te la dà mai a un
animale da monta che
pare respirare sesso, e la seconda ha perso
quell’insopportabile atteggiamento
da palo infilato nel culo quando l’Uomo ci ha infilato il
proprio, di palo. Scopare ti fa
distendere i
nervi, gioia de mamma, e in quanto angelo ne avresti un estremo
bisogno: immagina,
Cisk, immagina con me cosa potremmo fare noi
due». Come un gatto che si arrampica su di una
tenda, strisciandovisi
addosso, iniziò a risalire languidamente il corpo
dell’angelo: le gambe «Potrai
possedermi quando, come e dove vuoi, in qualsiasi modo tu voglia: puoi
essere dolce
e amarmi, puoi essere rude e prendermi a schiaffi, puoi essere quello
che preferisci
con me» l’addome «Mi farò fare
di tutto, di
tutto: vuoi riempirmi di baci e nulla di più? Va
bene. Vuoi legarmi al
letto e martellarmi finché non riuscirò nemmeno a
reggermi in piedi? Va bene. Vuoi
umiliarmi portandomi a spasso per gli Universi con collare e guinzaglio
per sfogare
le tue frustrazioni? Va bene. Va bene qualsiasi
cosa» il petto «Devi solo cedere, niente
di più e niente di meno: ti togli
questa bella divisa immacolata, ti stendi sul letto e, chiudendo gli
occhi,
lasci fare tutto quanto alla sottoscritta. Quando li riaprirai, sarai
un uomo
nuovo, un uomo migliore, un uomo vero».
Faccia a faccia, fronte a fronte,
con quelle sfere
acquamarina che brillavano nell’oscurità della
sclera nera, si fermò. Per
stringerlo a sé, lo avvolse con uno dei lunghi baffi
arancio, solleticandogli
il collo col ciuffo di pelo all’estremità; con
l’altro, invece, si levò il
babydoll blu elettrico, scoprendo i piccoli seni coperti di chiazze
chiare e
l’intimità… beh, già
pronta all’uso,
ecco. «Saprei ricompensarti, lo sai? Sono
l’incarnazione del Male, ma ti
sorprenderesti di scoprire quanto il Male sia generoso».
«Oh, in verità
lo so bene» sospirò «Ricordo alla
perfezione di come ha ringraziato Lord Lobo, privando un intero sistema
solare
di tutti i delfini solo perché quel burbero animale col
sigaro in bocca ama
quelle creature».
«Per come mi ha scopata,
meritava tutti gli
strafottuti delfini di questo universo! Tutti! Porco Zeno e tutte le
vostre
angeliche aureole, se ci ripenso mi sembra di sentirmi ancora dentro
quel pezzo
di carne turgido e-»
«Lasci
l’amarcord a quando è sola nella sua stanza,
per favore» la interruppe: era già a conoscenza di
fin troppi dettagli riguardo
la prima volta della sua Dea, ulteriori delucidazioni gli avrebbero
fatto
rimettere il croissant alla pasta di mandorle che si era concesso poco
prima «E
lasci anche me, per favore, la sua pelliccia mi sta
accaldando» borbottò.
Un sorriso sornione apparve sul
volto della divinità.
«Hai caldo perché ti sto appiccicata come una
cozza allo scoglio, o perché i
tuoi bollenti spiriti si stanno finalmente risvegliando?»
«Sappiamo entrambi la
risposta» asserì stizzito «e, che
lei la voglia accettare o meno, questa risposta è la stessa
che le ho dato ieri,
che le do oggi e che le darò domani:
“no” era, “no” è e
“no” sarà sempre, Lady
Pálinka, punto. Insistere è inutile, deleterio,
inconcludente, pernicioso, crudele»
con un dito, delicatamente,
scansò la mano dell’altra, così
pericolosamente vicino alla sua cintura «per
cui la finisca lei, prima che sia costretto a farla finire io: non sono
una
persona violenta, ma non sono nemmeno uno dei suoi giocattoli da
turlupinare a
piacimento».
