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Autore: Watson_my_head    31/05/2018    4 recensioni
Sherlock riceve un messaggio inaspettato. E il fantasma di un ricordo si insinua nei suoi pensieri.
Ma è solo un momento.
Johnlock established.
Viclock.
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Victor Trevor
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: se questa storia dovesse risultarvi in qualche modo familiare, vi prego di contattarmi in privato. Grazie <3

 



 

 

BORN TO DIE







Pioveva.

Sherlock guardava verso la finestra, abbandonato sul divano. La testa leggermente penzoloni, i capelli liberi sulla fronte e un po' sugli occhi. John, seduto sul pavimento con la testa reclinata all'indietro e appoggiata sul fianco di Sherlock, guardava il soffitto. Una musica dolce e il rumore della pioggia fu tutto quello che si udì per un po'.

“Come hai detto che si chiama questa canzone?”- chiese Sherlock all'improvviso, accarezzando distrattamente i capelli di John.

“Even if.”

“E' noiosa.”

“E' triste.”

“E' noiosa. Anche il giro di pianoforte è noioso. Perché l'ascolti?”

John si voltò leggermente verso di lui. “Non l'ascolto”.

“Si invece.”

John si mise a ridere, ma solo un po'. E lo guardò ancora, un po' più forte. Sherlock continuava a guardare il soffitto ed era imbronciato e bellissimo. John chiuse gli occhi godendosi il tocco leggero delle sue dita. E fuori era già quasi sera.

Il cellulare sul pavimento, affianco a John, suonò. Un messaggio. Sherlock lo prese, portandolo in alto sulla testa per leggere.

“Speriamo sia almeno un sette”.

John sorrise. “Di nuovo? Siamo appena tornati da un nove! Sono stanco.”

Ma la verità è che sarebbe andato dovunque con lui.

 

Numero sconosciuto -“Per me la pioggia avrà sempre l'odore dei prati verdi di Cambridge e di corse senza fiato, archi di pietra e baci rubati. Per te?”. Sherlock restò immobile.

Non era un sette. Decisamente no.

 

***

 

Pioveva.

Correvano a perdifiato per attraversare il campus in cerca di riparo. Victor rideva come se fosse la cosa più divertente del mondo e Sherlock lo odiava da morire per questo. E lo amava, forse anche di più.

“Sei lento!” - disse Victor ansimando forte dopo essersi fermato sotto il primo arco di pietra non occupato da altri studenti. Si era piegato un po' sulle ginocchia e l'acqua gocciolava dai suoi capelli liberamente. Rideva, rideva, ed era bellissimo.

Sherlock arrivò due secondi dopo. Si appoggiò al muro ansimando forse anche di più, senza riuscire a dire una parola.

Victor fece un passo avanti, afferrandolo dolcemente per i capelli bagnati.

“Lo senti questo odore?” - gli sussurrò sulle labbra, sorridendo appena. “Mh? Lo senti?”

“Che odore?”. Sherlock non aveva la lucidità necessaria per capire quello che gli veniva chiesto quando Victor era così vicino. Era sempre stato così. Fin dalla prima volta. Fin da quando quello stupido cane l'aveva morso alla caviglia facendolo sanguinare, e quegli occhi verdi lo avevano ferito anche peggio.

“Oh Sherlock.” - lo guardava adesso con dolcezza e fame. “L'odore della pioggia sui prati di Cambridge.” - e così dicendo si era voltato verso il campus. Sembrava all'improvviso triste e lontano, perso in chissà quale pensiero. Ma per Sherlock non era una novità. Era abituato ai suoi improvvisi cambi di umore, ai sorrisi seguiti da occhi spenti e silenzi profondi. Victor era capace delle gioie più sfrenate e poi della malinconia più distruttiva. E Sherlock aveva capito come far parte di questo suo strano, inesplicabile mondo. Avevano imparato ad esplorarlo appieno insieme. Giorni di lacrime e perdizione, letti sfatti, quadri sul pavimento e vetri rotti. E poi baci, l'amore a farsi male. Erano completamente diversi ed estremamente simili. Due esseri umani terribili e allo stesso tempo incredibili. Fuori da ogni canone possibile. Troppo belli. Troppo intelligenti. Troppo tristi. Troppo soli. Probabilmente, l'unica cosa buona che avevano era l'amore che nutrivano l'uno per l'altro. Possessivo, malato, libero e forse triste, ma pur sempre, amore. Questi erano Victor e Sherlock.

