IL GIARDINO NERO
“(…). Sapete che il
vostro governo spende milioni di dollari ogni anno
a negare questa verità
in capitali stranieri assumendo tutti i tipi di società di lobbing
e istituendo cattedre
presso le università per ricreare la verità a suo piacimento?
Sapete come ci si sente
ad essere un armeno? Di che esperienza dolorosa si tratta?
Non è sufficiente che
io sia il nipote di sopravvissuti di una tragedia orribile della Storia?
Devo combattere la
propaganda e la corruzione internazionale per riconquistare la giustizia?”.
Serj Tankian, Lettera
al popolo turco.
Città di Vanadzor,
regione storica dell’Armenia.
Mattino del 7
dicembre 1988.
A volte, ci sono momenti in cui tutto nelle nostre vite è
destinato a cambiare, radicalmente e per sempre.
Un destino spietato, quello umano; un destino che non fa
sconti a nessuno.
Questo Vardan lo sapeva, da bambino intelligente quale era.
Amava studiare, e anche quel mattino era a scuola, come durante tutti i giorni
precedenti.
Leggere e scrivere era qualcosa di davvero importante ed
essenziale per lui, giacché sognava, un giorno, di diventare un grande
letterato, così come lo erano stati tantissimi altri suoi connazionali. Adorava
inventare storie e scrivere piccoli racconti, in cui metteva alla prova i
destini dei suoi personaggi, frutto della sua fervidissima immaginazione.
Quelli prima della catastrofe furono istanti che gli rimasero
impressi per tutta la sua restante vita.
Stava scrivendo una storia, come tema da consegnare alla
maestra. Era una delle poche cose che gli piaceva fare; non era tanto bravo con
i numeri, e quindi in matematica, tuttavia se la cavava bene con le lingue. Ciò
non rendeva felice i suoi genitori, che sognavano che un giorno riuscisse a
diventare un ingegnere, un uomo in grado di abbellire la patria dopo
settant’anni di incolore dominazione sovietica.
I comunisti tuttavia non apprezzavano ciò che poteva attirare
l’attenzione, e soprattutto le persone talentuose.
Vardan, che della vita era ancora poco esperto, aveva però
già avuto modo di osservare i grandi palazzoni tutti identici che erano stati
costruiti dai sovietici per alloggiare le famiglie di operai armene. Avrebbe
voluto donare un tocco di colore a quel grigiore che dominava le città della
sua terra, ma era consapevole di non poter fare molto.
Anche a scuola approfondiva un percorso di studi voluto e
preparato dai sovietici, che includeva la lingua russa e tante altre discipline
ben poco utili ad un bambino armeno.
Il suo sogno era, per l’appunto, scrivere storie; scriverle
per far vivere tante cose belle ai suoi personaggi, e colorare e creare il suo
mondo come meglio preferiva. Sapeva che anche quello era un percorso non
facile, giacché anche la maestra era tenuta a censurare dai compiti in classe
qualunque frase potesse sembrare un’allusione alla politica o al regime, quindi
sarebbe dovuto stare molto attento con la penna.
Tanti altri scrittori del suo popolo, che avevano divulgato i
loro scritti e le loro idee, erano stati portati via e non avevano mai più
fatto ritorno a casa. In alcuni casi, pure le loro stesse famiglie erano state
fatte sparire.
Vardan diffidava dei comunisti e dei fedeli al regime
sovietico; stava sempre attento, poiché anche i bambini erano a rischio.
Chiunque attirava l’attenzione e potesse sembrare un po’ fuori dagli schemi
imposti lo era.
Comunque, quella era una mattina splendida, seppur gelida, e
nessuno avrebbe potuto frenare la sua immaginazione. Scriveva con la matita,
leggermente, in modo da poter poi cancellare durante la rilettura ciò che
avrebbe potuto urtare la maestra. Tuttavia, la prima copia del suo scritto era
solo e soltanto sua, ed avrebbe continuato a vivere immacolata nella sua
memoria, in attesa di un giorno in cui la libertà di espressione non sarebbe
più stata solo un lontanissimo ed esotico desiderio.
Infatti, anche in quel momento le strade della città erano
battute da manifestanti, a piedi; a nessuno dei bambini però era concesso
guardare dalle finestre o porre domande, pena delle severe bacchettate sulle
dita e la sospensione dalla frequentazione della scuola.
Vardan era a testa bassa sul suo foglio, come gli altri suoi
compagni, cercando di comportarsi come se nulla fosse. In fondo, tutti loro
avevano già assistito a scene del genere, e alcuni adulti avevano parlato
nonostante fosse quasi un tabù affrontare il tema della politica.
Quelli erano cortei portati avanti dai lavoratori della loro
Nazione, scioperanti, ormai in rotta con i comunisti. Cercavano l’autonomia
dell’Armenia, e la fine della cortina di ferro, che era scesa anche su tutto il
Caucaso ormai da tanto tempo. Troppo tempo.
Quando il piccolo udiva le voci delle persone che
protestavano nelle strade limitrofe alla scuola, non poteva far a meno di
lasciarsi andare per qualche istante; anche se non poteva alzare lo sguardo e
osservarli, immaginava i manifestanti arrabbiati, i loro visi distorti dalla
disperazione.
Anche suo padre aveva lavorato giorno e notte, per oltre dodici
ore al giorno, presso la centrale nucleare vicina al lago Sevan. Ora stava
male, si era ammalato, come tanti suoi colleghi.
Per chi restava a casa non c’erano cure e i comunisti si
limitavano a rimpiazzarli senza neanche pensarci un attimo. I figli degli
operai della centrale nucleare e di chi ci abitava vicino nascevano deformi,
per morire presto. Chi lavorava nelle tante fabbriche non stava meglio; i
salari erano scarsi, non si riusciva ad arrivare alla fine del mese, e tutti
soffrivano la fame, e si ammalavano spesso e volentieri. I morbi erano
incurabili o sconosciuti.
I russi stavano avvelenando l’Armenia, rendendola schiava, ed
ora il suo popolo era insorto.
Quella volta, Vardan si lasciò andare ulteriormente e provò
ad immaginare cosa realmente ci fosse al di là dell’Unione Sovietica; era molto
curioso, e un giorno gli sarebbe piaciuto scoprirlo. I nonni e i genitori gli
avevano spiegato, a bassa voce e con la promessa di non dirlo a nessuno, che
oltre la cortina di ferro c’erano Stati indipendenti e dotati di un loro
governo, dove tutti avevano dei diritti e si stava bene.
C’era cibo a volontà e le persone si vestivano tutte in
maniera simile o uguale, all’americana. Secondo la maestra, invece, era errore
anche solo accennare al mondo al di là dei Soviet. Meglio non farlo proprio.
Esisteva un’unica realtà, ed era quella corretta che la Madre
Russia imponeva.
Vardan non aveva mai amato i comunisti, né i loro ideali;
nella sua famiglia, nessuno li seguiva per davvero, soprattutto da quando il
padre stava poco bene, così che, senza poter contare sulle costosissime
medicine o sulle visite mediche, praticamente inaccessibili ad un semplice
operaio, si poteva solo confidare in Dio.
Le messe erano sospese ormai da tanto tempo, nessuno andava
in chiesa, se non la sua mamma, di nascosto. Ci andava tutte le mattine,
all’alba, quando nessuno poteva vederla. Là l’impavido sacerdote le impartiva
una frettolosa benedizione, a lei e anche al bimbo che portava in grembo. Poi,
tornava a casa, sazia di preghiere, e le condivideva con il marito allettato.
