Coincidenze
mancate
È
un sonno senza sogni, quello in
cui è caduta Sigyn. Di quelli pesanti, che ti avvolgono come
una coperta
spessa: ma non è ristoratore, non concede nessuna tregua
alla veglia. Se
sognasse, probabilmente rivivrebbe frammenti della giornata appena
trascorsa,
ripeterebbe frasi che ha pronunciato poche ore prima. Vedrebbe il
sangue, le
ossa spezzate, gli organi lesi. E poi sentirebbe le grida di dolore, i
pianti.
Invece, galleggia nell’oblio.
Il
suo turno è finito solo da
qualche ora quando una mano nervosa l’ha scossa,
svegliandola. Ha aperto gli
occhi a fatica, riemergendo da quel tunnel oscuro che l’ha
inghiottita e
finalmente riconosce Ingrid, la ragazzina che le hanno messo come
praticante, scuoterla
con aria contrita.
“Signora,
hanno portato un ferito
molto grave. Dovrebbe venire a vedere, per favore.”
Sigyn
si tira su dal pagliericcio
improvvisato su cui si è gettata nemmeno quattro ore prima,
dopo essersi
sciacquata dal viso, dalle mani, dal corpo, il sangue che le imbrattava
i
vestiti, la pelle, la mente, dopo l’attacco degli Elfi Neri.
“Perché
chiami me, dove sono gli
altri?” domanda, mentre si getta acqua fredda sul viso
delicato. La ragazza
cerca le parole. “Nessuno vuole occuparsene,
Sigyn,” dice a bassa voce. Alza
gli occhi e vede che, dietro ad Ingrid, c’è una
guardia.
La
donna alza un sopracciglio.
Adesso è perfettamente sveglia. Se si specchiasse, vedrebbe
ombre scure sotto
gli occhi grigi, tracce di stanchezza sul viso diafano, i biondi
capelli
arruffati in un raccolto disordinato. Ma non ci bada, perché
nell’ovale
riflettente di fronte a sé cerca Ingrid, che si affanna a
spiegare: le altre guaritrici,
dice, hanno visto il ferito, ma si sono spaventate, non lo vogliono
toccare
nemmeno con un bastone.
Per
cosa, ruggisce lei, gettandosi
un mantello bordato di pelliccia sulle spalle sottili. Segue
l’apprendista per
le volte scure di Asgard. È notte fonda, tira un ventaccio
gelato che penetra
nelle ossa, graffia la faccia. Sigyn cammina svelta, continuando a
interrogare
l’apprendista che trema e risponde concitata. Le dice che il
paziente è grave
ma che, se anche si rifiutasse di curarlo, nessuno gliene farebbe una
colpa.
Lei è infuriata: ha giurato di assistere il prossimo,
chiunque esso sia, in
qualunque condizione si trovi. Non mancherebbe mai alla parola data.
Nota
vagamente, capirà solo dopo, non appena entrerà
nella stanza, di essere giunta
nell’ala del palazzo adibita alla schiatta di Odino. Le
guardie sono ferme a
ogni angolo, rigide e immobili, e paiono non vederla nemmeno. Poi varca
la
soglia della stanza quasi di corsa; le fiamme, nei candelabri, tremano
appena
al suo passaggio. Illuminano fioche una stanza riccamente affrescata.
Per
terra, sul marmo roseo, sono stati gettati stracci imbevuti di sangue,
frammenti
di abiti scuri, stracciati. Sul letto giace un corpo cereo, un braccio
penzola
abbandonato oltre le coltri. Ha linee eleganti, il polso e le dita sono
affusolate. Sigyn fa un altro passo avanti. Il cuore perde un battito.
Lo
conosce, quel corpo, l’ha toccato, quel braccio.
***
Nornheim
era un tripudio di fiamme,
di torce che brillavano, di canti di soldati felici di tornare a casa.
La
battaglia finale si era conclusa. Avevano vinto. Il principe Thor era
riuscito
a sconfiggere le armate nemiche ricacciandole giù, nel mondo
di tenebra da cui
erano uscite, anche se c’era voluto il trucco di una nebbia
fitta e
invalicabile, un incantesimo potente davvero, per tirar fuori tutti i
guerrieri
da quella mattanza.
Il
figlio di Odino beveva idromele
di fronte ai falò scoppiettanti e la sua risata fragorosa si
udiva in tutto l’accampamento:
la tensione dei giorni passati era scomparsa, annegata dal vino, dai
canti, dalle
risate. Solo Sigyn e le altre guaritrici quella sera non festeggiavano.
Nelle
loro tende ampie si muovevano rapide tra i feriti, cucendo,
disinfettando,
bendando i soldati. A uno donavano una parola di conforto, a un altro
il
sollievo di un unguento sulle ferite. Loki era davanti a lei, e celava
in un
sorriso tirato la smorfia di dolore che gli causava quella medicazione
fastidiosa.