Anime sole.

Sherlock studiava ossessivamente, giorno e notte, chiudendosi nel laboratorio di chimica ben oltre gli orari consentiti. Nessuno osava negarglielo. A differenza di Victor, non aveva amici e non era interessato a farsene. Non parlava con nessuno, non rispondeva a nessuno. Estremamente riservato e silenzioso, osservava ogni cosa, conosceva ogni cosa. Ma non gli importava degli altri, piuttosto, li degnava solo della sua presenza.

Fino al giorno in cui incontrò lui.

E Victor invece dipingeva per giorni, a volte restando bloccato sullo stesso quadro, ossessionato dal colore o da una linea o da uno spazio bianco, troppo bianco. Senza mangiare né dormire. Senza preoccuparsi di dover vivere. Era capace di lasciarsi andare a reazioni incontrollate d'ira durante le quali distruggeva le tele che lo ossessionavano. E poi piangeva sul pavimento disperatamente, in un angolo della sua stanza, come un controsenso vivente, sporco di colori vivaci e tremenda tristezza. Fragile come vetro.

La prima volta che Sherlock l'aveva trovato in quelle condizioni non lo vedeva da tre giorni. Fu quasi uno shock per lui. Non c'era niente del ragazzo sorridente e sicuro di sé che incontrava di solito. Non ce n'era nessuna traccia. Non fece domande. Lo tirò su, lo rimise in sesto, lo fece mangiare e dormire accarezzandogli i capelli come si fa con i bambini che si addormentano per aver pianto troppo. E Victor lo aveva lasciato fare come se non avesse avuto nessun tipo di controllo sulla propria vita. Era così, in effetti. Sapeva di essere completamente alla mercé delle proprie passioni, dei propri difetti. Un concentrato di controsensi nascosto abilmente da sorrisi smaglianti e atteggiamento strafottente. Tutti lo adoravano, ma nessuno gli era mai stato vicino abbastanza da arrivare a conoscere la sua vera essenza. Nessuno.

Fino a quel giorno. E per lui fu come legarsi con un filo sottile, stretto forte attorno allo stomaco, così forte che in alcuni giorni faceva troppo male.

Quel giorno era uno di quelli.

 

Anche Sherlock si voltò a guardare la distesa verde davanti a loro. Sapeva quando stava per arrivare uno di quei momenti ed era pronto a combattere, come sempre. Ma questa volta c'era qualcosa di diverso, e lo vide, in fondo agli occhi di Victor. Poteva farsi raggirare dalle parole dolci, dai movimenti del corpo, dal quel sorriso, Dio, quel sorriso, ma non dagli occhi. Quelli non mentivano quasi mai.

“Victor”. Erano passati diversi minuti e nessuno aveva detto niente.

Victor reclinò la testa sul petto, chiuse gli occhi e sorrise appena. Il sorriso più triste che Sherlock avesse mai visto sul viso di qualcuno.

“Vic.” - disse di nuovo cercando con lo sguardo il suo.

Il movimento fu improvviso e veloce. Victor in un attimo si era allontanato appoggiandosi con la schiena sul muro opposto. Incrociò le braccia al petto reclinando la testa di lato e fissando Sherlock negli occhi. La pioggia continuava a cadere pesantemente e loro erano completamente bagnati ed esposti, fin nell'anima.

Sherlock sapeva che qualcosa non andava. Si sforzò di recuperare quella strana sensazione che lo aveva invaso qualche ora prima, quando si era svegliato e aveva trovato Victor nudo, seduto sul davanzale della finestra a fissare le proprie mani che gocciolavano, sporche di tempera, come fosse in trance. La luce tenue dell'alba lo colpiva alle spalle e per Sherlock era stato come svegliarsi davanti ad un'opera d'arte in carne ed ossa, dipinta a tratti di malinconie e tempera blu. Di fronte a quell'immagine non aveva potuto fare altro che ricacciare nella stanza più remota del suo palazzo mentale la strana sensazione che aveva avvertito, per sopprimerla, alzarsi e andare da lui. Lo aveva afferrato per le mani risvegliandolo da quel torpore e lo aveva baciato quasi con cattiveria spingendolo contro il vetro della finestra. Era come se avesse sentito il bisogno di rivendicare il possesso di quella cosa così meravigliosa. Il barattolo di tempera nel quale Victor aveva immerso le mani chissà da quanto, si rovesciò sul pavimento finendo anche sui loro piedi. Victor pianse mentre Sherlock lo baciava. Sapeva di sale e di addii silenziosi. E si era stretto a lui così forte da lasciargli i segni delle unghie sulla schiena, insieme a strisce di colore e impronte di mani. Ma poi aveva riso, tra le lacrime e Sherlock aveva pensato che fosse la creatura più strana e straordinaria che avesse mai incontrato nella sua vita.

