Sembrano passate intere ore.
Sa come funziona il tempo, che la sua percezione è relativa. Più vorrai
che trascorra velocemente, più ti sembrerà che proceda a rilento, eppure mai
prima d’ora le è sembrato in battuta d’arresto come in quel momento.
Il sole morente del pomeriggio traccia linee oblique di grigio torpore tra le
tende socchiuse, il momento in cui il giorno appare indeciso sul da farsi, se
crogiolarsi ancora un po’ nei suoi ultimi momenti di gloriosa luminosità o
cedere del tutto il passo alla sera che avanza a ritmo di danza.
Rosamund
osserva il pulviscolo ondeggiare nello spazio tra lei e Sherlock, si costringe
a non incalzare una spiegazione, a pazientare ancora un po’. Cosa sono una
manciata di minuti, in fondo, in confronto a un intero anno di sofferenze,
diatribe e investigazioni?
Quando Sherlock parla, finalmente, la sua voce risuona stanca e atona, come
probabilmente sarebbero le ultime parole di un morto raccolte dal fondo della
sua bara. “Ho una sorella.”
“Eurus è un genio, con una predisposizione all’apprendimento cognitivo e
deduttivo come ne nascono ogni cento anni.” Lui trae un respiro profondo,
raddrizza le spalle e sembra ritornare in sé, di nuovo alto come un albero,
come i giganti di pietra delle storie che le raccontava da bambina, intoccabile
e inaccessibile. “Loro sono simili.”
La verità è sempre stata sotto i loro occhi, nero su bianco, proiettata nei
silenzi, nelle opposizioni inspiegabili. In un recesso della sua mente, una
vocina sussurra senza malizia che lei lo sapeva, l’ha sempre saputo.
“Non è mai
stata Agnes,” lei sussurra e guardando negli occhi scavati di Sherlock trova il
riflesso dell’abisso che le sta squarciando il petto, impedendole di respirare
normalmente. Serve che sia qualcuno a dirlo ad alta voce e sa che non può
essere Sherlock a farlo. Lui sa cosa questo significhi per lei, è come
condannarsi all’harakiri e Sherlock la ama al punto che non riuscirebbe mai a
infliggerle un danno simile. “E’ sempre stato Hamish.”
Occhi di un azzurro spettacolare. Rosamund ricorda che sia stato
quello il suo primo pensiero, anche se sicuramente meno articolato e
complesso, all’epoca, guardando Hamish Holmes.
Il sorriso di John si era fatto più pronunciato e parte della malinconia che
mai abbandonava il suo viso segnato dalle intemperie era diluita in
una gioia autentica e quasi esultante. “Tale padre,” aveva mormorato,
voltandosi inspiegabilmente alla sua destra come per condividere con qualcun
altro il suo divertimento. Nonostante l’ombra di rammarico nel trovare il posto
accanto a sé vuoto, la sua risata era risuonata ugualmente fragorosa nel
corridoio altrimenti silenzioso.
Anni più tardi, l’abitudine di quel vezzo continuo sarebbe diventata per lei
semplice routine – quell’imperterrito cercare sua madre al suo fianco, sempre e
ovunque – e la straziante consapevolezza del suo significato sarebbe stata
levigata in qualcosa di appena tollerabile dalla ferrea
volontà di non lasciarsene abbattere.
Ma sarebbe stato solo molto più tardi, al crepuscolo della sua adolescenza, che
Rosamund avrebbe afferrato completamente il doloroso smarrimento che John
doveva provare ogni singola volta, come se in ciascuna occasione l’assenza di
Mary fosse nuovamente una rivelazione, qualcosa che niente l’avrebbe mai
convinto ad accettare.
L’avrebbe capito, scoprendosi a fare altrettanto con Hamish. Condividere uno
sguardo complice, compendiandoci dentro un’infinità di parole; lanciargli
un’occhiata e osservare al volo la comprensione farsi largo negli occhi
chiarissimi di lui come piccole rifrazioni di luci e ombre; condividere la
giocosità di una considerazione irriverente, arcuando semplicemente un
sopracciglio; prendere parte a una conversazione e sapere in anticipo
l’espressione che avrebbe colto sul viso angolare di Hamish: il modo in cui lui
avrebbe aggrottato le sopracciglia se in preda alla rabbia o all’incredulità o
quella buffa smorfia di disapprovazione che avrebbe fatto con la bocca quando
la stupidità di qualcosa che gli era stato detto trascendeva ogni umana
tolleranza o ancora come si mordeva la lingua per evitare di affermare le
proprie idee con una convinzione così assoluta da non lasciare adito a repliche
di sorta o come si passava una mano in mezzo ai capelli per la frustrazione o
come arricciava il naso per lo scetticismo o nascondeva il suo imbarazzo dietro
la cortina della frangia troppo lunga.
Di Hamish conosceva ogni segreto, ogni peccato, tutto ciò che lo rendeva Hamish.
Conosceva le sue paure più intime, aveva combattuto i suoi terrori notturni
come se fossero i propri, le battaglie di lui erano diventate anche le sue.