Ci fu un lunghissimo istante di
silenzio. Poi, la
presa sul corpo dell’angelo aumentò ancora, e
ancora, e ancora, fino a quando
la pelle azzurrina non iniziò a venire percorsa da finissimi
segni ora
rossastri, ora violacei. «… Tu
non puoi
rifiutarmi…» ringhiò la
Kindjathl’matari a denti digrignati dopo qualche
momento durante il quale non accade nulla, la voce ridotta a un
gorgoglio grave
e profondo che pareva emanare presagi di morte «…Non puoi farlo. Non puoi».
Sorrise. «Oh,
sì che posso, invece, ed è precisamente
ciò che sto facendo. E che continuerò a fare, se
ci tiene a saperlo». Notò bene
lo sguardo assassino col quale lo stava mentalmente -e, se avesse
potuto, anche
letteralmente- sgozzando. «L’ha sempre saputo, non
mi guardi come se le stessi
dicendo una novità» sbuffò annoiato:
sempre la stessa storia, con lei, mai che
una volta gli risparmiasse tutta la sceneggiata!
Sceneggiata che, questa volta,
stava degenerando.
Avendola davanti, infatti, Cisk non
poté non notare l’ombra
scura che pareva essere calata sugli occhi di quell’immonda
creatura;
allarmato, gettò un’occhiata di sospetto alle
sfere infilate sulla coda della
propria Dea: da verde acqua che erano, stavano lentamente assumendo una
sfumatura dorata, a tratti rossastra. Quando le prime macchie nerastre
fecero
capolino in quel globo traslucido, evocò il proprio bastone:
subito, senza
perdere tempo, lo picchiò a terra.
Il tempo che un odore dolciastro
dal vago sentore
affumicato riempisse la stanza e, come se nulla fosse,
Pálinka mollò la presa,
gettandosi invece sul divano col naso che fremeva e la lingua a
penzoloni per
via dell’acquolina che si stava impadronendo della sua mente.
La causa di tanta frenesia,
nonché di quella curiosa
mescolanza di sapori, era una grande fontana di cioccolato bianco a
cinque
piani, tre dove vi scorrevano il prezioso preparato a base di cacao,
due -il
primo e quello alla sommità- dove invece erano ordinatamente
riposti i cibi
preferiti dell’Hakaishin, già belli che pronti per
essere intinti in quella
brodaglia che faceva venire il diabete solo a guardarla: carne
essiccata,
merluzzo e gamberi in tempura come base, codette colorate e palline
argentate come
topping finale.
Sì, i gusti gastronomici
di quella creatura erano
strani quanto lo era lei, ma un omicidio culinario sarebbe stato solo
l’ennesimo di tanti omicidi che aveva sulle spalle.
Intenta com’era a
procurarsi un’intossicazione
alimentare ingozzandosi di quella ripugnante mescolanza di cibi, Cisk
ne
approfittò per controllare il colore delle perle:
fortunatamente, erano tornare
ad essere verde acqua. Forse nessuno sapeva precisamente a cosa
servissero, di
cosa fossero composte o come fosse possibile che si sviluppassero
già durate la
gravidanza, ma nel suo lungo cammino al fianco della
Kindjathl’matari lui una
cosa l’aveva capita: il colore delle sfere variava a seconda
del loro umore; nel
caso specifico di Pálinka, il loro colore di base era
appunto una via di mezzo
fra l’acquamarina e il turchese, e le variazioni che subiva
potevano essere di
tre tipi: dorato quando era irritata, rosso se era arrabbiata e,
infine, il più
nefasto fra tutti, nero cupo, nel caso in cui avesse raggiunto un
livello di
furia cieca e incontrollabile tale da entrare in quella che
l’angelo definiva “modalità
Berserkr”. La sua non era una razza sanguinaria, al contrario
erano molto molto
pacifici, motivo per cui tendeva a considerare quello raggiunto dalla
Dea un
caso straordinario e non la norma.
