Buonsalve
amici lettori! Innanzitutto
volevo ringraziare tutte le persone che hanno recensito questa storia o
l’hanno
inserita nelle liste, siete veramente in tanti! Il calore con cui
questa storia
è stata accolta mi rende veramente molto felice.
Seconda
cosa, forse un pochino meno
piacevole… sono sommersa dal lavoro per
l’università e non sono riuscita a
completare la scrittura del terzo capitolo come promesso in una
risposta ad una
recensione. Dato però che non volevo lasciarvi a bocca
asciutta per troppo
tempo, ho deciso di pubblicare la prima parte adesso, e di scrivere nei
prossimi
giorni la seconda parte e di pubblicarla una volta pronta. In questo
modo
avrete due capitoli un po’ più corti
(più o meno la metà del solito) ma più
vicini nel tempo. Col quarto capitolo – università
permettendo, dato che già la
settimana prossima ho due esami, poi a giugno inizia la
sessione… uff! –
dovrebbe tornare tutto normale.
Spero
che questa mia decisione non vi
dispiaccia!
Intanto
godetevi la prima parte del
terzo capitolo 😊
Baci,
Charlie
CAPITOLO
TRE: CENERENTOLA (PARTE UNO)
Clarke si
svegliò in un letto non suo. Ci mise un po’ ad
accorgersene, i residui di tutto
l’alcol che aveva bevuto la sera prima le martellavano la
testa senza sosta. Ma
le differenze erano evidenti: luce diversa, colori diversi, odori
diversi. E
soprattutto, Clarke non dormiva mai sul lato sinistro del letto. Quello
era di
Madi quando faceva i brutti sogni, il più lontano dalla
porta nella sua camera a casa sua.
Dove
apparentemente non era, in quel momento.
«Ma
che
diavolo-» borbottò senza capire, la luce che
entrava dalle grandi finestre le
feriva gli occhi. Si passò una mano sul volto, come per
cercare di scacciare la
confusione.
Si
girò di
lato.
E
la vide.
C’era
una
donna che dormiva accanto a lei nel letto, nuda. Era bellissima. Il
profilo
perfetto del naso le impreziosiva il volto, le lunghe ciglia che le
accarezzavano le guance sembravano tremare. Ad ogni respiro che usciva
dalle
sue labbra piene e perfettamente disegnate, l’aria faceva
alzare una ciocca di
capelli castani che era finita a coprire parte del suo viso
d’angelo. La
schiena nuda era coperta sulla vita da un lenzuolo rosa pallido, e una
gamba
affusolata si allungava lungo il materasso, lasciando poco spazio a
Clarke.
Clarke la osservava ammaliata, senza sapere chi fosse né
come avesse fatto a
ritrovarsi nel letto con una donna dalla bellezza così
celestiale.
Questa volta
i ricordi impiegarono più tempo per riaffiorare. Clarke
restò a guardarla
dormire per quello che le parve un tempo infinito, senza sapere cosa
fare né
cosa dire. Si sentì un po’ una stalker, a guardare
una sconosciuta mentre
dormiva, così aperta e indifesa. Ma era troppo bella per
staccarle gli occhi di
dosso. E poi la stanza non le diceva niente se non quello che aveva
già
intuito: i loro vestiti sparsi ovunque, una delle sue scarpe persa
lungo il
corridoio che Clarke riusciva a vedere se si piegava un po’
in avanti; il
minimalismo con cui era arredata la camera le fece pensare a qualcuno
di
solitario, che non viveva con la sua famiglia. Niente foto
né alcun segno che
quella stanza fosse realmente abitata, se non nel letto.
Clarke
rimase lì, ferma e confusa sul letto, per minuti e minuti e
minuti e minuti e –
I ricordi si
avventarono su di lei come avvoltoi sulla carcassa di un animale.
«Credo
che tu mi debba un drink»
disse la donna con voce suadente e un mezzo sorriso.
La
donna non controllò neanche che il
bagno fosse libero da occhi indesiderati prima di spingere Clarke
contro la
porta e baciarla.
«Almeno
dimmi il tuo nome?» disse Clarke
cercando di respirare a pieni polmoni, ma suonò
più come una domanda.
La
donna rise. «Non è più divertente
così?»
«Ti
prego, dimmi che ti posso portare
a –
«Oh
merda»
Clarke
impanicò.
Era andata a
letto con una sconosciuta.
Era
andata a letto con una
sconosciuta.
ERA
ANDATA A LETTO CON UNA
SCONOSCIUTA.
E dio, se le
era piaciuto.
Clarke
nascose il viso tra le mani, trattenendo a stento un urlo isterico. Era
andata
a letto con una sconosciuta e le era piaciuto. L’eccitazione
del mistero, il
fatto che tutto sarebbe svanito con il sorgere del sole, e
quella cosa che mi ha fatto con la lingua là sott–
Clarke si
impedì di pensare oltre. Non aveva nulla contro le storie di
una notte; il
problema era che non erano mai state per lei. Per Clarke il sesso non
era solo
sesso. Certo, con Niylah lo era stato, ma quello era stato un periodo
di
debolezza dopo essersi lasciata con Finn; aveva sentito terribilmente
la
mancanza di un corpo accanto al quale dormire la notte, una spalla su
cui
appoggiarsi nei momenti di stanchezza, una persona su cui contare e
nella quale
rifugiarsi quando fuori era buio. Ma avevano mutualmente deciso di
troncare la
storia prima che potesse evolvere in qualcosa di più. Lei e
Niylah erano
comunque rimaste amiche; si vedevano ancora per un caffè, di
tanto in tanto.