Hamish poteva dire lo stesso di lei. La conosceva meglio di chiunque altro al
mondo. Sapeva cose di cui neppure John o Sherlock o Molly erano a
conoscenza.
Erano confidenti, amici, compagni, i reciproci custodi di quella parte nascosta
al resto del mondo che raramente vedeva la luce del sole, ma che entrambi
avevano visto e che non aveva in nessun modo modificato la percezione che l’uno
aveva dell’altra e viceversa.
Hamish aveva imparato a riconoscere i sintomi del bisogno che a volte si
impossessava di lei, capiva la sua esigenza di scappare da tutto e tutti,
isolarsi e allontanarsi da casa sua, quella casa che era anche un tempio alla
memoria e in cui il ricordo onnipresente di sua madre aleggiava in ogni stanza
come un’eco di profumo, dietro ogni foto e cornice, opprimendola in una morsa
da boa constrictor da cui doveva sottrarsi ad ogni
costo.
Rosie amava suo padre, lo idolatrava quasi quanto Hamish venerava Sherlock, ma
a volte la rabbia irragionevole di dover condividere il suo amore con lo
spettro di una donna defunta le montava dentro a tal punto da farglielo quasi
detestare. Suo padre, il dottore. Suo padre, il soldato. Suo padre, il blogger.
Suo padre che niente riusciva a far impallidire o tremare o smuovere. Suo padre
la cui unica fragilità era la morte di una moglie così amata che ancora oggi, a
distanza di vent’anni, il solo sentire pronunciare il suo nome aveva il potere
di trasformarlo in una statua di sale.
Era terrificante, terrificante e al contempo straordinario, l’idea di un amore
del genere, di arrivare ad avere un tale potere su un’altra persona. Assistere
agli effetti sconvolgenti di un amore di quella portata. Amare così
profondamente e completamente qualcuno, al punto che perdendolo si provava la
sensazione di essersi privati di una parte di sé, come l’amputazione di un
arto.
In quei casi Hamish adottava una tattica ormai consolidata per risollevarle lo spirito.
La sua ironia non era caustica come quella di Sherlock, la cui capacità provocatoria era ormai un’arte affinata che si poteva provare a imitare con scarsi risultati né tendente al macabro come quella di Molly, la cui insolita vena umoristica – in aperto contrasto con il suo carattere espansivo e solare e apparentemente accondiscendente – tendeva a passare pressoché inosservata agli estranei.
No, l’umorismo di Hamish era sferzante
senza risultare sarcastico, una critica al malumore il cui messaggio era
chiarissimo. Perché sprecare tempo ed energie ad essere tristi quando si poteva
trascorrerlo più efficacemente? E ciò nonostante Hamish la rispettava anche in
quello e la lasciava uggiolare come un cane abbandonato sotto la pioggia fino a
quando era lei a decidere diversamente.
Non avrebbe mai dimenticato la volta in cui aveva suonato uno degli organi a
canne all’abbazia di Westminster. Era l’estate dei suoi diciotto anni e un
periodo non propriamente facile. Suo padre insisteva affinché quell’autunno lei
iniziasse l’anno accademico, contrariamente al suo desiderio di trascorrere un
anno sabbatico in un monastero tibetano. Quindici anni e un improbabile gilet
in cashmere nonostante le temperature moderate, un ragazzo magro e dinoccolato
con il primo accenno di peluria sul mento e la solennità che derivava da un
carattere schivo, non necessariamente introverso o cupo. Eppure, seduta di
fronte al cenotafio delle sorelle Bronte, mentre le prime note di Don’t
worry be happy avevano profanato il silenzio assorto della navata,
Rosie non aveva nutrito il minimo dubbio sull’identità dell’esecutore. Era
perché lo aveva sentito fischiettare lo stesso motivo a Aggie un paio di
settimane prima per farla sorridere dopo che aveva discusso con una delle sue
compagne di classe?
Era stato allora? Allora che aveva capito? Sicuramente aveva incominciato a
intravedere i confini del loro rapporto, o meglio a comprendere che non
esistevano, non erano mai esistiti in effetti e che nessuno avrebbe mai potuto
scalzare il posto che lui occupava nella sua vita. Hamish era insostituibile.
O forse era stato due anni più tardi. Quando nella galleria dei bisbigli lui
era rimasto volutamente indietro per fare in modo che fossero gli unici
presenti e le aveva confessato i suoi sentimenti. Pronunciando le parole vicino
al muro, lei aveva potuto sentirle rimbombare da qualsiasi punto della
galleria, come se a ripeterle fossero un’infinità di versioni di Hamish,
giovani e vecchie, da punti diversi sparsi nelle loro vite, passato e presente
e futuro a mescolarsi in un amalgama inscindibile. Dopo, entrambi si erano
comportati come se non fosse successo nulla, ma Rosamund non aveva dimenticato
l’emozione violenta che aveva provato, di completezza e pace, per aver definito
qualcosa sulla cui importanza non aveva mai esitato, ma che sarebbe stato
comunque necessario formalizzare prima o poi. Uscendo, lo aveva preso per mano,
un gesto familiare compiuto milioni di altre volte prima di quel momento e che
non avrebbe dovuto affatto sconvolgerla, eppure c’era stato qualcosa di diverso
e sconcertante. Per la prima volta aveva notato quanto fosse cresciuto, quanto
poco del ragazzo fosse rimasto nell’uomo che era diventato, che torreggiava
sopra di lei, severo e ostentatamente blasé e con quel sorriso segreto nello
sguardo e nella curva appena accennata della bocca decisa.