Vardan temeva che il suo fratellino non sarebbe mai nato,
anche quella volta, sicché già in precedenza la mamma pareva fosse rimasta in
dolce attesa, ma alla fine erano stati falsi allarmi.
Così, leggermente, turbato, il piccolo continuava a scrivere
il suo tema con decisione altalenante, la cui attenzione era continuamente
attratta sia dall’allettante foglio bianco, e allo stesso tempo da ciò che
stava accadendo fuori ed attorno a lui… era come se, nella sua infinita
piccolezza, già percepisse il grande peso del mondo degli adulti.
Now, what do you own the world?
All’improvviso; fu questione di un attimo.
Vardan si ritrovò a ondeggiare, e poi, vittima del panico più
cieco e ancestrale, gettò via la matita e si infilò sotto al banco, come gli
era stato insegnato durante le esercitazioni.
Il terremoto(1) parve durare in eterno.
La scossa fu violentissima, il bambino quasi non si rese
conto di quel che stava accadendo, quando tutt’attorno a lui regnava il caos
più assoluto. Ormai, a dominare quella mattinata, non erano più i canti
intonati e gli inni patriottici dei manifestanti, bensì le grida di puro orrore
e di panico.
Ad un certo punto, il soffitto della scuola cedette;
cominciarono a cadere calcinacci ancora quando la prima, lunghissima scossa non
aveva avuto fine.
Piangendo, Vardan si ritrovò a rifiutare le regole, e spinto
dall’istinto innato di sopravvivenza, si gettò di corsa verso la grande
finestra dell’aula, ormai totalmente in frantumi. Alcuni compagni si stavano
già lanciando giù, nel disperato tentativo di salvarsi dal crollo imminente
dell’edificio.
Ignaro di dove fosse la maestra, ovvero l’autorità era
affidato durante quelle ore, non pensò nemmeno un attimo alla possibile e
pesante punizione per aver disobbedito alle regole, e si gettò anch’egli dalla
finestra.
Erano al piano terra, la caduta fu lievissima.
Si buttò giusto in tempo, poiché un solo istante dopo la
scuola crollò e rovinò su sé stessa.
Ricoperto dalla polvere biancastra dei calcinacci, il bambino
rimase imbambolato per un attimo, ad osservare la devastazione che regnava
sovrana attorno a lui; infatti, erano crollati anche tutti gli edifici
circostanti.
La polvere che si era innalzata gli offuscò la vista ancora
per un periodo di tempo che parve lunghissimo, e rimase così in piedi a
guardare la fine di tutto quello che i suoi giovani occhi avevano conosciuto
fino a quel momento.
Quando il pulviscolo fu portato via dalla brezza delle
montagne, Vardan poté per davvero constatare quanto la sua città natale fosse
stata devastata; pareva non esserci più un solo edificio rimasto in piedi. Il
terremoto, con la sua potenza improvvisa, aveva cancellato tutto.
How do you own disorder, disorder…
Il suo primo pensiero, dopo gli attimi di spavento che
l’avevano lasciato muto e tremolante, fu rivolto verso i genitori.
A passo malfermo, cominciò a muoversi verso casa sua,
d’altronde la scuola non esisteva più. Ovunque regnava inizialmente un silenzio
surreale, attorno a lui non c’era nessuno. Neppure i tre o quattro compagni di
classe che erano riusciti a fuggire dalla finestra prima del crollo della
scuola.
Solo dopo un po’ si cominciarono ad udire urla, lamenti e
gemiti provenienti da sotto le macerie. Qualcuno di vivo c’era ancora, ma il
piccolo aveva in mente solo i suoi genitori e la sua famiglia. Non fermò la sua
marcia neppure quando una mano sbucò dalle rovine di una casa, annaspando alla
ricerca di un appiglio o di qualcuno che potesse offrire aiuto.
Con le lacrime agli occhi, e un po’ confuso e disorientato
per via della situazione davvero drammatica che stava affrontando, riuscì a
raggiungere il punto dove si ergeva la sua casa. Era un grande palazzone
condiviso da una gran moltitudine di famiglie operaie, anch’esso totalmente
collassato su sé stesso. Al suo fianco, però, gli altri due immani ed identici
edifici erano stati più fortunati, giacché erano rimasti in piedi, caso
alquanto unico, ma si erano aperti in due.
Quella che sembrava una profonda ferita solcava entrambe le
facciate, ed aveva diviso stanze e tutto ciò che contenevano. Parevano prossimi
al crollo.
Vardan si buttò con vigore verso le macerie, e chiamò i suoi
genitori. Nessuna risposta.
Era destinato a non riceverne mai una.
Presto un’altra scossa fece tremare il suolo, ed uno dei due
palazzoni rovinò a terra, generando l’ennesima nube di polvere, mentre l’altro
parve ricompattarsi, come per miracolo.
Il bambino rimase accucciato al suolo senza temere più nulla;
era rimasto solo, sapeva che mamma e papà erano in casa, e con loro anche il
fratellino ancora nel grembo materno. Quel silenzio che regnava sotto le
macerie era qualcosa di così ridondante che lo confondeva, come la
consapevolezza di aver perduto tutto.
Calò la notte, ancora niente. Qualche scossa, di tanto in
tanto.
Qualche altro superstite era tornato, con il lento passare
delle ore, ma udendo a sua volta il silenzio che regnava in quell’angolino di
città, si limitò a continuare a piangere e ad andarsene.
Solo Vardan restava.
Now, somewhere between the sacred silence,
sacred silence and
sleep…
Si addormentò solo verso il mattino successivo, quando non
aveva più lacrime da versare.
Quando tornò a svegliarsi, non era più solo; al suo fianco,
una bambina si era distesa e si era accucciata contro il suo corpo. Faceva
molto freddo, non era semplice affrontare il rigido inverno all’addiaccio.
Vardan si volse verso la piccola, e se anche in un primo
momento ebbe l’istinto di spintonarla via, lontano da lui, poiché voleva
custodire il suo tormento solo per sé, poi si ritrovò ad abbracciarla.
Lei era Sophie, la figlia dei vicini di appartamento, con i
quali aveva giocato alcune volte. Anche se tra loro non c’era mai stata alcuna
particolare amicizia, essa parve sbocciare all’improvviso, con la forza del
terremoto che aveva distrutto per sempre la loro città, le loro vite e le loro
famiglie.
La piccola aveva un anno in meno di lui, e si ritrovò a
provare un forte istinto protettivo, come se fosse stata una sua sorellina. La
strinse forte a sé.
Passarono in fretta i giorni.
Vardan aveva creduto che il terremoto avesse distrutto solo
la sua città, invece sembrava che il caos regnasse ovunque nel territorio
armeno.
Disorder, disorder, disorder…
Lui e Sophie non si erano mai parlati, erano diventati muti
spettri che aleggiavano sopra una realtà distrutta, dove una gran moltitudine
di cadaveri era sepolta solo da uno strato di calcinacci e mattoni. Animali
rimasti senza padrone scorrazzavano ovunque, tanti altri feriti si lasciavano
morire sulle macerie.
Era stato messo in piedi in fretta un grande tendone, un
centro di raccolta dove i sopravvissuti si recavano, in attesa di saperne di
più a riguardo di chi non poteva presentarsi. Molte persone erano ferite, tante
altre ancora vive e intrappolate dove nessuno poteva raggiungerle e salvarle.
I due bambini, tenendosi sempre per mano, provarono a
lasciare la città, nel loro infantile sogno di imbattersi poi in qualche altro
centro abitato risparmiato dalla catastrofe, quasi fossero stati protagonisti
di una sfortunata favola. Tuttavia, il gelo e la neve li costrinsero a tornare
indietro in fretta.