Quello che
era successo quella notte, però, era tutt’altra
storia. L’alcol le aveva
completamente assopito la ragione; l’istinto aveva preso il
sopravvento,
trasformandola in qualcosa che non era. Clarke seguiva sempre la sua
coscienza.
Non era una donna che si lasciava prendere dal momento e dalle
emozioni. Era
un’artista, ma il suo lato razionale aveva sempre avuto la
meglio nella sua
vita reale. Era un controsenso vivente, lo aveva saputo fin da bambina.
Era
sempre stato così.
Ma non
quella notte.
Non
questa notte.
Clarke si
alzò di scatto dal letto, accorgendosi soltanto in quel
momento di essere nuda
anche lei. Si girò verso la donna che dormiva, imbarazzata;
ma era ancora
profondamente addormentata. Riavendosi, raccolse le sue mutandine e se
le infilò
alla velocità della luce, saltellando su un piede. Ma dove è finito il reggiseno? Lo
vide all’inizio del corridoio,
proprio accanto allo stipite della porta. Messo anche quello,
recuperò il
vestito e se lo infilò dalla testa, senza pensare. Lo
tirò giù fino ad una
lunghezza accettabile e si guardò intorno, cercando altre
cose che le
appartenessero. Ma la stanza era vuota di lei. Adesso, soltanto il suo
lato del
letto stropicciato poteva tradire la presenza di un’altra
persona nella camera.
Recuperò
la
prima scarpa nel corridoio ed entrò nel soggiorno alla
ricerca della seconda.
Vide che la sua borsetta era per terra accanto al divano, ma della
scarpa
nessuna traccia. Clarke si fermò per pensare, cercando di
ripercorrere con la
memoria quella notte. Per quanto la facesse vergognare, doveva farlo:
quelle
erano le sue décolleté preferite e non se ne
sarebbe mai andata senza averle
trovate entrambe.
Allora,
Clarke, pensa un po’. Cosa è
successo? Clarke non
aveva molti ricordi di quella notte, in realtà. Dal taxi che
avevano preso per
andare a casa della donna, le memorie di Clarke erano confuse e
annebbiate.
Ricordava la foga dei baci, le unghie, i denti. I gemiti.
La
donna la spinse facendola cadere
all’indietro sul letto. Clarke si morse il labbro, guardando
quella dea scesa
dal cielo. Le si sedette a cavalcioni sulle gambe, cingendo la vita di
Clarke
con le braccia. La baciò con passione, senza remore,
avventandosi sulle sue
labbra con famelica attenzione, poi scese giù,
giù, lungo il collo,
marchiandolo con morsi che fecero sussultare Clarke. La donna rise, una
risata
sottovoce, sexy come non mai. Un brivido partì dalla schiena
di Clarke
facendola tremare da capo a piedi. La donna le abbassò le
spalline del vestito
e la guardò negli occhi, aspettando la conferma che stava
cercando.
«Stai
cercando questa per caso?»
Clarke
urlò
e si voltò di scatto, spaventata a morte.
Non era
più
sola.
C’era lei.
Indossava
una vecchia t-shirt di un blu scolorito tendente al verde smorto. Aveva
i
capelli tutti arruffati, e delle occhiaie che tradivano la notte appena
trascorsa.
È
comunque bellissim-
In mano
aveva la scarpa mancante di Clarke.
Merda.
Già,
merda.
«Vogliamo
fare Cenerentola e il principe azzurro o posso offrirti un
caffè e possiamo
parlare?» chiese la donna con un sorriso storto che fece
sciogliere Clarke.
Clarke aveva un debole per i sorrisi storti. Era stato quello che
l’aveva fatta
cadere ai piedi di Finn. Guardò prima la scarpa che la sua sconosciuta teneva tra le mani, poi
il suo viso, poi di nuovo
la scarpa, poi il suo viso ancora, in un circolo vizioso che stava
facendo
andare in fumo il cervello di Clarke. Non sapeva cosa dire, non sapeva
cosa
fare. La sua coscienza le gridava di scappare, di scappare il
più in fretta
possibile senza voltarsi più indietro, di scappare e tornare
alla sua
normalità, perché un altro sguardo a quegli occhi
chiari e non ce l’avrebbe più
fatta. Sarebbe caduta nella tela del ragno e, come un’ingenua
farfalla, non ne
sarebbe più uscita.
Dall’altro
lato, qualcosa dentro di lei le diceva di restare. Perché in
fondo un caffè non
significava nulla, no? Avrebbe potuto tranquillamente andarsene dopo
aver
recuperato la sua scarpa e aver bevuto una tazza di caffè di
cui sembrava avere
disperatamente bisogno.