Hamish.
Un pomeriggio speso a studiare nella camera di Hamish nel pianterreno. In un
raro momento di ozio, lei si era stesa sulla vecchia moquette verde palude. Il
suo sguardo fisso sul poster di Karl Marx sul soffitto senza realmente
osservarlo. I suoi piedi si muovevano avanti e indietro a tempo di musica.
Qualcosa di rumoroso e pop, dal ritornello orecchiabile, che Hamish avrebbe
detestato cordialmente, motivo per il quale lo stava ascoltando mentre lui era
salito a procacciare tè e snack. A ristagnare nel punto più alto della
libreria, occultato tra i trattati e i testi di filosofia di Hamish, lei aveva
notato un libro minuscolo. Si era quasi dovuta arrampicare su uno degli
scaffali più bassi per trarre in salvo quello che alla fine si era rivelato
essere un volume di poesie. Deteriorato come lo sono le vecchie edizioni
rilegate, sgualcito dall’usura, tra le sue mani aveva cominciato a spaginare
fino ad aprirsi a poco più di metà su una poesia di Tennyson. A margine,
scarabocchiato nella scrittura spigolosa di Hamish, lei aveva trovato il suo
nome.
Stammi vicina, lei aveva cominciato a leggere, sentendo il
mondo intero implodere nella sua testa.
Hamish.
Rosamund chiude gli occhi con forza. Si sente vacillare. Dentro di sé sente un
vortice di contraddizioni e le sembra impossibile che l’appartamento attorno a
lei rimanga così statico, inalterato.
Hamish.
Quello che Sherlock le ha appena raccontato non dovrebbe avere il minimo senso,
eppure ne ha. Rosamund non vorrebbe, ma poco alla volta, con una lentezza
esasperante, i pezzi di un puzzle a cui non sapeva di star lavorando si
ricompongono formando il quadro completo.
Anni e anni di episodi isolati, di
stranezze vengono inquadrati alla luce delle nuove rilevazioni che le sono
state appena fatte. Piccole cose. Dettagli quasi insignificanti, ma che adesso
assumono un loro perché, diventano orribilmente ragionevoli. Il divieto di
andare in obitorio a trovare Molly. Il fatto che Sherlock avesse smesso di
suonare da un giorno all’altro il violino. La regola che Lestrade non potesse
cominciare a parlare dei casi in presenza dei bambini. La morte improvvisa di
Toby e la richiesta inconsueta da parte di Molly di non prendere altri animali
per rimpiazzarlo. Ricorda un pomeriggio. Aveva sedici anni probabilmente ed era
di ritorno da una scena del crimine con Sherlock. Era stata la prima volta, lui
non le aveva mai permesso di accompagnarlo prima per cause che le erano ignote.
Ricorda come se fosse successo solo il giorno precedente la sensazione di
euforia e orgoglio. Dopo aver risolto il caso, lui l’aveva portata a comprare
una porzione di patatine in un fish and chips sulla Marylebone
Road.
Dio, pensa e si costringe a ricordare, anche se non vorrebbe, anche se si sente come se le stessero trafiggendo il cuore.
Quando rincasando lei era
corsa da Hamish, in salotto e impegnato a leggere un libro più grande di lui, e
aveva cominciato a raccontargli i particolari più interessanti, l’espressione
tradita e amareggiata di lui, troppo intensa per un ragazzino di appena tredici
anni e il modo in cui l’aveva guardata, tormentato, quasi a chiederle: Perché
tu? Cosa c’è che non va in me? E Rosamund non aveva potuto trovare una
spiegazione ed era ammutolita. Sherlock non le aveva più permesso di unirsi a
lui e al pari di Hamish, lei era stata lasciata da parte. Finché era la
presenza di entrambi a non essere ammessa, lui doveva aver pensato,
quell’esclusione sarebbe stata meno evidente. Non era stato così, non per
Hamish, almeno, che aveva attraversato tutta l’infanzia e l’adolescenza nell’attesa
spasmodica che giungesse il suo momento, sognando il giorno in cui suo padre lo
avrebbe portato a vivere le sue avventure. Il momento non era mai arrivato e
Hamish aveva imparato a nascondere la rabbia e la delusione crescenti dietro un
muro di indifferenza che si era trasformato in distacco. Leggendo l’opposizione
di Sherlock a portarlo con sé come un rifiuto, Hamish aveva rinunciato e smesso
di insistere, ma quell’anelito di avventura, l’adrenalina della caccia e del
pericolo, seppur confinati, lo avevano reso indisponente nei confronti di
quello che gli era stato negato e se un tempo era stato il più incalzante nel
reclamare i resoconti dei casi risolti da suo padre, da un giorno all’altro
aveva smesso di domandare, diventando persino più riservato.