Per fortuna, perché da
quel che aveva avuto
l’occasione di vedere -pochissime volte, solitamente la
stordiva prima che la
situazione arrivasse a un punto di non ritorno- una bestia del genere
avrebbe
potuto seriamente costituire un
problema persino per il Re del Tutto: in quanto angelo, era suo preciso
dovere
impedire che ciò avvenisse mai.
Ed era anche suo dovere evitare che
si strangolasse
con una lisca di pesce, come stava facendo in quel momento.
Vedendola in difficoltà,
le diede una vigorosa pacca
sulla schiena: qualche tentativo, e sputò la spina galeotta.
Affamata d’aria e
con la gola dolorante, l’Hakaishin si riempì la
bocca di un’intera caraffa di
zuccherino sciroppo d’acero, metaforicamente ridendo in
faccia al colesterolo.
«Porco Zeno e porci tutti gli angeli, mi stavo ammazzando!
Tentativo
d’omicidio! Lesa maestà!»
iniziò a gridare, sbracciandosi come una forsennata
«Cisk! CISK! Dimmi da che diavolo di pianeta viene questo
fottutissimo
merluzzo!» lo afferrò «DIMMELO!»
L’altro non
poté fare altro che sospirare. «Pianeta Gadus,
mia signora».
«IO
LO HAKAIZZO!»
immediatamente, la soffice pelliccia delle mani le si
ricoprì di un’aura
violastra, pura Energia della Distruzione; batté il pugno
sul tavolo,
dissolvendolo come polvere al vento. «Meritano di morire
tutti, tutti, dal
primo all’ultimo! Quei bastardi pagheranno a caro prezzo
questo attentato alla
vita della loro magnanima Dea! Oh, se pagheranno!»
«Se mi permette, non
credo che qualcuno possa avere
colpa se in un pesce è rimasta una-»
«Ti ho dato il permesso
di parlare, da che me l’hai
chiesto? No, e allora taci! Piuttosto, fai il bravo servo e vai a
prendermi i
vestiti, e avvisa anche il Kaioshin di creare un altro pianeta che
compensi
quello che distruggerò fra poco» si fece
pensierosa «Anzi, tre pianeti, meglio
abbondare, non sia mai che sulla strada di ritorno mi venga voglia
di-»
«Cisk?»
Sentendosi chiamato,
l’angelo si voltò. Dinanzi a lui,
una figura alta, dai fianchi e dai seni prorompenti sproporzionati
rispetto al
corpo esile; dinanzi agli occhi, una cascata bianca che copriva
l’occhio
sinistro, già nascosto di suo dagli immancabili occhiali da
lettura dai colori
improbabili poggiati sul naso solcato dalle lentiggini.
Per la prima volta in quella
giornata, esibì un sorriso
vero, non forzato dalla presenza di
chicchessia e nemmeno di perculìo. «Viru.
È una sorpresa averti qui».
Viru non era solo sua sorella, era
la sua gemella: forse
fisicamente non si somigliavano, ma dal punto di vista caratteriale
erano delle
vere e proprie gocce d’acqua, col loro inguaribile cinismo
misto a della sana
misantropia che portava entrambi a sbattersene altamente del mondo
esterno alla
loro augusta persona e tutti quei comportamenti di costante
insofferenza verso
il creato che agli occhi altrui li rendevano
“strani”. Stranezza che lei
accentuava ancora di più di quanto non fosse evidente, poi,
con la sua curiosa passione
per l’abbigliamento di latex e i completi da bondage pieni di
borchie e catene,
il tutto nonostante fosse ancor più frigida di suo fratello;
anche adesso, la
sua mise non veniva meno ai suoi insoliti gusti: un tubino di latex
nero a
maniche lunghe che le arrivava fino alle caviglie, completamente chiuso
davanti
e con giganteschi strappi dietro che
nulla lasciavano alla fantasia, da come esponevano al vento il
fondoschiena
alla Kim Kardashian dell’angelo, una precisa richiesta della
sua ex divinità
che voleva qualcosa da schiaffeggiare.