Era
apparso nell’infermeria
scortato da un paio di guardie, con una coppa stretta tra le dita, gli
occhi color
di bosco accesi dal vino e un sorriso sbieco sulle labbra sottili. Si
era
fermato davanti a lei e alle altre guaritrici e aveva alzato il calice
pieno di
idromele. “Brindiamo alla vittoria, mie belle signore! I
bardi già stanno
componendo un canto che celebrerà questa
giornata!”
E
si era messo a raccontare, con
voce incantata e sguardo brillante, rapito, di come
l’esercito nemico si fosse
ritirato, il loro comandante giacesse prigioniero nel loro
accampamento, e lui
stesso avesse evocato una nebbia fittissima, che aveva permesso a suo
fratello
di portare in salvo tutto l’esercito.
Ma
se un braccio era alzato verso
il cielo stellato, l’altro gli penzolava a un fianco, e una
fascia imbrattata
di sangue gli stringeva il bicipite nervoso. Il giovane principe pareva
non
accorgersi della brutta ferita che aveva riportato. Non si era reso
conto,
mentre creava l’illusione spettacolare, che un guerriero
nemico lo aveva intercettato,
gli si era avventato contro e poco c’era mancato che gli
staccasse di netto
l’arto.
Lo
avevano assegnato a lei, giovane
e volenterosa, e Loki aveva gradito tale scelta: le aveva rivolto un
ghigno da
gatto soddisfatto e l’aveva seguita, esultando con le guardie
per la fortuna
toccatagli.
Era
bello, il giovane figlio di
Odino. Alla luce della candela che rischiarava i loro volti, lei si
incantò sul
suo profilo affilato, sugli occhi verdi in cui brillava ora una luce
divertita,
ora un lampo sagace, sul nero dei suoi capelli così insoliti
per un Ase. Lui
parlava, mentre lei gli tagliava la manica inzuppata di rosso, tirava
via con
delicatezza la stoffa che si era appiccicata alla ferita.
“È
stato un incantesimo davvero
meraviglioso,” commentò mentre con mano gentile
iniziava a pulire la profonda lacerazione.
Loki
sorrise. Thor e Sif avevano
minimizzato, l’avevano definito un espediente. Ma erano
servite astuzia,
intelligenza, e una grandissima quantità di seiðr
per ricoprire il campo di
battaglia di vapore ottenebrante, come nemmeno su Niflheim ce
n’era uno uguale;
aveva compiuto una grandissima impresa, e se quegli sciocchi idioti dei
suoi
compagni non se ne erano accorti, anzi, non lo avevano voluto
ammettere, ciò
era dovuto solamente all’ottusa, irragionevole, avversione
alla magia propria
degli Aesir.
“Ti
piacciono, le magie?” domandò
lui, e un guizzo divertito gli attraversò gli occhi verdi.
“Mi
piacciono le trovate
intelligenti, e il tuo è stato un colpo di
genio,” rispose la ragazza
sostenendo quello sguardo indagatore e vivace. Si morse le labbra.
“Ci sono
delle schegge, per estrarle ti farò molto male”
aggiunse.
“Sono
il figlio di Odino, non posso
mettermi ad urlare” ribatté Loki rivolgendole il
suo sorriso più bello.
***
Nornheim
è un ricordo lontano.
Sbiadito, passato, che Sigyn credeva di aver dimenticato, ma che ora
riemerge
prepotente. Nornheim è anche un rimpianto, ma a questo ora
non può pensare.
Loki è riverso su quel tavolaccio freddo come se fosse una
bambola rotta. La
ferita è quasi certamente mortale. Bisogna tamponare,
disinfettare, cucire.
Deve riuscire a farlo vivere. Se le morisse sotto agli occhi, non se lo
perdonerebbe mai. Lavora per ore, sperando che lui non collassi, che la
ferita
non si infetti. Fa tirare giù dal letto un altro paio di
apprendisti, li fa
lavorare accanto a lei, finché non si rende conto che ha
fatto tutto ciò che
può. Allora lo fa trasportare sul letto e si lascia andare,
stanca e sfinita,
su una sedia accanto a lui. Nessuno è venuto a trovarlo.
Nessuno chiede come
stia. La luce dell’alba, fredda e glaciale, filtra dai vetri
smerigliati. Sigyn
si è avvolta nel suo mantello, si è rannicchiata
sulla sedia e fissa il braccio
pallido di Loki. C’è un piccolo segno, una vecchia
cicatrice. La sua.
La
voce di Loki ogni tanto tremava.
Quando lei doveva estrarre le piccole schegge che gli si erano
conficcate nel
braccio, lo vedeva impallidire, dilatare le pupille verdi, contrarre la
mascella. Ma non un gemito usciva dalla sua gola.
“Il
figlio di Odino resiste bene al
dolore,” osservò lei con un sorriso.
“Sei
tu, che hai un tocco delicato,”
ghignò il principe senza staccarle gli occhi di dosso.