Perché non me ne sono accorta prima?
Sherlock sta continuando a parlare e lei si sforza di prestare attenzione. Deve
capire – come si è arrivati a quel punto e soprattutto perché - per escogitare
un piano che salvi Hamish. Ma come può salvarlo da se stesso? Come si può
uccidere il mostro se mostro e vittima coincidono? E l’ho mandato da un altro
mostro e se ora lo perderò la colpa sarà unicamente mia.
“Quando è cominciato?” La sua voce è irriconoscibile, flebile e arrochita dalle
lacrime che non ha intenzione di piangere. Non sa cosa trovi più sfiancante, se
la lotta in atto contro il proprio corpo per riprenderne il controllo o la
compassione e la pena con cui Sherlock la sta guardando. La fa sentire piccola
e fragile ed è qualcosa che non sopporta. “Quando ha smesso di essere –”
Normale, vorrebbe chiedere, ma non riesce a pronunciarlo, la parola le è
rimasta incastrata tra i denti. Sherlock ovviamente intuisce lo stesso la
natura della sua domanda, ricominciando a snocciolare fatti in fretta, in tono
febbrile e senza interrompersi. Rosamund, che lo conosce come se fosse un
secondo padre, sa che ha la propensione a farlo quando è in preda
all’agitazione.
“Non ha avuto problemi fino ai nove anni, poi qualcosa è andato terribilmente
storto. Non abbiamo mai capito chi fosse il rapitore, ho le mie teorie, ma
nulla di comprovato e dopo che lo abbiamo trovato non ha più avuto importanza.
Quello che conta è che da allora non è più stato lo stesso. Ha cominciato a
comportarsi e a parlare in un modo inconcepibile per un bambino della sua età.
Si sono verificati episodi, casi isolati. Non sembrava in sé quando accadeva e
una volta posto di fronte alla realtà dei fatti, reagiva con orrore come se ne
fosse sconvolto. Gli psicoterapeuti e i trattamenti erano inefficaci. Aveva
smesso di mangiare e dormire. Molly era disperata.”
E’ difficile non concentrarsi sull’ultima frase, soprattutto non leggere tra le
righe il non detto ‘come lo ero anch’io’. Rosamund non ricorda un granché di
quel periodo sennonché… Non è stato l’anno in cui suo padre l’aveva convinta a
frequentare il Malborough College? Era riuscita a farsi accettare, nonostante
uno dei requisiti indispensabili per l’ammissione fosse che gli alunni
dovessero avere tredici anni compiuti. Ricorda di essersi trasferita nel
Wiltshire controvoglia, di aver trascorso il viaggio di andata piangendo per la
rabbia e la solitudine, per la repentinità del cambiamento, per il fatto che
nessuno avesse trovato il tempo di accompagnarla, per non essere neppure
riuscita a salutare Hamish e Aggie e perché l’avevano messa sul primo treno in
partenza dalla stazione di Paddington come un pacco sgradito. C’era stato un
caso urgente, le sembra di ricordare adesso. Non è quello che le avevano detto?
E Molly era sembrata così pallida e fuori di sé quando l’aveva abbracciata – un
abbraccio vigoroso che per un attimo l’aveva lasciata senza fiato -, prima di
affidarla ad Anthea, che Rosamund aveva ingoiato il rospo.
Molly era disperata.
Rosamund deglutisce. “Cosa hai fatto? Sherlock, cosa gli avete fatto?”
Sherlock non distoglie gli occhi dai suoi, la sua bocca ha una piega feroce e
dura. Lei riconosce quella smorfia, è la stessa che ha visto su un volto
identico seppur più giovane. Come se stesse mandando giù un boccone
impossibilmente amaro. “Ho fatto una scelta impossibile. Dissonanza cognitiva.
E’ quello che ho cercato di ottenere, ma alla fine è diventato un disturbo
dissociativo dell’identità.”
Dall’elicottero Hamish osserva spassionatamente la distesa grigio piombo del
mare che stanno sorvolando. La pioggia ha fatto alzare la foschia e rende la
visibilità scarsa, ma il pilota non sembra preoccupato, al contrario è in vena
di chiacchiere. A quanto pare è un fan di suo padre. Quando lo hanno avvisato che
avrebbe scortato il signor Holmes, non aveva sicuramente immaginato che si
sarebbe trattato del signor Holmes Jr.. Hamish lo ha visto dissimulare a
malapena la sorpresa quando è sceso dalla macchina con Anthea, ma si è ripreso
subito e quando gli ha stretto la mano, chiedendogli se era la sua prima volta
in elicottero, alla sua riposta affermativa gli ha sorriso in modo cordiale e
gli ha assicurato di non preoccuparsi e che non ci sarebbero stati incidenti di
percorso.
“C’è un po’ di turbolenza, più del previsto, intendo. Se dovesse coglierti la
nausea, tieni questo.”
Quando gli passa un sacchetto di carta, Hamish si limita a prenderlo senza una
parola e continua a fissare ostentatamente il panorama.