 

 

“Dillo.”

“Che ti amo?”- gli rispose Victor sorridendo strafottente. Aveva alzato un po' il mento e sembrava più sicuro di quanto non fosse solo un attimo prima.

Sherlock rimase a guardarlo senza rispondere. Non si erano mai detti quelle parole. Mai. Nemmeno nelle notti più buie, abbracciati sotto le lenzuola. Nemmeno dopo quella volta in cui Victor si era quasi lasciato morire di fame per un verde smeraldo che non riusciva ad ottenere dell'esatta tonalità che aveva immaginato nella sua testa e Sherlock si era costretto a lasciare un esperimento importantissimo per occuparsi di lui. Nemmeno quella volta in cui erano entrambi così strafatti da aver perso due giorni interi di ricordi. E nemmeno quella volta in cui Sherlock aveva discusso così tanto con suo fratello maggiore da averlo quasi strangolato se Victor non fosse intervenuto a fermarlo. Mai. Come fosse un tacito accordo, nessuno lo aveva mai detto. Perché avrebbe reso tutto troppo vero ed entrambi sapevano che non erano destinati a durare per sempre.

“Questo è un colpo basso.”- rispose Sherlock dopo aver riallacciato in qualche modo il filo dei propri pensieri. Victor scoppiò a ridere rumorosamente.

“Lasciami scherzare, Sherlock. Lasciamelo fare.” - era di nuovo serio e malinconico. Guardava altrove.

“Dillo e basta. Di cosa hai paura? Che mi metta a piangere, a urlare? Che faccia una scenata proprio qui? Quello sei tu, non io. Lo sai bene.” - Sherlock rispose con voce fredda.

Victor si voltò verso di lui. “Si, lo so”. Sorrideva tristemente. “Avrei voluto che tu mi amassi, almeno un po'. Anzi, avrei voluto che tu mi amassi un po' più di quanto ti ho amato io.”

Sherlock non rispose. Credeva di amare Victor. Credeva che quello fosse amore. Cos'altro poteva essere? Lo era sicuramente. Non ammetterlo non lo rendeva meno reale, anche se a entrambi piaceva fare quello stupido gioco. Non era convenzionale, a volte era terribile e doloroso, delirante e triste. Ma era amore. Doveva esserlo, per forza.

“Sherlock...” - lo guardava adesso con tristezza ma sorrideva leggermente. “Sei un concentrato di sentimenti repressi e paure. Temo che ti mangeranno vivo senza di me.”

Sherlock aggrottò la fronte poi scoppiò a ridere, meschino. “Io un concentrato di sentimenti repressi e paure? Io? E tu allora? Vai in giro con quel sorriso demente stampato sulla faccia, ti fai amare da tutti lasciandogli credere di essere la persona più bella di questo mondo, e invece sei pazzo da legare, schiavo della tua testa.”

“E del mio cuore.” - gli rispose, guardandolo dritto negli occhi. “Fa male. Proprio qui.” - si strinse lo stomaco. “Tu mi fai male Sherlock.”. Si staccò dal muro subito dopo, fece un passo ed uscì sotto la pioggia restando fermo, gli occhi chiusi e la testa rivolta al cielo.

Lo faceva sempre. Quando aveva voglia di pensare. Quando non voleva pensare a niente. Quando aveva appena distrutto decine di tele o fatto a pezzi Sherlock con le parole. Camminava sotto la pioggia, o correva, o se ne stava completamente fermo. “Sto lavando la mia coscienza”, aveva detto a Sherlock la prima volta che lo aveva trovato seduto su una panchina sotto il temporale. Sherlock si era seduto con lui e in silenzio, aveva aspettato che fosse pulito.

 

Anche tu mi fai male, Victor.

 

“Che cosa hai fatto questa volta? Eh?”- Sherlock si era staccato dal muro e si era voltato verso di lui alzando un po' la voce affinché lo sentisse, anche sotto la pioggia battente. Victor sorrise appena senza rispondere. Sherlock fece un passo avanti afferrandolo per un braccio e trascinandolo di nuovo sotto l'arco di pietra.

“Che cosa hai fatto.”