Il centro di raccolta fu raggiunto, circa tre o quattro
giorni dopo la prima e devastante scossa, da numerosi militari stranieri;
nessun altro si era mosso alla volta di Vanadzor.
Sophie e Vardan erano rimasti uniti, ma aggregati ad un
gruppo più ampio di bambini che al momento non avevano più alcun parente che
potesse prendersi un minimo cura di loro. Erano orfani. E gli orfani piacevano
tanto ai militari stranieri; Vardan ricordava quegli uomini buoni, che gli si
avvicinavano con il sorriso sulle labbra e scattavano foto. Sapeva che erano
militari solo perché le divise che indossavano erano impossibili da non
riconoscere, d’altronde lui le loro lingue non riusciva proprio a capirle, ma
donava sempre un sorriso a chi era buono nei suoi confronti.
Gli mancavano tanto la mamma e il papà, ma non aveva smesso
di vivere, anche se aveva versato tante lacrime.
Più il tempo passava, più gli orfanelli erano certi che
nessuno dei loro familiari fosse ancora vivo.
Gli stranieri e gli uomini armeni superstiti avevano scavato
per giorni tra le macerie, con scarsi risultati, se non tanti corpi rigidi e
maciullati che venivano estratti solo per essere avvolti in fretta in dei teli
chiari, come se fossero stati sudari. Vardan non voleva vedere certe scene, e
si copriva gli occhi con le mani.
Sophie gli restava sempre appresso, non lo lasciava mai. La
bambina non aveva mai parlato, dopo il terremoto.
Agli occhi di tutti, era solo Sophie la muta.
Erano giunti numerosi giornalisti dall’estero, tutti
interessati ai bambini, soprattutto, e alle loro condizioni; il piccolo si era
lasciato filmare assieme ai suoi compagni mentre imprimevano finti sorrisi sui
loro visini smunti, costretti dagli operatori a mostrarsi naturali nonostante
il trauma subìto. Gli stranieri adoravano mandare video nelle loro patrie,
quelle terre lontane di cui nessuno sapeva più di tanto.
Intanto, i giorni scorrevano veloci, e i superstiti non
avevano cibo e dovevano lottare contro il freddo estremo di un inverno
implacabile, sempre disposto a far la voce grossa nel Caucaso.
When I became the sun, I shone life into the man’s hearts…
Giugno 1993, città di Sevan, Repubblica d’Armenia
Why don’t presidents fight the war?
Why do they always send the poor?
B.Y.O.B., System of a Down.
Can you feel the their haunting presence?
Liar! Killer! Demon!
Holy Mountains, System of a Down.
Gli stranieri se n’erano presto
andati. Erano tornati nelle loro Nazioni così lontane, così lungimiranti.
Vanadzor era stata pressoché
abbandonata dai suoi abitanti, nei mesi successivi alla tragedia, giacché era
tutto distrutto, le scosse continuavano quasi senza sosta e il freddo era
troppo intenso da sopportare.
Molti dei superstiti, con l’arrivo
della primavera, si erano dispersi un po’ in tutta l’Armenia, che ormai era
diventata la patria libera che tutti avevano sempre desiderato. I sovietici se
n’erano andati per sempre, e con loro era sparito anche l’obbligo di ossequiare
i valori del comunismo e di non parlare di politica.
Erano finiti i tempi in cui i
militari russi facevano irruzione nelle case di ipotetici sospettati, e le
persone venivano portate via per sparire per sempre. L’oppressione estrema che
il popolo armeno aveva sopportato per quasi un secolo era finita, ma restava
una Nazione senza più nulla.
Quando al campo allestito per gli
orfanelli non era giunto più cibo, e gli stranieri erano scomparsi, andandosene
e portando con loro tutte le riprese e le foto fatte, era svanita ogni
speranza. Per bere, si scioglieva la neve in grandi pentoloni, alimentati a
fatica da fuochi scaturiti da legna umida e verde; non c’era più energia
elettrica, né gas.
Per mangiare, una volta finito il
cibo in scatola, si cacciava quel che si trovava nei paraggi. Qualche gallina
era sopravvissuta, così come qualche maialino. Finite anche le prede vive, si
prospettava solo la morte di stenti.
Tutti si erano dispersi, tranne
quelli che avevano scelto di restare e di provare a ricominciare a vivere,
creando piccoli orti e continuando a curare gli alberi da frutto della campagna
circostante, ma si trattava perlopiù di adulti e famiglie intere, che non
avevano affatto voglia di condividere il loro sudato pasto con bambini rimasti
soli.
Vardan aveva preso per mano la sua amichetta
muta, e se n’erano andati seguendo i sentieri di montagna, che nelle vallate
erano più agevoli da percorrere e da seguire, inoltre molti di essi non erano
stati rovinati dai crolli delle pareti rocciose.
Durante i mesi di quell’estate breve,
i due erano giunti, quasi per caso, a Sevan. Lì, sulle sponde dell’immenso ed
omonimo lago, avevano trovato una comunità umana ancora organizzata, dove si
lavorava già alle ricostruzioni e giungevano aiuti umanitari dagli altri Paesi.
Inoltre, un sacerdote della cittadina
ogni mattino si recava ad accogliere i bisognosi che giungevano in cerca di
pietà e di aiuto. Era un tale Ter Hrand, un omone paffuto e simpatico. I due
bambini silenziosi erano stati subito notati dal prete, che aveva imparato a
riconoscere gli stranieri appena arrivati, spaesati e stanchi.
Accolse con calore i due orfanelli, e
li condusse col sorriso sulle labbra nella sua chiesa, dai grandi battenti
aperti. Al suo interno, tantissimi bambini come loro si erano riparati e
venivano garantiti pasto e protezione dal mondo esterno.
Così, Vardan e Sophie avevano trovato
una casa e un rifugio sicuro.
Erano ormai passati ben cinque anni
da quando erano giunti fin lì, e non erano più bambini; il ragazzo era
cresciuto in altezza, ormai si sentiva un uomo, mentre la ragazzina restava
fragile, e… muta. Non aveva più parlato, dopo il sisma che le aveva portato via
ogni cosa. Vardan sapeva che un tempo aveva parlato ed era stata una bambina
vivace, per questo tante volte si stringeva a lei e cercava di farla uscire dal
suo mesto guscio. Senza molti risultati.
Sophie capiva, annuiva o negava con
il capo quando le venivano poste domande, e i
suoi occhi si abbassavano con grande e sincero pudore al fine di non
incontrare lo sguardo dell’interlocutore, eppure non c’era verso di farla
parlare.
Il giovane aveva imparato ad
apprezzarla così com’era, non si staccava mai da lei. Entrambi erano il frutto
dell’Armena ferita dal sisma, quel terremoto implacabile che ancora, a distanza
di anni, a volte faceva sobbalzare tutti nel cuore della notte, giacché qualche
piccola scossa tornava a far visita ai superstiti.
Allora i due ragazzi consunti e resi
scheletrici dalla paura si abbracciavano, si stringevano forte fintanto che le
oscillazioni del terreno si esaurivano. In chiesa ondeggiava tutto, ma non
crollava né cadeva mai nulla; pareva un edificio davvero sorretto e protetto
dalle mani sagge di Dio.
Quando il giorno tornava ad
illuminare il mondo, le paure della notte e dei risvegli a causa delle scosse
improvvise si eclissavano, e Vardan si dimostrava forte, come se nulla fosse
mai accaduto, eppure a volte mentre camminava gli sembrava che la terra sotto i
suoi piedi tremasse. Ed allora alzava in fretta lo sguardo, alla ricerca
frenetica della conferma che stava avvertendo il giusto. Spesso, per fortuna,
si trattava solo di suggestione.