Cercando di concentrarsi sulla bufera che impervia all’esterno, spera di
soprassedere su quella che gli scalpita nella testa. Chiude gli occhi e poggia
la fronte contro il vetro. Istantaneamente le immagini si sovrappongono come
una mandria impazzita sulle sue palpebre dolorosamente serrate. Sangue.
Le lacrime di paura di Aggie. Il turbamento e lo shock sul volto di Rosamund.
Pensa ad altro, si ordina con fermezza.
Rosamund. L’abbraccio che gli ha dato prima che uscisse da Baker Street. Si
sforza di soffermarsi sul calore del suo corpo, sulla fragranza floreale
impressa nella sua pelle, sull’acciaio delle sue braccia avvinte strettamente
attorno al suo diaframma. Sembrava che volesse strappargli una promessa di
qualche tipo. Se si trattasse di chiunque altro, Hamish sarebbe a corto di
spiegazioni, ma il punto è proprio quello, che non si tratta di chiunque altro.
E’ Rosamund e lui ha ascoltato ogni pensiero che le ha attraversato la mente
come se fosse stato uno dei suoi.
Torna.
Sii cauto.
Ti amo.
Quando lei aveva sciolto l’abbraccio e fatto un passo indietro per porre un
minimo di distanza, l’aveva vista raddrizzare le spalle in un gesto deciso, ma
non era bastato a convincerlo. I suoi occhi raccontavano una storia diversa,
vulnerabili e contriti esattamente come lo erano stati la prima volta che lui le
aveva confermato le sue paure. Non aveva potuto fare a meno di baciarla.
L’aveva sentita irrigidirsi sotto le sue mani, ma aveva messo a tacere sul
nascere il mugolio di protesta, causato principalmente per la sorpresa di quel
gesto così repentino e raro da parte sua. Di solito non si lasciava andare
facilmente a manifestazioni così esuberanti, ma non era naturale per lui
trovare conforto nell’unico posto in cui era sicuro di riceverlo?
Nelle ultime ventiquattrore aveva scoperto di avere una zia disfunzionale e psicopatica, la cui esistenza era stata abilmente obliata per preservare –
“Cosa?” aveva chiesto, rivolgendo un’occhiata incandescente a
Mycroft.
Suo zio non aveva battuto ciglio, limitandosi a mimetizzarsi dietro uno dei
suoi perfetti sorrisi da repertorio. “Ogni famiglia ha uno scheletro
nell’armadio.”
“Peccato che i nostri siano vivi,” lui aveva persistito piccato. Come avevano
potuto?
Il sorriso plastificato si era liquefatto come neve al sole. “Cosa avresti
preferito?” aveva ritorto e poi, quasi crudele nella sua schiettezza, gli aveva
esposto in modo inequivocabile le altre soluzioni ‘meno eleganti’. Ancora
adesso sentiva il sangue congelarsi nelle vene.
“Non dimenticare,” Mycroft aveva concluso, spietato e inesorabile, “che la
famiglia è famiglia.”
“L’atterraggio è previsto tra dieci minuti.”
Hamish non riapre le palpebre. Se lo facesse cosa vedrebbe se non gli occhi di
Rosamund e di suo padre, a fissarlo dalle onde vorticose dabbasso o dalle
nuvole temporalesche che abbattono contro l’elicottero frustate d’acqua e
cercano di sopraffarli?
All’ennesimo violento scossone, lo stomaco di Hamish si attorciglia e la bile
gli invade la gola e le narici. Quando atterrano, è questione di secondi prima
che lo stomaco si rivolti contro di lui e gli faccia rigettare anche l’anima
nell’insulso sacchetto di carta che il pilota – Jeff, rimprovera a se stesso.
Il nome del pilota è Jeff – gli ha dato.
“Qualunque cosa tu debba fare là dentro, ragazzo, non sei costretto. Chiunque
ti abbia fatto credere il contrario –”
“Aveva ragione,” lo interrompe Hamish, non con scortesia, ma abbastanza
energicamente da evitare repliche. “Non sono costretto,” aggiunge con maggiore
gentilezza, “ma devo ugualmente.” Con un’alzata di spalle e un sorriso di
circostanza, aggiunge: “La famiglia è famiglia.”
*
Nel momento in cui mette piede nella struttura, è accolto da un uomo alto e
robusto, sulla sessantina, che indossa un completo che odora di naftalina.
“Paul Wang,” si presenta. Non gli porge la mano e non sorride. Per qualche
motivo gli ricorda il suo insegnante di ginnastica alle scuole elementari.
“Supervisiono la struttura. Saranno vent’anni quest’autunno. Fare la sua
conoscenza è un piacere, Signor Holmes.”
“Il piacere è mio,” risponde Hamish educatamente, forse troppo educatamente a
giudicare dall’incredulità con cui il sig. Wang reagisce. Hamish ci ha fatto il
callo. Essere il figlio di Sherlock Holmes lo ha abituato a reazioni peggiori.
Ma dopotutto non è solo il figlio di suo padre, è anche il figlio di sua madre.