“Ex”,
sì, perché Viru -assegnata all’Universo
7- da
qualche tempo era l’assistente di una nuova Hakaishin, tale
Lady Rakija,
essendo la sua precedente divinità stata sconfitta da
quest’ultima con facilità
disarmante.
A essere sinceri,
l’intera vicenda che gravitava
intorno alla morte di Lady Chacaca -gemella di Lady Cacique- era
piuttosto
confusa e nebulosa: l’arrivo dello sciacallo nero era stato
un vero e proprio
fulmine a ciel sereno, mai prima d’allora era stata vista
aggirarsi in
quell’Universo, la sua stessa comparsa dall’oggi al
domani pareva finalizzata solo
e soltanto alla conquista del posto di Hakaishin appartenente alla
felina viola
e nulla di più; curiosamente, Rakija conosceva
già a memoria tutte le tecniche
di combattimento della sua avversaria, e soprattutto sapeva come
contrastarle
una per una. Hakai compreso.
Allora, la voce che qualcuno
l’avesse addestrata e
preparata appositamente per quello
scontro aveva iniziato a circolare prima fra i Kaioshin, poi fra gli
Hakaishin,
infine fra gli angeli, e presto era arrivata anche alle orecchie del
Gran
sacerdote e di Zeno-Sama in persona, ma tutto si era risolto in un
nulla di
fatto: non c’erano prove, non c’erano testimoni e
non c’erano indizi che
potessero provare oltre ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di
chicchessia,
non c’era niente di niente; il caso era stato chiuso, lei era
diventata Dea
della Distruzione e tutti avevano accettato la conclusione alla quale
era
arrivato il Daishinkan: Rakija era stata molto fortunata, e Chacaca
molto
stupida.
Tutti, tranne Cisk.
Quella versione non
l’aveva mai convinto, a buona
ragione: Rakija sarebbe stata fortunata se avesse affrontato Chacaca
riuscendo
a sconfiggerla nonostante il vastissimo arsenale di tecniche che una
creatura
antica come lei possedeva, non trionfando col vantaggio di essere
già a
conoscenza di tutto ciò che l’avrebbe aspettata,
mossa dopo mossa, attacco dopo
attacco, Aveva sempre sospettato che fossero di Viru le mani azzurrine
che
avevano mosso i burattini impegnati in quella rappresentazione teatrale
con
delitto, ma lui non aveva mai chiesto conferma, e lei non gli aveva mai
detto
nulla. Per quanto lo riguardava, qualunque fosse la verità,
il caso poteva
dirsi chiuso e sepolto insieme alla defunta Dea gatto: con una nuova
divinità
vicino, sua sorella era rapidamente passata dall’ultimissimo
posto nella
classifica degli Universi al quinto, e questo era tutto ciò
che contava. Per
troppo tempo Viru, l’angelo più forte fra tutti i
figli del Daishinkan, era
stata associata a quell’inetta che pensava solo a sbronzarsi
e rubare le
caramelle ai bambini con quella sua banda di deficienti che lei
definiva
“amici” per vederli piangere, se avesse deciso di
liberarsi di lei per quello
specifico motivo l’avrebbe solo capita.
«Sorpresa?» si
stupì lei «In realtà ti ho chiamato
prima, fratello, ma non c’eri e mi ha risposto la tua
signora. Le avevo detto
che sarei arrivata».
A quelle parole, Pálinka
venne investita dallo sguardo
truce del proprio angelo. «Hanno chiamato e non me lo avete
detto?» chiese con
tono contrariato, infastidito, seccato: fortunatamente la chiamata era
stata di
sua sorella, ma se fosse stato Zeno-Sama a chiamare che diavolo di
figura barbina
ci avrebbe fatto lui? Non solo sarebbe sembrato un maleducato, ma anche
un
attendente che non era in grado di farsi rispettare dalla sua stessa
divinità!
Lei fece spallucce. «Me
lo sono scordata».
Cisk fece per rispondere a tono, ma
la sua gemella lo
anticipò. «Lascia perdere, non crucciarti oltre
per certe piccolezze: sono qui
e sei qui anche tu, per cui il problema di come sia venuto a sapere
della mia
presenza non si pone» lo rassicurò.