Pensa
a Madi, Clarke.
E
se una volta pensassi anche a me?
Il copione
della sera precedente si ripeté.
Clarke
sorrise imbarazzata, si sistemò i capelli dietro le orecchie
e annuì.
Anche la
donna annuì, e si avvicinò a lei. Le porse la
scarpa, che Clarke prese
lentamente. Quando entrambe ebbero la mano sulla scarpa, si guardarono.
C’era
qualcosa di strano, nello sguardo di quella donna. Come una storia che
non
aveva mai raccontato a nessuno ma che urlava per scappare fuori ed
essere
divulgata al mondo. Clarke scosse la testa e si prese la sua scarpa,
infilandosela assieme a quella che già aveva. I tacchi di
prima mattina dopo
una notte del genere erano la cosa più assassina
di cui Clarke avesse mai fatto esperienza.
«Allora,
caffè?» Ripeté la donna, sorridendo
ancora.
«Caffè»
disse Clarke, annuendo.
La donna si
avviò in cucina, e Clarke la seguì con titubanza.
Si sentiva a disagio, ora che
non era l’unica sveglia. Non aveva la più pallida
idea di cosa dire alla donna
con cui aveva passato quella che molto probabilmente sarebbe stata una
delle
migliori notti della sua vita, se non la migliore in assoluto. Ma ora
che il
sole era sorto, la magia che le aveva attratte quella notte sembrava
avere
perso il suo effetto. Almeno per lei. La donna – sarebbe mai
riuscita a
scoprire il suo nome? – invece sembrava essere calma e sicura
di sé, come
quella notte.
Clarke
rimase accanto alla porta, mentre la donna accese la macchina del
caffè e si
appoggiò al bancone della cucina, guardandola.
«Allora,»
disse «Hai dormito bene, Clarke?»
Sentirla
pronunciare il suo nome fu uno shock piacevole e allo stesso tempo
terrificante.
«Come-»
le
si spezzò la voce. Clarke tossì, e la
guardò negli occhi «Come sai il mio
nome?»
La donna
scoppiò a ridere, e si portò una mano al viso per
nascondere la risata. Aveva
una luce maliziosa negli occhi, una luce che fece insospettire Clarke.
Sapeva
qualcosa che lei ignorava. La donna dopo qualche secondo smise di
ridere, e si
morse il labbro. Piegò la testa e guardò Clarke
assottigliando gli occhi.
«Davvero
non
ricordi?» chiese. Di fronte al silenzio di Clarke,
andò avanti «Non credevo
fossi così tanto ubriaca questa notte. Ti chiedo
scusa»
Quella
risposta lasciò Clarke senza parole. Crede
davvero che…?
Clarke
portò
le mani in avanti e si affrettò a fermarla «Non
devi scusarti di niente, anzi.
Non hai fatto nulla di sbagliato. Ero molto, molto, molto
consenziente»
«Di
quello
me ne ero accorta» disse la donna.
Clarke
arrossì e distolse lo sguardo. «Allora, come sai
il mio nome?» chiese,
guardando il frigorifero.
«Te
l’ho
chiesto io» rispose, e Clarke la vide con la coda
dell’occhio muoversi per
prendere qualcosa dalla credenza. Che anche lei fosse imbarazzata?
«Potrei averlo
voluto gridare mentre venivo.»
«Oh.»
Quella
conversazione stava diventando sempre più imbarazzante
secondo dopo secondo.
Clarke si grattò la testa e si guardò attorno,
sentendo il sangue affluirle
sempre di più alle guance. Ecco perché non faceva
mai sesso con gente a caso.
Odiava la mattina dopo.
La donna
versò il caffè e offrì a Clarke una
tazza come gesto di pace.
Stettero in
silenzio per un po’, ciascuna persa nei propri pensieri e
nella propria tazza
di caffè. In realtà, Clarke stava cercando di non
pensare. La sua mente
continuava a ripeterle tutti i modi in cui quella situazione sarebbe
potuta
andare storta, ma lei cercava di non darle ascolto. È
solo una tazza di caffè. Solo una tazza di caffè.
Solo una tazza di
caff-
«Allora,
Clarke» disse l’altra poggiando la sua tazza sul
bancone della cucina «Cosa fai
nella vita?»
Clarke la
guardò con gli occhi sgranati di un cerbiatto sorpreso dai
fari di un’auto,
cuore che le martellava in petto.
Il suo
cervello smise di funzionare.
E Clarke
scappò.
«Io
sono una
mamma» disse, e appoggiò la tazza sul tavolo della
cucina senza guardare la
reazione dell’altra donna «E adesso devo proprio
andare, mia figlia mi aspetta
da una mia amica» Girò la testa per una frazione
di secondo verso la donna, e
la vide con la bocca semiaperta e la tazza ferma a mezz’aria.
Merda. «Grazie per il
caffè ma devo
proprio andare»
Clarke
recuperò in fretta la sua borsetta da terra e
uscì da quella casa il più in
fretta possibile. E per fortuna che la
porta non era chiusa a chiave.
Non smise di correre finché non ebbe superato l’isolato, accorgendosi di non avere la più pallida idea di dove si trovasse.