 

 

La prima e ultima volta che aveva usato quel tono, aveva trovato Victor tra le braccia di un anonimo studente dell'ultimo anno, un tizio del tutto ordinario, a mala pena passabile. Un fantasma tra mille. Li aveva guardati mentre si baciavano contro la porta del laboratorio di pittura quando ormai le lezioni erano finite e i corridoi erano praticamente vuoti. Victor si era accorto di lui, ma non aveva smesso quello che stava facendo. Lo aveva guardato invece con tono di sfida mentre aveva le sue labbra sulla faccia di un altro. E Sherlock se ne era andato camminando lentamente, così come era arrivato. Impassibile.

I giorni seguenti erano stati terribili. Sherlock aveva suonato il violino per ore, interminabili ore. Victor cercava in tutti i modi di avere un contatto con lui, ma inutilmente. Sherlock non lo degnava nemmeno di uno sguardo. Era come se fosse invisibile. Invisibile come quel tizio dell'ultimo anno. E sapeva che l'indifferenza era per Victor la punizione più severa. Insopportabile. Lui che aveva bisogno del confronto, della guerra, dei lividi, delle urla. E invece niente. Sherlock non gli avrebbe permesso niente di tutto ciò. Non gli avrebbe permesso di sfogarsi alla sua maniera. Non questa volta. Il quarto giorno di indifferenza più totale, Victor si era messo in piedi, sotto la finestra dove Sherlock suonava di solito, e vi era rimasto per nove ore, immobile, anche dopo che era iniziato a piovere. Dopo le prime due ore, anche gli altri studenti avevano smesso di chiedergli perché fosse lì. Ormai lo sapevano tutti. Rispondeva solo “Sto chiedendo scusa”. Nemmeno il professore di storia dell'arte, che Victor adorava, era riuscito a farlo smuovere. Sherlock lo guardava dalla finestra e si stupiva di non provare niente. Ma non sapeva dire se non provasse niente o se non provasse più niente. Alla fine, quando erano passate quasi nove ore, Sherlock aveva provato qualcosa che assomigliava alla pietà, aveva aperto la finestra e gli aveva fatto cenno di salire. Per Victor fu come tornare a respirare dopo quattro giorni di agonia in cui era quasi affogato. Era entrato nella stanza completamente fradicio, gocciolando sul parquet e tremando di freddo. Aveva le labbra viola e a Sherlock ricordava un quadro bellissimo che era stato distrutto in una lunga notte insonne. Si era voltato verso la finestra e aveva iniziato a suonare, di nuovo. Victor rimase in piedi a lungo prima di riuscire a dire qualcosa, ma quando stava per aprire bocca Sherlock lo aveva interrotto.

“Ti sei lavato la coscienza?”- aveva smesso di suonare e teneva il violino e l'archetto nelle mani lungo i fianchi. Non si era voltato.

“Sherlock...”- aveva fatto un passo avanti, avvicinandosi pericolosamente a lui.

“Non ti avvicinare. Perché se mi fai innervosire, potrei anche ucciderti.”- e Victor sapeva che non stava scherzando. Si fermò nel punto in cui era, al centro della stanza, e non si mosse.

“Mi dispiace.”

“Che cosa hai fatto.” - Sherlock era tremendamente freddo e distante e Victor ne era spaventato a morte.

“Mi dispiace.” - ripeté.

“Qual è il tuo problema, Victor?” - Sherlock adesso si era voltato, ma non lo stava guardando. Si era avvicinato al letto per rimettere il violino nella sua custodia con molta cura, lentamente. Victor guardava quelle mani e non desiderava altro che farsi toccare.

“Dimmi, qual è? Un tizio dell'ultimo anno con pessimi voti, intelligenza inferiore alla media, una fidanzata di copertura, e nessun interesse di nessun tipo. Direi che potevi scegliere meglio.”- stava sorridendo scuotendo la testa. -“Io avrei fatto di meglio.” - aveva aggiunto poi prendendo la custodia e portandola verso la scrivania. L'appoggiò lì e continuò a fissarla. -“Posso mostrarti come si fa, se vuoi.”

“Sherlock. Mi dispiace. Smettila di parlare così e potresti guardarmi per favore? Non sopporto questa tua indifferenza.”

“Quello che sopporti o non sopporti non credo sia un problema che mi riguardi.”- fece una breve pausa- “La verità, Victor, è che credo non mi importi niente. Non mi è importato quando ti ho visto, non mi è importato mentre davi spettacolo qui sotto, e non mi importa adesso che sei qui. Questa è la verità.”