«Suppongo tu abbia
ragione» si trovò a concordare: sì,
meglio non insistere, anche perché sarebbe stato inutile e
ne sarebbe venuto
fuori scemo. La invitò a sedersi. «A cosa devo
questa tua visita, sorella?»
Si sedette. «Semplice
gita fuori porta nel tempo libero.
La mia signora è sempre molto rigorosa e severa, quando si
tratta di
rapportarsi con i propri colleghi, come sai non va mai oltre il
“buongiorno” di
cortesia, ma ha instaurato un ottimo rapporto di amicizia insieme a
Lady
Cacique ed oggi è uscita con lei, nonostante abbia ucciso la
sa gemella».
«Forse perché
quella poveretta non aspettava altro»
osservò Cisk, interrogativo «Considerando come
Lady Chacaca la trattava,
vessandola continuamente per il suo essere sovrappeso e permettendo ai
suoi
amici di affibbiarle soprannomi infelici, un inconscio desiderio di
darle una
lezione che fosse tale suppongo che sarebbe stato più che
normale».
«Precisamente la stessa
cosa che ho pensato anche io.
Sia come sia, attualmente quelle due si frequentano, e sembrano andare
piuttosto d’accordo: spettegolano, fanno colazione insieme,
escono a fare
shopping, organizzano pigiama party, addirittura passano pomeriggi
interi
chiuse in camera perché Cacique è curiosa di
vedere la collezione di piercing
per capezzoli della mia allieva» rise. «Ammetto che
inizialmente ero piuttosto
perplessa da questo loro rapporto, specie perché hanno
caratteri diametralmente
opposti l’uno all’altro, ma sai cosa? Credo che
svagarsi insieme faccia bene ad
entrambe, tanto a Rakija per sciogliersi un po’ quanto a
Cacique per riuscire a
vincere quella sua estrema timidezza: quella pover’anima non
ha mai avuto una
vera amica, finché c’era sua sorella, credo che
una gioia che sia una se la
meriti» li si avvicinò all’orecchio
«Anche perché, detto in confidenza fra noi,
è stata proprio lei a presentare alla mia signora Lord
Pampero, e ho la vaga
impressione che la rigorosa Dea sciacallo si sia presa una bella cotta
per lui,
nonostante non lo ammetta» sogghignò.
«Ah
sì?»
Annuì. «E ti
dirò di più: ho chiesto a nostro fratello
Lasko la sua opinione in proposito, e mi ha confermato che
l’interesse della
mia Hakaishin per il suo è reciproco».
L’altro parve sorpreso.
«Se dovessero scoprire di
avere una particolare alchimia sentimentale e ritrovarsi
l’uno nell’altra, c’è
caso che ti troverai a gestire una canide antropomorfa in calore,
sorella».
«Ho saputo gestire le
mani lunghe della defunta e per
nulla compianta Lady Chacaca, Cisk, fare lo stesso con uno sciacallo
con gli
ormoni a mille e uno stallone da monta le cui dotazioni
sono note in tutti e dodici gli Universi non mi dispiace,
né sarebbe un problema di qualche tipo. E poi Lady Rakija
è una creatura discreta,
sobria e morigerata, sono tranquilla».
«Beata te»
sospirò «non tutti hanno la fortuna di
avere un Dio della Distruzione col quale sia possibile ragionare senza
che questo
tenti di stuprarti mentre riposi. O fai la doccia. O ti cambi. O
cucini. O fai
qualsiasi cosa».
Le orecchie di Pálinka,
impegnata a ingozzarsi,
fremettero. «Cofa vorrefti infinuare?»
bofonchiò a bocca piena, sputando pezzi
di carne mista a cioccolato sui cuscini.
«Non insinuo proprio
nulla, descrivo semplicemente una
mia giornata tipo al suo fianco» fece spallucce «E
non tenti di difendersi
dicendo che non è vero, perché si infila sotto la
mia tunica persino durante le
riunioni ufficiali dinanzi a Zeno-Sama, di testimoni ce ne sono in
abbondanza!»
la anticipò.