Tuttavia, nonostante l’incubo
continuo e costante del terremoto, a Sevan la vita era serena, nonostante
qualche digiuno di troppo e la continua mancanza di luce e gas. C’era comunque
la legna, per riscaldarsi.
I giorni trascorrevano implacabili e
tutti uguali, senza orari, senza nulla se non quel vuoto che i due orfani
avvertivano incessantemente nei loro cuori, e che cercavano di colmare con
abbracci e tenerezze varie, condotte lontano dagli occhi degli altri, affinché
nessuno potesse additarli o ridere di quelle che potevano apparire futili ed
inutili smancerie.
Erano anni duri, anzi, durissimi. Non
solo la neo indipendente Armenia era un ammasso di macerie dalle quali si
alzavano ancora nubi di polvere, quando soffiava il vento impetuoso dalle vette
ghiacciate del Caucaso, ma era pure vittima della guerra.
Vardan aveva seguito distrattamente
le vicende riguardanti il conflitto in corso con gli azeri(2); a lui non
importava molto. Quand’era bambino e i manifestanti volevano rovesciare
l’ingiusto regime sovietico gli restavano in mente i cortei e le manifestazioni
che si svolgevano ovunque nella sua città natale, e anche se cercava di non
guardare, poiché era vietato andare contro le regole ed esporsi contro la
politica russa, ciò l’aveva segnato fin da subito.
La guerra invece gli pareva troppo
lontana, seppur il conflitto si stesse consumando al di là del lago Sevan, poco
distante dalla riva opposta di quel grande bacino d’acqua dolce.
Almeno, nell’omonima città, l’acqua
non mancava mai. Ed allora i ragazzi pensavano a svagarsi, e lasciavano da
parte un mondo che forse avrebbe avuto bisogno di un loro intervento per
migliorare.
Vardan aveva sedici anni il giorno in
cui fu richiamato assieme agli altri orfanelli dal sacerdote, che fece loro la
ramanzina.
“Voialtri giovani state tutto il
giorno a giocare e a gironzolare. I vostri genitori si sono battuti per la
libertà dai comunisti, e l’obiettivo è stato raggiunto; ma Dio ci ha voluto
mettere alla prova, con questo terremoto. Ora, date l’esempio e rimboccatevi le
maniche, perché è giunto il momento che l’Armenia risorga dalle sue rovine”,
profetizzò, a voce molto alta.
Ter Hrand non era mai stato troppo
severo coi suoi ragazzi e li aveva sempre lasciati svagare, ma pareva che a
quel punto volesse scuotere le loro anime intorpidite.
Vardan aveva vissuto la sua adolescenza
tra le macerie; ormai gli sembrava che facessero parte della quotidianità. Come
tutti gli altri ragazzi, non pensava neppure a spostare una tegola rotta dal
mezzo delle strade in rovina, poiché essa poteva essere tranquillamente
deviata. Percepiva quell’invito come se fosse stata una spinta verso l’ignoto.
Gli uomini adulti se n’erano andati
tutti, per combattere la guerra, e loro che erano solo ragazzini nulla
avrebbero potuto contro una realtà che necessitava di esperienza, per essere
riparata.
Durante il primo anno dopo il sisma
distruttivo, a Sevan erano state rimesse in piedi e rese abitabili alcune case,
ma poi tutto era finito lì. La popolazione era caduta in un’inerzia che
sembrava voler restare ininterrotta.
Eppure il prete non si arrese, quando
notò che i giovincelli continuavano a bighellonare, giacché si munì di badili e
di svariati utensili e armò in quel modo la sua folta schiera di orfani,
nonostante essi sospirassero o non lo capissero.
“Avete tutti un’età in cui si può
cominciare a far qualcosa e a sognare in grande”, diceva, mentre distribuiva
gli attrezzi da lavoro, spesso usati e consunti, “e se non farete voi grande la
nostra Armenia, chi dovrebbe farlo? Noi, che siamo già vecchi? Il futuro è
vostro, dimostrate a Dio che adorate la patria libera che vi ha donato dopo
tante sofferenze. Ricostruitela e gettate le basi per una vita migliore, per
voi e per i figli che nasceranno in queste lande”.
Vardan comprese presto il significato
delle parole del loro protettore; quando iniziò a frugare seriamente nella
miseria che c’era lungo le strade, comprese che non si poteva andare avanti
così.
Se l’inerzia che egli stesso provava
sembrava sussurrargli di lasciar perdere, poiché i suoi sforzi sarebbero stati
inutili, ed una Nazione intera non poteva ricostruirla qualche paio di braccia,
comprese tuttavia che potevano dare l’esempio. Se tanti altri abitanti li
avessero seguiti, allora sarebbero stati in tanti a lavorare per una vita
migliore, e nulla sarebbe più stato irrealizzabile.
Il ragazzo lavorava sempre assieme
alla sua inseparabile amichetta, Sophie la muta, che ormai anche lei aveva
raggiunto un’età in cui poteva darsi da fare. Il loro era un lavoro silenzioso,
ed anche quando avevano le mani piagate a forza di spostare ruvidi mattoni e
calcinacci, non si fermavano mai fino a sera.
Ci presero gusto, assieme anche a
tutti gli altri orfani, che ben presto dimenticarono i magri svaghi.
A volte, l’anima di Vardan tornava ad
essere tentata dai pensieri pessimisti, soprattutto quando camminava e gli
sembrava di avvertire una scossa di terremoto, quando in realtà era solo pura
suggestione. Quando capiva che era tutto frutto della sua mente, tornava a
rasserenarsi un pochino.
Neanche più pensava, a distanza di
anni, a quale sarebbe stata la sua vita se il sisma non avesse cancellato ogni
cosa in pochi istanti. Capiva che forse il suo fratellino non sarebbe mai nato,
e suo padre sarebbe comunque morto a breve. Si sarebbe ritrovato assieme a sua
madre, soli al mondo, e sarebbe stato costretto a prendere il posto di suo
padre presso la centrale nucleare, ormai chiusa per sempre, poiché
irreparabilmente danneggiata. E allora si sarebbe ammalato come il padre, e
sarebbe morto a breve.
Immaginava comunque una vita di
stenti, in ogni caso, perciò non riusciva più a disperarsi troppo profondamente
per la piega degli eventi, limitandosi ad accettarli così come si erano
presentati.
Fu durante quel periodo di duro
impegno da parte degli orfani che in città giunse una figura davvero
particolare e carismatica. Vardan sentì alcuni ragazzini che ne parlavano, e
che si esprimevano con curiosità a riguardo di questo soggetto.
Non capì bene di che si trattava, ma
quando giungevano soggetti interessanti da fuori città, i superstiti di Sevan
ne erano sempre attratti. E fu proprio in riva al lago che l’uomo accolse le
folle, ma il ragazzo e la sua giovane amica non parteciparono.
Erano così presi l’uno dall’altra, e
viceversa! Fin da quando era bambino, a Vardan era stato insegnato di star
attento alle ragazze comuniste, poiché quelle non rispettavano le regole ed
erano amanti degli eccessi.
Ma Sophie, nella sua infinita
fragilità, non era neppure lontanamente classificabile in quella categoria di
donne; i suoi occhi neri erano mesti ed educati, il suo sorriso puro e
spontaneo, il suo viso dalla pelle leggermente ambrata era irresistibile. Era
certo di amarla.