Il rispettabile, conciliante, stimato Dottor Molly Hooper.
“Se vuole seguirmi,” lo invita il sig. Wang con insospettata solerzia. E’ come
se volesse sgravarsi della sua presenza il prima possibile. Hamish non può
fargliene un torto. Dietro tutta quella naftalina, l’odore del pranzo che ha
interrotto sembra davvero invitante.
Il sig. Wang gli fa strada e mentre comincia a descrivere
particolareggiatamente la storia del forte napoleonico in cui si trovano, del
suo utilizzo come posizione militare durante la prima e la seconda guerra
mondiale, Hamish prende nota del personale e del numero di telecamere interne,
dei sistemi di sicurezza allestiti. Quando il sig. Wang lo rassicura
sull’affidabilità dell’impianto di detenzione della prigione, Hamish vorrebbe
evidenziare già tre falle che ha notato.
“Siamo arrivati. Ultimo livello, il più isolato nonché il più sorvegliato
dell’intera struttura. Ora, mi permetta qualche raccomandazione.” Il sig. Wang
elenca tutta una serie di moniti, alcuni dei quali Hamish trova francamente
ridicoli e tra i quali spiccano la necessità di mantenere una distanza di
almeno due metri dal vetro protettivo e il divieto all’utilizzo di una serie
esorbitante di parole. E poi arriva il più assurdo di tutti. “E un ultimo
avvertimento. Non la guardi troppo a lungo negli occhi. Molti grandi uomini si
sono smarriti dietro quelle porte e alcuni, mi dispiace dirlo, non hanno più
fatto ritorno. E’ ancora di sicuro di voler procedere?”
Hamish non ha la minima esitazione. Con un cenno sicuro, conferma: “Sono
sicuro.”
“Buon pro le faccia,” è la sfacciata replica e il sig. Wang scuote la testa
come per dire che per quel che valga, lui ha fatto la sua parte e ha provato a
dissuaderlo. Ma la scelta è sua e quando striscia la tessera magnetica nel
lettore e mette piede nella cella di contenimento, Hamish sa che era l’unica
possibile.
*
La donna all’interno della cella non è per niente come se l’era
aspettata. Ma cosa ti eri aspettato, sciocco? Bellatrix Lestrange e la
sua risata da invasata? O la violenza cattiva di Bertha Mason? Indesiderata,
gli sovviene alla memoria una citazione di Pope. I pazzi osano dove gli angeli
temono d’andare.
La rassomiglianza con suo padre, inutile a dirsi, è impressionante. La forma
degli occhi, così peculiari e ovviamente i tratti somatici del viso e il colore
dell’iride che, lui scommette, come nel caso di suo padre, a seconda della luce
cambierebbe da verde chiaro ad azzurro intenso per quella tipologia di
eterocromia che li contraddistingue.
Eurus Holmes, il genio pazzo la cui intelligenza rivaleggia con quella di Isaac
Newton. Nonostante tutto il resto, per la prima volta da quando ha scoperto la
verità, lui si sofferma a riflettere sullo spreco di quella vita distrutta
precocemente.
Eurus lo sta esaminando con la circospezione del predatore in attesa del
momento più propizio per attaccare. “Buongiorno, Alexieres.” La sua voce è
pastosa e vagamente ipnotica. Il serpente di Eva doveva avere una voce
simile.
Hamish fa un passo in avanti, incurante dei suggerimenti del sig. Wang. “Quello
non è il mio nome.”
Il sorriso di lei si schiude come il miracolo di un bocciolo in pieno inverno.
“Certo che lo è. Ricordo perfettamente quando l’ho suggerito ai tuoi genitori.
È stato un Natale carino, quello. Ma un nome è solo un nome, non è così?
Definire è limitare. Sherlock mi ha detto che sei un filosofo. Cosa pensi degli
assoluti?” Il suo sorriso si incrina agli angoli, i suoi occhi sembrano
arricciarsi e le rughe che si formano sono indicatrici dell’età che il suo
volto altrimenti levigato non lascerebbe intuire. “Sembri confuso.”
Non lo è. “Non lo sono.”
Lei sembra compiaciuta dalla risposta. “Ma stai provando un’emozione. Sono
diventata piuttosto brava a registrare i cambiamenti umorali, ma Sherlock rimane
l’unica persona in cui riesco a riconoscerli. Perciò, cos’è? Che emozione stai
provando?”
La curiosità cede il passo a qualcos’altro, qualcosa che lui è lesto a
identificare e tenere a bada. “Rabbia,” la classifica malvolentieri. Le sta
permettendo di infilarsi nei suoi pensieri, di entrargli sottopelle. “Sto
provando rabbia.”
“Dimmi perché.”
La rabbia si smorza in una fitta di noia. “Tu sei il genio nella stanza.
Dimmelo tu.”
“Non credo di poterlo fare. Non sei adeguatamente preparato per questo genere
di gioco. Ti romperei e poi Sherlock non suonerebbe più per me. Mi sono
affezionata alla sua musica.”