«Oh, beh, avresti potuto
risolvere questo spiacevole
problema tempo fa, fratello, le possibilità le
avevi» gli fece notare sua
sorella, calma e serenissima.
A quelle parole, la
Kindjathl’matari si alzò. Si
diresse verso l’angelo a grandi falcate con fare non
intimidatorio, non minaccioso,
non omicida, molto peggio, e le
sfere
che stavano rapidamente diventando rosse senza passare per la via di
mezzo
dorata ne erano la palese e funesta testimonianza.
Cisk, però, non
intervenne.
Si fermò dinanzi a lei
con le braccia conserte, la
coda che frustava furiosamente il pavimento scavando profondi solchi in
esso. «Gli
stai forse suggerendo che avrebbe fatto bene a liberarsi di me, Miss
Culetto
Sodo?»
Per nulla impressionata, Viru si
strinse nelle spalle.
«Io non suggerisco niente a nessuno, Lady Pálinka,
mi limito a esprimere un
concetto e lasciare che siano gli altri a decidere come interpretare le
mie
parole secondo i loro gusti. Tuttavia, mi permetta di osservare come
trovi
alquanto curiosa la sua interpretazione: a essere sincera, sembra quasi
che lei
sia intimorita dalla consapevolezza di essersi comportata in modo tale
da aver
offerto al suo angelo motivi sufficienti per desiderarla nella tomba,
piuttosto
che viva. È così, forse?»
Non rispose.
Solo, macchie nere iniziarono a
spargersi in quei
globi ormai ridotti a un oceano di sangue scuro. Anche adesso, con gli
spettri
del disastro che aleggiavano nella stanza, l’altro angelo non
mosse un dito.
Viru, invece, continuò a
calcare la mano. «È
indicativo che non vogliate rispondermi» osservò
alzando un sopracciglio e il
piercing dello stesso «mi fa quasi pensare che non vogliate
affrontare
l’argomento. Per quale motivo, poi? Distruggete senza freno
alcuno, commettete
atrocità impronunciabili, violentate anche le piante, il
tutto senza
vergognarvene minimamente: detto ciò, e partendo dal
presupposto che per quanto
mi riguarda può fare ciò che più
l’aggrada, è così problematico
rispondere a
una mia semplicissima, innocente, neutrale, domanda? A meno che io non
abbia
toccato un tasto dolente s’intende, in questo caso capirei il
suo silenzio, la
sua resistenza, la sua paura. Del
resto è risaputo come i tiranni dormano con una spada sotto
il cuscino per la
paura di perdere il proprio regno di terrore da un momento
all’altro». Incurante
delle sfere completamente nere, si abbassò, chinandosi
vicino alle sue orecchie
per potervi sussurrare: «Lei dove la tiene, la sua
spada?»
Crack.
Pálinka
stramazzò a terra: indifesa, agonizzante, in
preda alle convulsioni, con gli arti rigidi dritti dritti, gli occhi
rovesciati
all’indietro e una bava schiumosa che le usciva dalla bocca
nera e acquamarina;
al suo fianco, Cisk, il bastone ancora interposto fra Viru e la sua
signora.
Oltre al fatto che i globi
variassero di colore a
seconda dell’umore del proprietari, era un’altra la
scoperta che l’angelo aveva
fatto istruendo e servendo quell’empia creatura di Tiāmtu:
rompi tutte le sfere
a un Kindjathl'matari,
e lo ucciderai. E lui aveva
applicato per l’ennesima volta questa scoperta con la sua Dea
della Distruzione,
stupidamente in procinto di tentare di utilizzare l’Hakai
contro sua sorella.
