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Autore: An13Uta    25/05/2018    1 recensioni
Figlia del ticchettio e dell'oceano, alzati.
Riscrivi la storia nel libro del destino.
Abbraccia la Saggezza e troverai ciò che cerchi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Tetra
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Child of Ticking













Era una stanza grande, piena di libri e odor d'inchiostro. Paguri scappavano da un angolo all'altro, guardinghi, e andavano a nascondersi paurosi in una matassa di fili d'oro terribilmente sbiaditi.

Monotono, accanto ad un corpo immobile a terra, un carillon scandiva lentamente le stesse quattro note.


Tic. Chet. Ti. O.



Era uno scherzo di boschetto.



Tic. Chet. Ti. O.



Così come quello era uno scherzo della natura.



Tic. Chet. Ti. O.



Una volpe a tre code, di un giallo troppo acceso.



Tic. Chet. Ti. O.



Arrotolata attorno a Nemosyne come una vipera di seta.


Il Keaton le sorrise, mellifluo, gli angoli della bocca che minacciavano di raggiungere le orecchie. Gli occhi ridotti a fessure erano puntati contro quelli della bambina.

-Dove vuoi andare, piccolina?

Nessuna risposta.

Pallida e seria, Nemosyne lo fissava soltanto. Sentiva il pelo dell'animale rizzarsi poco a poco, nervoso e inquietato dallo sguardo di porcellana.

-Hai perso i tuoi genitori?

Silenzio.

Le code la strinsero appena un poco di più.

-Vieni dal mare, non è vero?- le chiese, e per un secondo sembrò deglutire a vuoto.

Aveva visto le loro armi, la rabbia con cui ricostruivano le macerie di case distrutte ancora e ancora dalla creatura per il semplice gusto di fare un dispetto.

Negli occhi immobili della piccola leggeva un ricatto a cui non aveva possibilità di sfuggire senza ritrovarsi la testa appesa ad un muro.

-Vuoi che vi lasci in pace, eh? Mi piacerebbe, davvero, ma temo che mi servano... alcune cose.

Balle.

-Facciamo un patto, sì? Portami maschere. Tante maschere, diciamo... ventitré.

Aprì appena gli occhi.

Aveva iridi cangianti, liquide, ipnotiche.

La fissò intensamente, avvicinandosi al suo viso con lentezza esasperante.

-Portamele...


Tic. Chet. Ti. O.


-Portamele... Non importa quando, prendi tutto il tempo che ti serve...


Tic. Chet. Ti. O.


-E allora, vi lascerò in pace.


Tic. Chet. Ti. O.


-Affare fatto?


Tic. Chet. Ti. O.




-No.



 

Le code si irrigidirono dalla sorpresa.

Nemosyne rispondeva al suo sguardo con occhi di ghiaccio e la voce come un sottile velo di gelida brina.

Le avevano detto che il ponte della nave ne era coperto, il freddo giorno della sua nascita.


-... No?- ripeté Keaton.

Il suo tono raggiungeva appena quello di un bisbiglio.



-Ti chiamerò quando le avrò trovate. Fino ad allora, non provare a toccarci.



Non era una voce da bambina.

Le avevano detto che era sempre stata assai prematura. Un piccolo prodigio.



-Non provare a toccarci.



Keaton annuì, ossequioso, liberandola dalla sua stretta di velluto, ritirandosi in preda al terrore.



-Sparisci.




E riemerse dai suoi ricordi.

Nemosyne si mise seduta sul pavimento; una dozzina di piccoli crostacei le caddero in grembo, altri scapparono terrorizzati dall'improvviso movimento. I più coraggiosi, o più vecchi, rimasero aggrappati ai grandi nodi pallidi nei suoi lunghissimi capelli.

Non si alzò immediatamente. Pensò a tutto, per essere sicura non mancasse nulla.

Erano passati due anni.

Non era cresciuta quasi per niente.

La colonia abusiva di paguri era aumentata di poco.

Servivano altre conchiglie.

I suoi capelli erano più lunghi di dieci centimetri.

Non aveva ancora sorriso.



E quella stupida, dannata faccia da volpe era ancora nascosta sotto al tavolo.



Non diceva mai niente a nessuno.

Non aveva parlato dei carillon che aveva costruito, delle canzoni che aveva imparato, dei paguri che avevano pacificamente infestato la sua camera, del dispiacere di sentire la terra solida sotto i piedi.

Della voglia di tornare sull'Oceano, sulla loro nave, ad essere pirati invece che una famiglia reale.

Quindi, non aveva detto neanche di Keaton.

Le cose si erano aggiustate.

Le case avevano smesso di venire bruciate, i progetti per il palazzo erano stati terminati con successo, i trattati di pace firmati, il regno riconosciuto.

Nemosyne aveva continuato a non avere emozioni e scappare nostalgica in riva al mare per fissare l'infinito vuoto blu che le si stagliava davanti.

Fine della storia.

Niente di strano.

Assolutamente.

Afferrò la maschera donatale da Keaton e le diede uno schiaffo. La superficie di legno la colpì di rimando.

Maledetto lui, maledetta lei.

Avrebbe voluto lanciarla dall'altra parte della stanza.


Tic. Chet. Ti. O.


Avrebbe voluto farla a pezzi.


Tic. Chet. Ti. O.


Respirò a fondo e ascoltò il suono della sua mente.


Tic. Chet. Ti. O.


Un ritmo in quattro tempi, preciso come un orologio.


Tic. Chet. Ti. O.