Lei continua a testarlo. E’ come il gioco del gatto col topo. Saggiare i
limiti, sperimentando strategie differenti. Hamish si richiama alla calma, pensando
all’unica altra persona, oltre a Rosamund, capace di stabilizzarlo. Il pensiero
di sua madre, però, dato il contesto attuale, è un errore tattico. Dopotutto
- “È colpa tua se non le dice mai che la ama.”
Lei poggia i palmi aperti contro la superficie di vetro, ai lati del suo viso e
continua a fissarlo senza battere ciglio, senza mutare espressione. E’
sconcertante quasi quanto è inquietante. “Tu sei quello emotivo, proprio come
Sherlock. Ma lei, lei è diversa, proprio come me. Cosa farai, Alexieres? Quando
lei ti si rivolterà contro? Impugnerai le armi e combatterai contro di lei o ti
lascerai annientare per amore e spirito di sacrificio?”
Un improvviso groppo in gola, il groviglio di allarme e tensione che ha tenuto
a bada nelle ultime settimane sembra crollargli addosso. Il peso del mondo che
gli è caro, poggiato sulle sue spalle e la fonte del problema che potrebbe
diventare anche la sua soluzione. Il pensiero di Aggie, agguerrita e dolce e
perspicace e troppo sveglia per il resto del mondo. Aggie e i suoi momenti di
buio, ma ora che l’ha vista, che ha visto il mostro alla bocca dell’inferno, ne
è sicuro. “Lei non è come te,” dice e nel momento in cui le parole lasciano la
sua bocca sa che è vero e il fardello diventa sopportabile.
“Ma lo diventerà. O potrebbe. Non è questo il motivo per cui sei qui?” Senza
offrirgli la possibilità di rispondere, lei prosegue, gli occhi magnetici che
lo trapassano da parte a parte, che lo sfidano a non distogliere lo sguardo.
“Cosa vuoi diventare da grande, Alexieres? Un uomo di azione o di ragione, di
poesia o di scienza?”
“Sono il figlio di Sherlock Holmes e di Molly Hooper. Posso essere entrambi.”
“Cosa mi dici di tua
sorella? Cosa diventerà lei? Axia. Significa…”
“Degno di valore in greco antico. Lo so.”
Un lampo le attraversa lo sguardo e qualcosa dentro di lui sembra tremare in
risposta, non riesce a capire se sia per piacere o per il suo esatto opposto.
Con Eurus, lui ha già capito, la distinzione diventa problematica. “Il bravo
ragazzo ha studiato la sua lezione prima di venire qui. Dimmi, cos’altro sai?”
“So perché ti hanno rinchiusa qui dentro. Perché sei il male e ferisci le
persone.”
Lei aggrotta la fronte e comincia a scuotere lentamente la testa. Nel dondolio,
i lunghi capelli scuri le cadono davanti al viso in ciocche scomposte e
disordinate. Il bisogno di rimetterli al loro posto è prepotente e quasi
fisico. “No, no. Stavi andando così bene. Non essere come loro, noioso e
banale. Cos’è il male?” lei chiede e la sua voce ha acquisito una nota cantilenante.
“L’attributo che viene dato a un comportamento ritenuto moralmente scorretto,”
lui risponde d’impulso.
Lei lo ricompensa con un sorriso penetrante. “Attributo, non un assoluto.”
“E’ anche quello,” lui concede.
“Cosa si intende per moralmente scorretto?”
Anche questa volta, a lui non occorre riflettere prima di trovare una risposta
soddisfacente. “Uccidere. Mentire. Rubare,” elenca con prontezza. “Tutto ciò
che implica una effrazione del sistema giudiziario.”
“Oh, è tutto così buffo! Tu e le bugie che racconti come se fossero verità
dissacranti. Sai qual è la cosa ancora più buffa?” La risata tintinnante di lei
muore con un silenzio fragoroso. Spalanca la bocca e mostra i denti come se
fossero le fauci di un animale pronto ad azzannarlo alla giugulare. “Che tuo
padre ha trasgredito a tutte e tre eppure rimane il tuo eroe, l’uomo che aspiri
a diventare. E tua madre non è da meno. Tua madre che - ”
“Basta così,” interrompe una voce alla sue spalle e il cuore di Hamish fa una
capriola. Quando si volta è per incrociare lo sguardo saldo di sua madre. Non
sa bene perché, ma si sente arrossire sotto gli occhi limpidi di Molly, come se
lei lo stesse mettendo a nudo. Gli occhi di sua madre sono indagatori quanto
quelli di Eurus, lo scandagliano con la stessa intensità con la sola differenza
che sono quelli di una madre e perciò contengono un miracolo di cui quelli
dell’altra sono completamente sprovvisti. Sono gli occhi della memoria, gli
occhi di chi ha seguito ogni tuo passo dal tuo primo giorno di vita. Sono il
risveglio della coscienza e dei suoi rimorsi, che ti rammentano ogni tua caduta
e celebrano ogni tuo successo. Sono gli occhi dell’amore e del perdono,
entrambi illimitati.