Quando non lavoravano lungo le
strade, non facevano altro che cercare un posto appartato tutto per loro. Il
loro rapporto era sempre più intimo, e di tanto in tanto sfuggiva anche qualche
bacetto.
Il problema restava che la giovane
non parlava; Vardan la supplicava, le prometteva ogni genere di regalo, se solo
lei avesse potuto dirgli almeno un sì, solo due lettere. Le due lettere che gli
avrebbero permesso di comporre quell’assenso alle sue parole; una dichiarazione
di amore.
Così, il loro sentimento giovanile si
era tramutato in una bellissima rosa di maggio, pronta a sbocciare in un luogo
dove ormai non c’era alcuna possibilità di crescere serenamente un figlio, o
anche solo di permettere un minimo di tranquillità quotidiana.
Infatti, l’uomo che stava tanto
attirando la curiosità in città finì infine a presentarsi presso la chiesa di
Ter Hrand, che, essendo antichissima, si ergeva alle periferie del centro
abitato.
Approfittandone di un momento in cui
il prete era andato a ritirare i minimi aiuti umanitari che avrebbero permesso
la sopravvivenza dei suoi protetti, lo sconosciuto entrò nel luogo sacro e andò
a posizionarsi sull’altare, le mani giunte davanti al viso in parte coperto da
una kefiah.
Vardan, assieme a Sophie e agli altri
orfani, seguirono l’uomo in silenzio assorto, ben sapendo che presto egli
avrebbe iniziato a parlare. E lo fece, così, come se fosse stato un profeta.
Le spalle volte verso i giovani, e il
viso verso il grande crocefisso di pietra che sovrastava l’antico altare.
Parlò, ma Vardan, che era distante,
non udì la sua voce sibillina. Si limitò a restare a curiosare, così, senza
particolare interesse.
Dopo poco, l’uomo interruppe quel
momento di pseudo dialogo con i ragazzi, si volse indietro e fece per
andarsene. Eppure, tutti gli orfani lo circondarono; c’era chi chiedeva una
cosa, chi un’altra… una gran confusione.
Vardan, che non aveva capito niente,
passò un braccio attorno alla cintola della sua giovane amica, che gli era
rimasta sempre a fianco, e fece per andarsene.
Fu in quell’istante inatteso in cui
lo sconosciuto vestito da guerrigliero gli si avvicinò all’improvviso,
fermandolo con un tono di voce che sembrava il sibilo basso e costante di una
serpe.
“Te ne vai, ragazzo? Spero ti stia
preparando per unirti a noi”.
“Non so di cosa stai parlando”,
replicò il giovane, che a quel punto si ritrovò un po’ in soggezione. Da una
parte, lo sconosciuto lo spaventava, dall’altra attirava la sua attenzione.
“Sei sordo, forse?”.
Tutti risero alla provocazione
dell’uomo.
Vardan strattonò Sophie verso
l’uscita.
“Sulle rive del lago, ogni notte,
raccolgo volontari per il Karabagh. Se ti piacerebbe avere un futuro migliore,
anche per il bene della ragazzina che stringi a te, vieni da me”, concluse, ma
il ragazzo già non voleva più ascoltare quel losco individuo che l’aveva
umiliato.
Se ne andò assieme alla sua Sophie,
nel loro luogo segreto, dove anche il loro amore sincero diveniva possibile.
Quando Ter Hrand tornò, se la prese
tantissimo con tutti gli orfani. A suo dire, il guerriero non aveva il diritto
di entrare nella casa del Signore per invocare nuove braccia per la guerra, e
plagiare menti giovani.
“Ve l’ha detto come si chiama?”,
urlava come un ossesso, gli occhi fuori dalle orbite. “Si fa chiamare Njdeh(3)!
Lui non è uno di noi, è una persona che è fuggita dalla sua Nazione per venire
fin qua a portare il male e la guerra! Nel resto del mondo, quelli come lui li
chiamano terroristi, e sono ricercati dalla legge”.
Alcuni orfani rimasero molto scossi
da quelle parole, altri meno. Vardan fu d’accordo con il sacerdote; detestava
quell’individuo.
Per prendere le dovute precauzioni
del caso, il prete ogni sera controllava che tutti i ragazzi fossero presenti,
poi li chiudeva all’interno della chiesa, affinché non se ne andassero in giro,
per finire tra le mani di quel criminale.
I cortei a Sevan presto non furono
più quelli degli scioperanti, come un tempo, bensì quelli di coloro che se ne
andavano in guerra. Njdeh arruolava continuamente, e le persone sparivano nella
notte. Ormai non c’era più ombra di alcun uomo, in tutta la città.
Restavano donne, vecchi e bambini
piccoli.
Anche molti orfani sparirono
ugualmente, ma Ter Hrand non si demotivò e continuò a sparlare sul losco
individuo ed invitare i suoi giovani alla ragione.
Vardan si chiedeva che ragione
potesse esserci, quando tutto andava a rotoli. Anche i lavori lungo le strade
erano stati sospesi per mancanza di braccia, ormai. Ma lui non se ne sarebbe
mai andato in guerra.
Di notte stringeva a sé Sophie, ed
assieme avrebbero affrontato la dura realtà di una Patria in rovina.
Quando meno se l’aspettava, giunse la
fine di tutto.
La fine di ogni sogno, di ogni
speranza. Fu una sorta di secondo terremoto.
I nemici giunsero durante una notte
d’inverno, la luna piena a illuminare la marcia dei loro furgoni militari dai
fari spenti.
Quando i ragazzi udirono il rumore
dei motori, era già troppo tardi; non c’erano tante macchine a Sevan,
soprattutto perché non si potevano utilizzare dato che mancava il carburante e
le strade cittadine erano quasi totalmente occupate dalle macerie, eppure quei
furgoni non provenivano dalla limitrofa città.
La chiesa, che si trovava leggermente
in campagna, fu la prima ad essere presa d’assalto da militari armati ed
accecati dall’odio e dalla loro furia omicida.
Sfondarono in fretta la porta e
cominciarono a sparare all’impazzata contro gli orfanelli che, ancora poco
lucidi a causa del sonno recente, brancolavano nel buio.
La luce accecante di un furgone
illuminò l’ambiente da fuori, e mentre i giovani armeni non potevano vedere i
loro aggressori, se non grazie alle lunghe ombre che generavano con la loro
presenza, venivano trucidati senza pietà.
Vardan carambolò sotto una lunga
panca di legno, antichissima, e afferrò le caviglie di Sophie, obbligandola a
nascondersi assieme a lui. I loro due cuori battevano l’uno sull’altro, mentre
il suono degli spari si faceva fragoroso e il sangue imbrattava tutta la
pavimentazione.
Le ultime cose che udirono furono le
grida di Ter Hrand, dapprima infuriate, e poi miserevoli.
Egli fu portato sull’altare e
decapitato con un’accetta.
Dopo ciò, quegli esseri infernali se
ne andarono a mettere a ferro e fuoco la città.
Le grida risuonarono in lontananza
fino all’alba.
Vardan e Sophie restarono abbracciati
fino all’alba, i loro corpi indolenziti che non ne potevano più di quella
posizione scomoda, ma non si azzardavano a muoversi. Loro, quegli uomini giunti
col buio, potevano essere ancora lì ad attendere di finirli.
Ciò non accadde.
Giunsero alla chiesa i militari
armeni, milizie volontarie che si erano armate alla meglio ed erano accorse a
combattere contro il nemico, seppur in ritardo.
Trovarono i due ragazzini atterriti,
diedero loro qualcosa da mangiare e li lasciarono lì, tra i corpi dei loro
compagni e del loro protettore, che ormai non era altro che un freddo cadavere
mutilato.