“Ecco qual è il mio problema.” - si mosse per sedersi sul letto. Si prese la testa fra le mani e sembrava disperato. -“Tu sei il mio problema Sherlock.”

“Quindi tu lasci che chiunque ti metta le mani addosso e la colpa sarebbe mia? Un po' eccessivo, anche per te, non trovi?”

“Lo vedi come sei?Lo vedi? Avevo solo voglia di provare qualcosa che fosse...normale.”

Sherlock si mise a guardarlo per la prima volta da quando era entrato. Si reggeva la testa fra le mani, disperatamente, seduto sul letto che tante volte avevano condiviso e sul pavimento gocciolava acqua dai capelli e qualche lacrima silenziosa.

“A volte non sei stanco di tutto questo, Sherlock? Non sei stanco di noi? Dei drammi? Dell'odio. Di questo legame che abbiamo. Questa cosa...E' che a volte è troppo. Mi fa male. Tu mi fai male Sherlock.” - stava piangendo.

Sherlock continuava a guardarlo senza dire niente.

 

Anche tu mi fai male, Victor.

 

E per la prima volta pensò che aveva ragione. Erano male assortiti. Erano pessimi singolarmente e insieme erano anche peggio. Si completavano a vicenda, ma nei loro aspetti più bassi e meschini. Non avevano una relazione sana. E questo era chiaro agli occhi di tutti.

Eppure.

Eppure erano così perfetti l'uno per l'altro. Nessun altro avrebbe mai potuto incastrarsi in quel tipo di relazione, nel modo in cui loro due e solo loro due, avevano scelto di amarsi. Musica di violino e colori accesi, in un legame disperato e fortissimo.

“Si, sono stanco.”- rispose Sherlock, dopo qualche minuto di silenzio occupato solo dal rumore della pioggia sui vetri. -“Puoi andartene adesso?”- gli chiese, come se avesse domandato che ore fossero. Sherlock non si lasciava mai andare a grandi esternazioni. Quello era il ruolo di Victor.

“Vuoi che me ne vada?” - Victor si voltò verso di lui. Era terrorizzato.

“Mi sembra che abbiamo appena appurato di essere stanchi. Quindi a meno che tu non abbia altro da dire, gradirei che te ne andassi. Devo suonare.” - e mentre lo diceva aveva aperto di nuovo la custodia del suo violino.

“Sherlock?”- si era alzato e non sembrava importargli dei precedenti avvertimenti. Si era diretto verso di lui afferrandolo per un braccio e costringendolo a girarsi. -“Mi stai dicendo che sei disposto a buttare tutto così? Senza combattere?”.

Sherlock aveva strattonato il braccio per fuggire alla sua presa. -“Non mi devi toccare.” - gli aveva intimato. -“E per la cronaca sei tu quello che stava con un altro per provare qualcosa di normale. Quindi no, non ho nessuna intenzione di combattere.” - disse accompagnando l'ultima parola con un gesto della mano, come a sminuirla.

Davanti alla realtà, così chiara e decisa, Victor perse completamente la ragione.

“Io non posso perderti così. Che cosa stai dicendo?” - era indietreggiato di un paio di passi e guardava Sherlock quasi shockato da quelle parole così risolute. -“Tu non puoi. Io non...” - aveva di nuovo le mani tra i capelli ed era finito seduto malamente sul letto, nello stesso posto di poco prima, dove le lenzuola erano completamente bagnate.

Sherlock conosceva perfettamente i cambi di umore di cui Victor era capace. Ma questa volta si scoprì ad esserne confuso.

“Victor tu devi aiutarmi a capire. A capirti. Perché a volte non ci riesco. Te lo giuro.” - si era seduto sulla sedia della scrivania. Sembrava sfinito.

Victor piangeva disperatamente adesso. -“Mi dispiace, Sherlock. Mi dispiace. E' stata una cosa stupida, lo sai che sono un idiota e sono pazzo. Completamente. Ma tu devi perdonarmi. Tu devi farlo. Io non posso perderti. No, io non posso.” - si era alzato in piedi e camminava avanti e indietro ripetendo “Io non posso” e sembrava che ormai stesse parlando da solo. Sherlock lo guardava e nonostante tutto non riusciva a fare a meno di chiedersi cosa avesse fatto per meritare quella creatura. Quale colpa stesse espiando. O quale buona azione avesse compiuto per averlo ricevuto in dono. Non riusciva a decidere. Alla fine si era alzato e l'aveva raggiunto per fermarlo. Stava delirando e non poteva permettere che iniziasse una delle sue discese all'inferno che lo avrebbe torturato per giorni. Lo aveva afferrato per le braccia costringendolo a fermarsi.