Da un secondo all’altro Eurus ha cambiato atteggiamento. Il suo approccio è
meno invasivo, più sottile. Sorride e sembra quasi un sorriso naturale,
autenticamente felice. “Molly Hooper,” scandisce con attenta scrupolosità e
attraverso i muscoli del braccio che sua madre gli ha appoggiato sulle spalle,
tirandolo al suo fianco, Hamish sente la trazione nel corpo minuto di lei, così
rigido che nel caso di chiunque altro lui temerebbe l’inevitabile rottura.
“Eurus,” Molly dice nel tono amabile che le è consono, rispondendo al sorriso
di lei con uno di liquida contentezza. “Spero che perdonerai questa visita non
concordata.”
“Non trattarmi come un’estranea, Molly. Dopotutto siamo famiglia.”
“Lo siamo,” Molly accetta in tono conciliante, il suo sorriso è una stilettata
di garbo e grazia, “e ti pregherei di ricordartene la prossima volta che
cercherai di turbare mio figlio.”
Senza una seconda parola, Hamish si sente tirare per il gomito. “Andiamo,” sua
madre gli sussurra in tono accorato all’orecchio.
Ma la cella è grande e non hanno percorso neppure metà del tragitto che la voce
di Eurus li raggiunge. “Non puoi sfuggire alla verità, Molly Hooper! Ti
inseguirà nella tomba se necessario e sarà quella che ti sei costruita con le
tua stesse mani! Non è di un Moriarty che stiamo parlando, ma di me. Lui è come
me! Me!”
*
Fuori dalla cella, Hamish non fa in tempo a parlare. “Mamma,” incomincia, ma
l’accenno di scuse non sembra sufficiente.
Molly si volta e non c’è parte di lei che non sussulti quando lo colpisce con
forza sul viso, una volta e poi una seconda. “Hai la minima idea,” lei sillaba,
tenendo a stento a bada la rabbia che la fa tremare da capo a piedi. “La minima
idea,” lei ripete, gli occhi che scintillano come specchi, “di quello che hai
innescato venendo qui? Qui, tra tutti i posti al mondo? Hai idea di
quello che lei avrebbe potuto farti se non fossi arrivata?”
Umiliato, mortificato, pentito, lui non si massaggia la zona colpita anche se
pulsa e sente il rossore comincia a imporporargli gli zigomi. “Non sarebbe successo
nulla. Sarei stato perfettamente in grado di gestire la situazione.”
Quando Molly solleva di nuovo il braccio, prevedendo l’ennesimo manrovescio,
Hamish chiude gli occhi e si prepara al contraccolpo. Quello che non si aspetta
è il peso morbido del corpo che lo attira al suo, la dimensione confortevole e
familiare delle braccia di sua madre attorno alle spalle che lo tirano verso il
basso. La sorpresa è stordente, mai quanto la sensazione avvilente di umido che
gli attraversa il golfino. Se c’è una cosa che non sopporta è far piangere sua
madre, quella dopotutto è prerogativa di suo padre. “Mai più,” la sente dire in
un singhiozzo rotto.
Hamish sospira e passa le sue lunghe braccia attorno alla piccola schiena di
sua madre, sentendola tremare per il sollievo contro il suo petto come se fosse
appena sopravissuta a un’esperienza traumatica.
Ci sono tanti segreti della sua famiglia che gli sono ancora preclusi,
conversazioni da fare e cose da mettere in chiaro, torti da raddrizzare, ma
qualcosa da sistemare è già a portata di mano ed è la promessa che non agirà
più alle spalle di sua madre. “Mai più,” acconsente con un sospiro.
E’ solo molto più tardi, quando l’elicottero di Jeff decolla dalla zona della
spiaggia adibita a pista di atterraggio, mentre seduta nel posto di copilota e
credendosi non vista, Molly lo osserva con la code dell’occhio e chiacchiera
amabilmente con Jeff dell’ultimo cadavere di cui ha identificato le ragioni di
morte, è solo osservando in lontananza Sherrinford trasformarsi nel profilo
massiccio di uno grosso cumulo di pietre, che le ultime parole di Eurus fanno
breccia nella sua mente.
Lui è come me, l’ha sentita urlare. Lui, non lei.
N/a:
Sì,
lo so, guardate il figliol prodigo che torna all’ovile. Spero davvero tanto che
questo capitolo riesca a farmi perdonare il mio essere stata uccel di bosco
così a lungo. Dio, non ci credo, ma la data di pubblicazione non mente. E’
trascorso un anno mezzo dal primo capitolo. Che fine ha fatto il tempo? Sono
alla ricerca disperata di tutto quello che ho perduto xD
Tornando
a noi, cosa pensate di questo secondo capitolo? Vi ho colti alla sprovvista
almeno un pochino? Dite la verità, non vi aspettavate questo ribaltamento di
prospettive! Perciò, ricapitolando, ora tutti sanno che non si è mai trattato
di Agnes, sono al corrente della terribile verità, compreso Hamish. Cosa
succederà adesso? In che modo questo andrà a scalfire i rapporti familiari e a
modificare l’affiatamento del dinamico duo?
Fatemi
conoscere la vostra opinione e mi risolleverete il morale alle stelle.
Un
abbraccio forte