Il peggio era passato, il nemico
spinto di nuovo al di là del flebile confine.
Vardan e la sua amichetta però erano
di nuovo senza nulla. Dove andare, quando tutto era perduto?
All’epoca del sisma, avevano avuto
fortuna a trovare un uomo come Ter Hrand, prete esemplare e di grande coraggio,
ma ormai egli non c’era più, Sevan era stata razziata, si diceva che le acque
del grande e limitrofo lago fossero state avvelenate e la chiesa era ancora
piena di cadaveri che nessuno avrebbe mai sepolto.
Si sentì improvvisamente un uomo, e
prese l’iniziativa; sarebbe andato da Njdeh, sempre se lui avesse scelto di
tornare tra quelle rovine.
“Tu starai con le superstiti di Sevan,
ti farai aiutare da loro”, disse all’amica, con il cuore in frantumi. Una donna
non poteva andare in guerra.
Ma Sophie scrollava il capo, no, ella
non voleva restare a piangere i morti. Voleva seguire il suo giovane amore.
And if you go, I wanna go with you
Con un’arguzia che Vardan non aveva
ancora mai conosciuto, la ragazzina indossò i vestiti di uno dei tanti compagni
morti, si tagliò male e in fretta i capelli e divenne ragazzo. Era così magra
da non avere alcuna forma femminile, così giovane da non presentare ancora
alcun tratto deciso da donna nel viso, e non aveva la voce.
Vardan comprese in un attimo, appena
la vide, che avrebbe funzionato e non si sarebbero mai separati.
“Io ti proteggerò, il mio corpo sarà
il tuo scudo. Combatteremo assieme per la libertà, poi potremo avere una casa,
formare una famiglia, essere felici…”, le raccontava mentre si muovevano verso
il punto di raccolta del terrorista.
And if you die
I wanna die with you
Take your hand and walk away…
Njdeh giunse, e Vardan e Sophie
finirono nelle sue grinfie.
Al punto di raccolta, sulle rive di
quel grande lago che sembrava un mare, c’erano tanti ragazzi, anche molto più
piccoli di loro. Al guerrigliero però non importava, a lui serviva carne da
mortaio, e anche i bambini potevano essere utili in guerra.
Non chiese l’età di nessuno, e fece
salire tutti quanti i presenti su dei furgoni molto simili a quelli con cui i
nemici si erano presentati a Sevan qualche notte prima.
Vardan e Sophie saltarono sul retro
di uno di essi, mischiandosi ai ragazzini già presenti, e anche a qualche
vecchio dalla parvenza molto traballante.
I tirapiedi di Njdeh misero in moto i
mezzi e si inoltrarono in un territorio che il giovane non aveva mai visto.
Ben presto il lago scomparve, assieme
al riflesso che il chiaro di luna offriva, e rimase solo l’oscurità che le
montagne altissime del Caucaso gettavano su tutto, grazie alla loro possente
ombra. Non potendo coccolarsi e farsi forza a vicenda, i due giovani lasciarono
che ad unirsi fossero solo le loro mani, di nascosto.
“Sono stati i turchi ad uccidere il
vostro amico prete”, sibilò Njdeh, quando scorse i visi terrorizzati dei due
ragazzini che poche settimane prima aveva schernito pubblicamente.
Who victrored over, the Seljiuks…
“Ora avete sete di vendetta dentro di
voi. Bene”, continuò a sancire. Poi, guardò Sophie.
“Quanto odio provi, bambinetto? Eh?
Non parli?”.
La percosse.
Vardan si mise in mezzo a loro.
“Signore, il mio… amico è… è muto”,
borbottò, stando attento a non tradirsi.
Allora il guerrigliero sputò a terra
con disprezzo e si allontanò.
“L’importante è che sappia
imbracciare bene le armi, e che abbia voglia di uccidere”, sibilò ancora,
sempre più distante.
Era squallido, l’accampamento di quei
militari. Non c’era acqua e tanti di quelli già presenti stavano male. Si
beveva dalle pozzanghere imbrattate di feci e urina.
I due ragazzi, assieme ad altri
vecchi e ragazzini, furono obbligati ad impugnare un fucile e a mostrare di
saperlo usare. Solo una prova, poiché le munizioni erano razionate. Già il
giorno successivo sarebbero stati messi alla prova in una scaramuccia, dicevano
i veterani.
Era di nuovo durante la notte che il
destino dei due ragazzini si stava scrivendo. L’indomani avrebbero combattuto,
e allora… spinti da un istinto irrefrenabile, i loro corpi si fusero.
Fu una unione davvero naturale, senza
neppure che i due sapessero per bene quel che stavano facendo. Nel mezzo di un
accampamento militare, condivisero la coperta e divorarono le loro labbra,
senza alcun bisogno di parole o di comunicare qualcosa se non tramite quello
che i loro sensi riuscivano a trasmettere.
Vardan provò un piacere che non
avrebbe mai creduto di conoscere in quel mondo fatto di lacrime, rovine e
dolore.
“Lo faremo altre volte, quando la guerra
sarà finita e ci sposeremo”, promise a Sophie, ansante.
Poi sciolsero in fretta la loro
unione, il rischio di essere scoperti era davvero elevato, e il ragazzo non
aveva idea di cosa sarebbe potuto accadere in quel caso.
Prima di combattere la sua prima
battaglia, Vardan trascorse da sveglio ciò che restava di quella notte così
fervida, dal punto di vista amoroso. Il piacere estremo della carne aveva
lasciato spazio ai sensi di colpa; anche se non aveva mai fatto l’amore prima
di quel momento, sapeva che da ciò si generavano nuove vite.
Aveva paura per Sophie, non voleva
restasse incinta in una realtà così orribile. Aveva visto egli stesso il sangue
che veniva versato nelle fontane pubbliche, di notte quando tutti dormivano, o
nei fiumi di montagna, le acque che diventavano subito vermiglie.
No, non sarebbe finita così;
avrebbero combattuto, vinto in fretta e trovato una casa per realizzare i loro
sogni.
We will fight the
heathens,
We will fight the heathens
“Combatteremo per il Giardino Nero!”,
ruggì Njdeh, per aizzare i suoi uomini ed incoraggiarli. Era giorno ma ancora
non scopriva quel volto per metà nascosto dalla kefiah.
Anche Vardan e Sophie si erano
bardati allo stesso modo, e stavano vicini. Indossavano vesti militari logore,
che sicuramente erano state addosso a miliziani armeni rimasti uccisi in
precedenza, poiché erano tutte lese dai piccoli fori prodotti dalle pallottole
nemiche.
Tremavano, così come tutti gli altri
vecchi e ragazzini che erano con loro. Gli uomini adulti e pronti a combattere
erano davvero ben pochi.
Il Nagorno-Karabagh, il Giardino Nero(4),
si estendeva davanti ai loro occhi, mentre i fiori estivi ricoprivano le
piccole radure d’alta quota.
Sembrava davvero che quella regione
fosse solo un giardino, eppure si stavano muovendo piano solo per cogliere il
nemico di sorpresa. I furgoni erano stati lasciati più a valle.
When the Holy
Land was taken
We will fight
the heathens
I veterani avevano dato istruzioni ai
novellini, dicendo loro che le truppe armene erano perfettamente equipaggiate,
e supportate da aerei e da carri armati. E non solo.
“Abbiamo armi chimiche(5)”, aveva precisato
Njdeh, “possiamo uccidere migliaia di turchi nell’arco di pochi minuti”.