“Adesso basta. Adesso devi fare un bagno caldo e asciugarti. Io ti aspetterò qui.”

Victor lo guardava con gli occhi ancora pieni di lacrime e lo sguardo perso. Cercò di baciarlo ma Sherlock si ritrasse.

“No, non mi va adesso.”

Victor abbassò le spalle e la testa sul petto, disperato ma in fondo più ottimista.

Quella notte avevano dormito nel letto di Sherlock, che però non si girò mai verso di lui. Non lo toccò mai. E Victor pianse tutte le sue lacrime. La mattina dopo Sherlock si era svegliato per primo e lo aveva guardato dormire per un'ora. Poi gli aveva accarezzato i capelli e tutto era iniziato da capo, di nuovo.

Neanche quella volta si dissero ti amo.

E come fosse una routine ormai stabilita, a settimane alterne Victor o Sherlock decidevano che era tutto troppo e che faceva troppo male. E che dovevano finirla. Ma poi, non finiva mai davvero.

 

 

 

Victor tornò serio guardando Sherlock negli occhi. Si tenevano per le braccia.

“Non ho fatto niente. Forse sono pazzo, ma non stupido. Ho imparato.”

“E allora che cosa c'è questa volta.”

“Lo sai.”

“Forse non lo so. Dillo.”

Victor sorrise tristemente e non rispose.

“Quando?” - gli chiese Sherlock stringendo un po' di più il suo braccio.

“Fra due giorni.”

Sherlock prese un respiro profondo, si staccò da lui e si appoggiò di nuovo al muro di pietra. Stava riflettendo.

“Mi trasferisco a Parigi. Sotto gentile pressione de ma famille.” -disse con una nota di disprezzo.

Scese il silenzio. Sherlock non disse niente. Ora ogni sensazione, ogni tassello era andato al proprio posto. Non gli interessava sapere il perché, né come. Non gli interessava niente. La sua attenzione era tutta concentrata nello stomaco. Faceva male, più del solito. Stavolta era vero.

“Sherlock...”- Victor si avvicinò a lui posando la testa sulla sua spalla. Il naso contro la sua guancia. Sherlock era immobile. -“...dimmi qualcosa..”

Ma non disse niente.

Allora Victor si mosse leggermente e lo baciò. Un bacio, due. Fu molto dolce e triste. Fu come dirsi addio, come quella mattina, ma stavolta consapevolmente.

“Sapevamo che sarebbe andata a finire così. Non siamo mai stati destinati l'uno all'altro.” - disse Sherlock dopo un po'. Non c'era rammarico nelle sue parole.

“Non mi aspettavo che ti mettessi a piangere, in effetti, anche se un po' ci speravo.” - rispose Victor, sorridendo appena.

“Per favore.”

Si guardarono per un momento interminabile.

“Scegli bene le ultime parole Victor. Perché questa, questa è davvero l'ultima volta. Non tornerò indietro. Nemmeno quando tornerai. Io e te, siamo nati per morire, oggi”.

Ci fu un lungo silenzio. Victor avrebbe voluto piangere e dirgli che lo amava, come non aveva amato nessuno mai. Ma non lo fece, e disse soltanto:

“A volte l'amore non basta.”

 

 

***

 

 

“Quindi? E' almeno un sette oppure no?” - John aveva alzato lo sguardo verso Sherlock che era rimasto in silenzio a fissare lo schermo del suo telefono.

“In realtà è un caso già chiuso.” - rispose, mettendolo via.- “Ti amo John, lo sai?”

“Certo che lo so, me lo dici ogni giorno.” - rispose sorridendo, alzandosi. “Preparo un tè”.

 

 

 

Fine.

 

 




Nota dell'autrice:

Avevo bisogno di una pausa dalla vita e da A broken man. Ed è venuta fuori questa storia grazie a Twitter, a Lana Del Rey e a una playlist di Spotify che si chiama Sad music (tutto un programma insomma). La canzone che John fa ascoltare a Sherlock nella prima parte del racconto si chiama “Even if” di Ella Eyre. Per l'ultimo pezzo invece, ringraziamo “Born to die” di Lana. Non lo so, spero che vi piaccia.

   
 
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