Ritirato lo scettro, si mise a
osservare la propria
Hakaishin che andava lentamente spegnendosi: ogni singola perla in suo
possesso,
piccola come quelle sui baffi o grande come quelle sulla coda, era
percorsa da
crepe più o meno spesse e ramificate che scendevano in
profondità nella sfera
stessa giù, giù, sempre più
giù, fino a romperla in profondità e far defluire
da essa tutta la vita e il potere che custodiva; non per niente,
infatti,
quando un globo veniva rotto iniziava anche a perdere colore a
velocità più o
meno elevata a seconda del danno, fino a divenire completamente
trasparente:
quando ciò accadeva per tutte le sfere, allora il
Kindjathl’matari moriva.
Anche Viru diede
un’occhiata a quello che da lì a poco
sarebbe diventato un freddo cadavere, poi spostò lo sguardo
verso il gemello. «Avrei
potuto tranquillamente difendermi da sola, fratellino, ma apprezzo il
gesto».
«In questo Universo sei
un’ospite, sorellina, non mi
sembrava educato farti sporcare la mani per gli eccessi della mia
Dea» le
spiegò sorridendo. Poggiato un ginocchio a terra, si
chinò sull’altra
sventurata. «Spero che abbiate capito la lezione, Lady
Pálinka: sono molto
paziente, ma non tollero che manchiate di rispetto a qualcuno a voi
superiore.
Ora, gentilmente, chiedete scusa» la incoraggiò:
non l’avrebbe mai lasciata
morire, ovviamente, ma a volte per insegnarle come girava il mondo
doveva
ricorrere a quei metodi brutali; non gli piaceva usarli, ma non si
tirava
nemmeno indietro nel farlo né si sentiva in colpa per averlo
fatto.
Con la poca forza in corpo, dando
mostra di
un’intollerabile strafottenza, l’Hakaishin ebbe il
coraggio di sventolare le
proprie dita medie. «…
G-gia…gia… GI-GIAMMAI!»
gridò, tossicchiando sangue subito dopo per lo sforzo.
«Molto bene».
Cisk si alzò, poi offrì un braccio alla
sorella. «Vuoi venire a gustarti un ottimo dolce, Viru? Sul
pianeta Rocher fanno
dei dessert deliziosi: hanno delle delicate e leggerissime mousse al
cioccolato
servite con panna appena montata che paiono spumose nuvole di
golosità ripiene
di marmellata calda ai lamponi, penso che dovresti assolutamente
provarle».
Lo prese a braccetto.
«Volentieri, ti ringrazio».
Evocò il proprio
bastone. «Benissimo, partiamo subit-»
Nemmeno il tempo di finire, che
Pálinka gli si trascinò
vicino e si aggrappò disperatamente ai suoi abiti,
tirandoglieli con una certa
violenza… per quanto la sua condizione le permettesse di
essere violenta, s’intende.
«… N-non
p-pu-puoi la… lasc… l-lascia-a-armi….
q-qui…»
gemette con le lacrime agli occhi, più probabilmente per una
reazione del suo
corpo al tremendo dolore che la stava dilaniando che per sincero
pentimento «…
n-non… non p-puoi!»
«Si scusi»
ripeté impassibile.
«E-eh e-e-eh…
s-sappi-a-amo-o en-entram… bi… che no-non
lo… f-farò…»
riuscì addirittura a ridacchiare «T-tu non -mi
la… lasce…
l-la-lascers… ti… mai…
m-mori…re… lo so…
a-altri-me… menti d-do… d-dove la… la
tr-tr… tr-trovi… u-u-un’al-altra
c-co… co-come me, u-uh?»
«Se Zeno-Sama vuole, da
nessun’altra parte» asserì
alzando gli occhi al cielo. Indifferente, picchiò il bastone
per terra, facendo
comparire dei filamenti biancastri che iniziarono ad avvolgere il suo
corpo e
quello dell’altra per trasportarli dalla loro merenda.
A quel punto, probabilmente
Pálinka si sarebbe
aspettata che il suo angelo si voltasse all’ultimo e le
ricomponesse le sfere
senza che lei dovesse abbassarsi a chiedere scusa a Culetto Sodo, ma da
quel
che i suoi occhi ormai bianchi stavano vedendo -anzi, non stavano
vedendo,
essendo i due già belli che totalmente avvolti
dall’ombra del teletrasporto- nulla
di ciò stava accadendo: la stava davvero abbandonando a se
stessa per andare a
mangiarsi un dolce? Lo stava facendo veramente?