Vardan era stato percorso da un
brivido, quando aveva udito quelle parole. Sarebbe stato all’altezza di una
sfida così? E la sua Sophie, come avrebbe potuto sopravvivere? Erano stati
armati in fretta e solo con un fucile Martini tutto arrugginito, e cinque
cartucce a testa.
“Dovete fare centro per forza,
altrimenti saranno i turchi a bucherellarvi a dovere”, aveva sghignazzato uno
dei veterani quando venivano spartite.
Il viaggio sui furgoni era stato
estenuante ed era durato a lungo, forse troppo, ma alla fine si era giunti alla
meta. Vardan si affidava ai veterani, in marcia davanti a lui, che parevano
annusare l’aria alla stregua dei cani.
“Puzzano, i turchi”, gli aveva
sussurrato uno di loro, sorridendo. Pareva che quegli uomini fossero davvero
molto felici al solo pensiero di combattere.
Il ragazzo invece si strozzava dal
magone in gola che aveva, e solo la tensione alle stelle lo teneva in piedi.
Sophie, dietro di lui, arrancava come poteva, sempre rimproverata se produceva
un rumore di troppo.
Ad un certo punto, si udì una voce;
poi un’altra.
Il gruppo di uomini armati procedette
con maggiore cautela, nascosto dalla fitta e bassa vegetazione, che graffiava i
pochi millimetri di pelle rimasta scoperta.
Si udirono altre voci sempre più
nitide, un vociare caotico e turbato, condotto senza alcuna precauzione. Vardan
non capì una sola parola di quello che giungeva alle sue orecchie.
Dark is the light,
The man you fight
Non ebbe tanto tempo per ascoltare,
poiché i suoi compagni assalirono a sorpresa i nemici, balzando fuori dalla
vegetazione e attaccando con vigore. I veterani urlavano come ossessi e fecero
subito fuoco.
I ragazzi ben presto furono sospinti
dai compagni che li seguivano fin nel cuore del conflitto armato; attorno a
loro, solo la carneficina.
Vardan si rese improvvisamente conto
che quei nemici erano persone inermi, fuggiaschi che portavano sulle spalle le
loro poche cose, e che non avevano armi con loro. Solo un paio avevano un
fucile, ma furono eliminati in fretta.
Njdeh passò a fianco del giovane come
se fosse stato una belva, già tutto sporco di sangue, ed afferrò un bambino
turco per un braccio e glielo consegnò.
“Tienilo, e lascia fare a noi.
Abbiamo quasi finito, è stato più facile del previsto”, sogghignò. In effetti,
ben presto a terra c’erano solo cadaveri di donne, vecchi e bambini. Solo una
decina di essi erano stati tenuti da parte, e un Vardan senza parole ne stava
trattenendo uno.
Il piccolo piangeva, urlava, provava
a divincolarsi… avrà avuto sì e no dieci anni, ed era magrissimo.
L’armeno intanto si confondeva con
quello che vedeva attorno a lui; gli sembrava di rivivere il momento del
massacro in chiesa, quando la sua esistenza era stata di nuovo mandata in
frantumi. Gli venne da piangere.
Stava per liberare il bambino, quando
Njdeh lo afferrò per un braccio e lo spinse con forza verso un grande albero. Prese
poi il piccolo prigioniero e lo legò al tronco, mentre gli altri veterani
facevano altrettanto con i restanti nemici catturati.
“Ora uccidilo, dimostra che sei un
uomo fedele alla tua Patria e al tuo credo”, disse infine, con sicurezza,
allungando il suo lungo ed affilato coltello a Vardan.
Il ragazzo guardò con incertezza ma
non afferrò l’arma; su di sé, nel frattempo, avvertiva gli sguardi di tutti i
presenti.
“L’hai catturato tu, a te spetta
l’onore di farlo fuori”, insistette.
One was written on the
sword,
For you must enter a room to destroy it,
International security,
Call of the righteous man,
Needs a reason to kill man
Vardan scosse leggermente il capo, e
Njdeh allora rise forte.
“Hai paura di uccidere un turco?”, lo
sfottè.
“Sai cos’hanno fatto questi schifosi
ai nostri genitori e ai tuoi nonni, eh? Hanno colpito il nostro intero popolo,
lo sai bene anche tu”.
We will fight the heathens…
Il giovane era consapevole dello
sterminio di massa avvenuto ottant’anni prima, ma la questione non gli aveva
mai fatto provare quell’odio accecante che, invece, sembrava pervadere gli
altri miliziani armeni.
Njdeh notò che non faceva una piega,
quindi tornò serissimo e passò all’azione. L’afferrò brutalmente per le spalle
e lo scosse con vigore, per poi spingerlo verso il bambino legato e in lacrime.
“O lo uccidi, o sarò io a farlo”, sibilò,
avvolto da un silenzio surreale, “se non lo ammazzi sei un traditore del suo
sangue, sei un desertore”. Sferrò poi un calcio alla giovane vittima.
Vardan l’accettò, era disposto ad
accettare tutto quanto, pur di non commettere quell’omicidio; quando era
partito per la guerra, credeva che avrebbe affrontato uomini cattivi, facili da
identificare come nemici, e non soggetti indifesi di quel genere. Si sarebbe
beccato i suoi calci e le sue percosse, se non fosse intervenuta Sophie, nelle
vesti del soldatino muto.
La ragazza interpose tra i due,
evitando all’innamorato un altro calcio.
“Schifoso muto! Morirai anche tu
assieme a lui, allora!”, urlò e cominciò ad imprecare Njdeh, che poi impugnò al
meglio il suo coltellaccio e lo conficcò senza pietà nel mezzo del petto del
piccolo prigioniero, che morì all’istante.
Un grido di giubilo percosse la
ristretta truppa armena, solo Vardan e Sophie guardarono sconsolati quella
macabra scena.
“L’avete fatta grossa, non ammazzando
quel bastardino! Ora, potete scegliere se uccidere voi stessi tutti gli altri
prigionieri, o fare la loro stessa fine. Di traditori non ne vogliamo”, sancì
il comandante.
Vardan a quel punto aveva un grande
fastidio interiore, e si sentiva pronto a far in modo che alla sua innamorata
ed amica non accadesse nulla.
“Non lo facciamo, perché noi non
siamo terroristi e assassini come te”, gridò, quasi senza accorgersi delle
parole pesanti che aveva sputato con odio. Infatti, gli altri soldati smisero
di far baccano, e Njdeh sgranò gli occhi come non mai.
The reason he must
attain,
Must be approved by his God,
His child, partisan brother of war
“Vi ha plagiati quel fottuto prete,
era lui che mi chiamava così”, disse, con un tono più moderato, “che Dio lo
condanni alle braci eterne dell’inferno, e condanni anche voi”.
Si preparò a sparare, mentre gli
altri soldati ancora seguivano la scena.
Vardan non attese oltre; prese per
mano la sua giovane amica, e si gettò immediatamente a capofitto nella
limitrofa boscaglia.
Cominciò la sua fuga, gli spari del
terrorista alle sue spalle, e le rispettive pallottole che sibilavano tra le
fronde, quasi fossero state le sue parole espresse con quell’orribile tono di
voce da straniero. Presto, anche gli altri militari cominciarono ad inseguire i
due disertori, e a sparare.
A Vardan era sembrato di esser stato
inseguito fino ai confini del mondo.
Such a lonely day
And it’s mine
It’s a day that I’m glad I survived…
Con il fiatone, lui e Sophie si
accasciarono l’uno a fianco dell’altra, su un pendio scosceso di uno dei
tantissimi ed anonimi monti del Caucaso centrale. Avevano affrontato salite e
discese senza sosta, per un giorno intero. O forse due. Il ragazzo non ne aveva
idea.