Tirò su col naso, frustrata, limitandosi a sbattere a terra la maschera. Allungò appena la mano per accarezzare piano un paguro accoccolato nel suo grembo, senza pensare.

Avrebbe passato il giorno a non fare nulla.

Ad aspettare, intorpidita, che il tempo passasse.

Di nuovo.

Lasciò lo sguardo vagare spento per l'armonia caotica della stanza, sfiorando con esso senza accorgersene gli oggetti sparpagliati sul pavimento.


Un pennino sporco abbandonato su una conchiglia rotta.


Una bottiglietta d'inchiostro blu notte in bilico su un grosso libro aperto dalla copertina in pelle sbiadita, pronta a cadere a pezzi.


Due biglie di vetro, una meravigliosamente scheggiata nel centro, che rotolavano pigre verso una sedia di legno.


Pagine di lettere in cento varianti del nero, dell'azzurro e del blu che coprivano il pavimento, i mobili, le pareti.



Un'orsa albina dagli occhi celesti, che la fissava con maestoso silenzio fuori dalla finestra.



Si dovettero osservare a vicenda per un lungo tempo prima che la bambina la notasse. Saltò in piedi, ribaltando il crostaceo che stava accarezzando, la mano in cerca del suo spadone appoggiato vicino al suo letto.

Il grosso animale non sembrò spaventarsi. Si alzò, scuotendo appena la testa.

Nemosyne strinse l'elsa nel suo piccolo palmo, aspettando la mossa dell'altra. Quasi sette anni vissuti su un vascello pirata le avevano insegnato a combattere con una spada tanto grossa con una discreta maestria.

La predatrice non mosse un muscolo. Osservò paziente la bambina avvicinarsi pianissimo, pronta a reagire al minimo movimento sospetto, fino a quando non furono l'una a pochi centimetri dall'altra.

Fece una specie di cenno con un orecchio, invitandola a seguirla. Nemosyne non si accorse neanche di star camminando, rapita dai riflessi celesti del pelo.

Sentiva appena le gambe muoversi, e poi, all'improvviso, i suoi piedi stavano calpestando la sabbia.

Fissò l'orsa, immobile nell'acqua ad aspettarla.

"Vieni." le sussurrò una voce. Era dolcissima.

Inghiottì a vuoto.

-Devo pensarci.

La grossa predatrice annuì, comprensiva. Con passo lento, avanzò nelle onde fino ad inabissarsi.

La piccola rimase ferma, gli occhi puntati sul mare.



E si chiese se davvero non fosse stata la soluzione migliore.



-Nemosyne?


Sbatté le palpebre, confusa.


Era a casa. Nel suo letto. Sdraiata.


Il suo corpo l'aveva riportata indietro.


Qualcuno chiamava da dietro la porta.


Grugnì, e suo padre tirò un sospiro di sollievo. Bussò altre tre volte prima di andarsene. Si erano preoccupati, le fece intendere.

La bambina tornò a pensare alla proposta del giorno prima.


Suonava come una brutta idea.


Passò un'ora.

Poi lasciò la sua stanza.




-Ben svegliata, principessa.

Tetra accarezzò il capo di sua figlia: -Vai a vedere l'oceano?


Tic. Chet. Ti. O.


-Non so.


Tic. Chet. Ti. O.


-Pensi di tornare prima che faccia buio?


Tic. Chet. Ti. O.


-Non so.


Tic. Chet. Ti. O.


-E' sempre bello parlare con te.

Labbra cotte dal sole si appoggiarono ad un tappeto di stelle morte. Una pancia rigonfia per un fratellino sfiorò appena la pelle candida.



Nemosyne avrebbe urlato.



Quasi non toccò terra correndo fino al confine col mare. Lo fissò ancora un attimo, incerta.

Finalmente si costrinse a prendere un gran respiro, dando le spalle alla massa d'acqua.


Era una brutta idea.

Avrebbe funzionato.


Lentamente, camminò all'indietro, colpendo le onde con le gambe, gli occhi fissati in un vuoto bianco, intonando la canzone di una zia che mai aveva incontrato.


Poi non sentì più niente sotto ai piedi.


Cadde senza rumore, come un sassolino, lasciandosi trascinare da una corrente che la teneva tra due mani fresche e vellutate.

Le sembrò profumassero di salsedine.


Le bolle del suo respiro corsero verso la luce, e riemerse in una stanza ombrosa di madreperla, simile l'interno di un'ostrica, a pancia in su.





Ma non la vedeva.

Vedeva solo sua madre, sulla sabbia, a urlare, e sciogliersi in lacrime, e tentare di cercarla, perché non è possibile, non è possibile, non può essere annegata, dev'essere viva, la mia bambina, ritrovate la mia bambina.



Vedeva la sua camera venire chiusa, i suoi paguri ancora ad aspettarla.




Vedeva suo fratello ignorare che lei fosse esistita.





Vedeva sé stessa in quel momento, piangente, in una grotta nascosta al mondo, accompagnata solo dal ritmo di un orologio bloccato sulla stessa ora.







Vedeva sé stessa morta, che aveva lasciato indietro tutto per evitare di fallire.




Mise a fuoco abbastanza per incontrare un volto dai tratti quasi familiari, un'espressione preoccupata chinata sul suo corpo spettralmente pallido.

-Ciao bisnonna.


Il volto di Nemosyne era inespressivo come il suo tono.


-Bello vederti.
















 

Nelle sue orecchie rimbombava, disperato,  il ticchettio di un carillon.




 

   
 
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