Cos’era quella strana e
fastidiosa sensazione che sentiva
pervaderle il petto? Paura, forse? No, no, no: non aveva mai avuto
paura prima
d’ora, erano gli altri che avevano paura di lei! Non il
contrario!
Eppure…
eppure…
«S-scu… u-usa!
S-scusa! SCUSA!»
Quell’urlo disperato
appena uscito dalla gola non lo
aveva lanciato lei, non consapevolmente almeno.
Sì, un riflesso
dell’istinto di sopravvivenza, ecco
cos’era stato, istinto di sopravvivenza e nulla di
più: niente sincero rammarico,
niente voglia di sapersi perdonata, niente sensi di colpa; fosse stato
per lei,
piuttosto che scusarsi sarebbe morta.
Qualunque fosse stato il motivo che
l’aveva spinta a scusarsi,
non aveva importanza: il tempo che pronunciasse l’ultima
sillaba, e le sue
sfere tornarono come nuove, senza più crepe né
graffi che testimoniassero l’accaduto.
Insieme ad esse, anche la Kindjathl’matari si
sentì subito riparata e bella
pimpante, forte dei suoi globi che avevano ritrovato il proprio
colorito turchese
acceso e degli occhi acquamarina nei quali brillava nuovamente la
scintilla
della psicosi che l’accompagnava da che li aveva aperti, quei
grandi occhi neri
come le profondità più recondite della malattia
mentale.
Una ferità,
però, non era stata sanata: quella nel suo
orgoglio. Lei che era stata costretta a chiedere scusa, a
chiedere scusa!
Si sedette sul divano.
«Fanculo».
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Angolino dell’autrice,
che giura di non essersi fumata
nulla per scrivere questa cosa
Avrei dovuto chiamare questa one
shot “Come NON presentarsi
in un fandom”, fra rating e instabilità mentale
dei soggetti coinvolti, MA
DETTAGLIH :’D
Non chiedetemi come è
venuta fuori Pálinka perché non
lo so nemmeno io, essendo nata completamente a caso già
bella che sociopatica/psicopatica/quellochevoletepatica
e finendo per gettarsi insieme ai miei altri undici OC Hakaishin -e
altrettanti
angeli- in qualità di pazza del gruppo, che diciamocelo ci
vuole sempre.
Più o meno.
Più meno che
più.
Facendo le persone serie (ma
quando mai?!), non
sono per niente nuova nel fandom di Dragon Ball, ci sono praticamente
cresciuta
fin da che ero piccolina, ma non ho mai scritto nulla a riguardo
né su EFP né altrove,
sebbene nella testa mi facessi tante di quelle long che per scriverle
tutte non
mi sarebbe bastata questa vita e nemmeno l’altra
:’D ma ho deciso di scrivere
questa one shot degenerata peggiochemale, giuro che doveva
essere lunga
qualche pagina e riguardare solo quel mostro peloso, mica il mio intero
AU! D:
anche solo per presentare tanto disagio al mondo e niente, eccoci qui,
con me che
continuo a parlare e voi che leggete i miei deliri: bene, ma non
benissimo! :’D
Per il resto, Lobo è
sì un personaggio della DC Comics,
ma Lord Lobo passione Hakaishin arriva da questa
one shot della mia compagna di
profondo disagio _Dracarys_, che
fra
un discorso e l’altro mi ha gentilmente concesso di
utilizzare l’UomoH per i
fini impuri che avete appena letto :D
Va bene, ho parlato a sufficienza: qui sotto vi lascio un disegno di Pálinka che feci teeempo fa, mentre alcuni degli altri suoi colleghi potete trovarli nel mio profilo deviantArt :)
P.s. Mi scuso se avevo cancellato la storia, ma era tutta in corsivo e non so perchè! Suppongo sia un problema del sito, dal momento che quando ho pubblicato si vedeva normalmente.