Era confuso, di acqua non ce n’era e
la notte faceva molto freddo. Avevano scelto di salire di altitudine e di
scalare un’altura solo per rendere davvero difficile il compito agli
inseguitori. Ma essi erano ancora alle loro calcagna? Oppure no?
Vardan riafferrò la mano di Sophie e
la costrinse a rialzarsi; li attendeva ancora una lunga salita, ed ogni rumore
percepito poteva essere prodotto dai loro inseguitori assetati di sangue e
vendetta.
C’era ancora la neve, lassù(6). Era
notte fonda, i corpi dei due ragazzi erano sudati, e un venticello gelido li
percuoteva.
I vestiti si appiccicavano alla
pelle, e quando il vento li percuoteva sembrava ricevessero frustate.
Vardan voleva proseguire la sua corsa
folle, non poteva sopportare che li avessero raggiunti, proprio no… ma non
aveva più forze. Neppure Sophie.
C’era del ghiaccio sotto di loro.
Forse… era tutto così confuso.
Sophie non si muoveva più, sembrava
anch’ella rigida come il suolo sottostante.
Vardan cinse il suo corpo
scheletrico, e lo strinse al suo, altrettanto magro. Era da tempo che non
mangiavano. Ma ormai appartenevano al limbo dei disertori, non ci sarebbe più
stata pace per loro. Né una casa, e neppure la prospettiva di una vita
dignitosa.
Lassù, almeno, sembrava potessero
sfiorare il cielo con un dito.
“Le stelle, Sophie… amore, le stelle.
Guardale…”, riuscì a mormorare, ma poi si lasciò scivolare in un limbo più buio
della notte stessa che li stava avvolgendo nel suo gelido abbraccio dal sapore
di morte.
And if you die
I wanna die with you
Take your hand and walk away…
Per il giovane e la sua amata, non ci
sarebbe più stata alcun’altra alba; tutto era destinato a finire così, a cielo
aperto nel bel mezzo di un Giardino Nero reso rosso dal sangue degli innocenti.
NOTE
(1)il 7 dicembre 1988, alle 11 e 41
di mattina, il 40% e oltre del territorio dell’Armenia fu percosso da un catastrofico
terremoto, che rase al suolo città intere. Vi parrà incredibile da credere, ma
solo la maggior parte delle antichissime chiese restarono in piedi e subirono
danni minimi.
(2)guerra del Nagorno-Karabagh, un
conflitto armato che vide confrontarsi Armenia e Azerbaijan per il controllo di
questa regione caucasica, abitata perlopiù da armeni ma assegnata dai russi
agli azeri. Gli armeni, devastati dal terremoto e senza più nulla, si
lasciarono trascinare da questa guerra di aggressione ai fini ufficiali di
liberare il Karabagh dal dominio ingiusto di una minoranza (quella azera) su
una maggioranza (quella armena).
(3)straniero, in armeno.
(4)il significato letterale di
Nagorno-Karabagh.
(5)era stata diffusa la voce che gli
armeni possedessero armi chimiche, utilizzate per lo sterminio di massa degli
azeri. Non era vero; si trattava appunto di una diceria diffusa per motivare le
truppe. Tuttavia gli azeri credettero a queste parole, e inizialmente si
ritiravano ogni volta che un raro aereo armeno sorvolava le zone da loro
controllate.
Gli azeri in vengono chiamati turchi
dai personaggi di questo racconto; infatti gli armeni identificavano come
turchi questa popolazione effettivamente imparentata con gli abitanti della
Turchia. Entrambe le Nazioni in guerra usufruirono di molti guerriglieri
provenienti dall’estero, in modo particolare l’Azerbaijan utilizzò mercenari
provenienti da tutta l’area dell’ex Unione Sovietica, e numerosi e spietati
miliziani ceceni. L’Armenia invece divenne recapito per combattenti provenienti
dall’Europa e dal Nord America, perlopiù discendenti da armeni della diaspora.
(6)anche in estate, sul Caucaso fa
molto freddo. In inverno si possono raggiungere temperature rigidissime, come i
trenta gradi sotto lo zero. Sulle vette e su molte montagne la neve non si
scioglie mai. L’aria è spesso rarefatta per via dell’altitudine.
NOTA DELL’AUTORE
Io sono felicissimo perché gli ultimi
Contest a cui ho partecipato mi hanno davvero aiutato a mettere su carta idee
che mi hanno ispirato, letteralmente travolto. Idee che avevo in mente da tempo
e che non ero mai riuscito a scrivere, finora.
Grazie Giudice, perché è da quando ho
concluso Il Destino e la Speranza (il mio racconto sul Genocidio Armeno), che
sognavo di scrivere un testo riguardante questo periodo storico, sicuramente
decisivo per l’Armenia. Anche molto complicato; io ho cercato di snellire di
molto le note, poiché il racconto è storico ma è anche una song-fic, quindi non
volevo rendere tutto troppo pesante.
Grazie quindi, e soprattutto perché
questo Contest mi ha permesso di fondere due mie passioni; la Storia e la
musica. Conosco i System da poco tempo, devo ammetterlo; ma due loro canzoni mi
fanno impazzire. Inoltre, spulciando nel loro vasto percorso musicale, ho avuto
modo di ascoltare e di studiarmi numerosi loro testi, e ho riconosciuto che
(almeno secondo me) alcuni di essi sono stati composti proprio pensando ai
fatti storici narrati qui sopra (il terremoto, la guerra, il conflitto con gli
azeri…), poiché alcune parti coincidono a pennello con alcuni eventi davvero
accaduti. Quindi, credo che alcune loro canzoni siano proprio ispirate ad
alcune fasi della Storia armena.
Da parte mia, ecco qui come ho
utilizzato le canzoni, inserendole nel testo;
Toxicity; la mia canzone preferita
non poteva mancare. Inizialmente è stata quella che mi ha dato più dubbi perché
non sapevo bene come e dove inserirla… ma poi ho scoperto che calzava a pennello,
col suo ritmo, proprio nella scena iniziale; la calma iniziale e il momento del
terremoto e del caos successivo (perfetto, in questo caso, il ritornello), dove
tutto era distrutto e anche i superstiti erano confusi e spaesati.
War?; testo molto intenso, l’ho
trovato appropriato per la descrizione del breve scontro armato.
Soldier side; testo che merita
davvero molto. L’ho trovato appropriato per il triste momento della fuga, che
sfocerà poi nella morte dei protagonisti.
Lonely day; quarta canzone, un testo
che non avevo previsto di inserire. Ma era la mia seconda canzone preferita dei
System, appropriata sicuramente per le scene riguardanti i momenti prima
dell’arruolamento dei nostri due protagonisti (la canzone è molto riflettuta,
come la scelta dei nostri ragazzi), e poi per concludere la vicenda in modo
molto poetico, nonostante il dramma di questa duplice morte.
Inoltre, ho inserito anche alcuni
versi di alcune canzoni (già lì indicate) all’inizio della seconda parte del
racconto.
Beh, mi era concesso di inserire
tutte le canzoni che volevo, quindi… ecco servito un bel mix ^^ così sapete
anche voi cosa mi ha spinto ad inserire tali canzoni, inoltre conoscete ora la
posizione dei rispettivi versi nel testo e potete anche cercarle ed ascoltarle.
Le parole utilizzate (testo delle canzoni e citazione iniziale escluse) sono in
totale 7994.
Grazie a tutti coloro che hanno letto
fin qui. Grazie davvero. Un altro ringraziamento speciale alla mia carissima
Kim.