Guardare com’era ridotto
il braccio sarebbe stata una tortura inutile. La pelle di lei, invece,
alla
luce delle candele, aveva un candore quasi lunare, e la consistenza di
una
pesca.
La
medicazione faceva male, era
dolorosa. Continuava a sorridere, poiché era certo che se ci
fosse stato Thor, al
suo posto, non avrebbe sofferto così tanto e, se suo
fratello non provava
dolore, nemmeno lui era autorizzato a provarne. Avrebbe finto di non
sentire
nulla finché non fosse diventato vero.
Fu
per ignorare il dolore, che
iniziò a parlare, e lei, ogni tanto, alzava il capo biondo e
scarmigliato e
sorrideva divertita. Sigyn pensò che fosse affascinante il
giovane principe.
Era bello, parlare con lui. Scoprì che amavano le stesse
vecchie storie,
trovavano buffe le medesime cose, e quando finì di
fasciargli la ferita, entrambi
si dispiacquero un poco di doversi separare. Ma un guizzo furbo
attraversò gli
occhi verdi di Loki.
“Non
vi fermate mai per una pausa,
voi guaritrici? Potremmo passeggiare qui intorno. L’aria
della sera è tiepida e
fresca.”
“Ci
dobbiamo occupare dei feriti,
noi guaritrici. Non possiamo lasciare il nostro incarico,”
rispose lei.
Un
sorriso storto si stampò sul
viso affilato del giovane Ase. “Ma allora è
perfetto. Io sono ferito, e avrei
tanto bisogno di fare due passi fuori. Ma mi sento girare la testa, e forse mi dovresti accompagnare. Sei la
mia guaritrice,
dopotutto,” insinuò con voce dolce.
Sigyn
era ancora una ragazza, e
quella era la sua prima vera battaglia. E Loki era bello, e
tremendamente
affascinante, e lei arrossì vistosamente a quella proposta
azzardata. E, poiché
erano giovani e spensierati, la sua superiore la lasciò
andare, fissando con un
mesto sorriso, un rimpianto antico, la figura alta e sottile del
giovane
Odinson che si faceva teatralmente prendere sottobraccio
dall’esile figurina
della ragazza.
***
Il
respiro di Loki è flebile. I
battiti del suo cuore sono fievoli colpi nel petto massacrato. Sigyn ha
dormito
forse un’ora, forse due. Su Asgard cade una pioggia mista a
neve. Cambia le
fasciature con tocco gentile e uno sguardo pietoso. Ha fatto tutto
quello che
era in suo potere, per salvarlo. Ora dipende da lui. Se Loki
vorrà vivere,
dovrà iniziare a lottare. Altrimenti, non si
sveglierà semplicemente mai più.
Sigyn rabbrividisce, non sa se per il freddo o per altro. Vorrebbe
parlargli,
crede che la sentirebbe, in quel sonno d’oblio in cui
è scivolato, ma non sa
che cosa dire: le loro vite si sono appena sfiorate, su Nornheim. Con
quale diritto
dovrebbe parlargli adesso? Sta ancora pensando a questo, alla notte
lontana
passata insieme, ai canti dell’accampamento, quando sulla
soglia arriva
qualcuno.
“Riesce
sempre a rovinare la serata.”
È Fandral, uno dei tre guerrieri che accompagnano sempre il
principe Thor.
Sigyn gli rivolge un’occhiata severa. “Siete venuto
per vegliare il mio
paziente?” domanda.
Fandral
scuote il capo. “Sono
venuto a controllare che non crei casini. O che non stia prendendo
tutti noi
per i fondelli, come suo solito.”
Sigyn
serra le labbra. “L’ho
ricucito io stessa. Non può nuocere a nessuno, ve lo
assicuro.”
***
Il
cielo era meraviglioso. Una
distesa di stelle su una trapunta ora indaco, ora violetta, ora blu
cobalto. Era
il cielo di Nornheim, tanto bello da mozzare il fiato. Seduti
sull’erba umida,
coi nasi all’insù, Loki e Sigyn fissavano
l’immensa volta celeste. L’aria
fresca pizzicava le braccia scoperte della ragazza e il principe, con
un gesto
galante, le cedette la sua giacca scura. Lei gli sorrise.
Stringendosi
più a Sigyn, Loki
puntò il braccio sano verso le stelle lontane, sussurrandole
il nome e la
storia di quello scintillio antico, e fu mentre la ragazza si voltava
verso di
lui a chiedere spiegazioni che le loro bocche si trovarono
improvvisamente
troppo vicine.
E
lui affondò le dita nei suoi
capelli chiari, e sfiorò le sue labbra, stesi
sull’erba, in mezzo ai fiordalisi,
unici spettatori muti di una notte così bella da non
sembrare reale.
Ascoltarono i sospiri incerti, osservarono i nasi che si sfioravano e
le mani
che si cercavano timide, mentre i canti degli Asi vittoriosi
diventavano
sempre più fievoli.
***
Quando
gli è salita la febbre lei
era lontana, e questo non riesce a perdonarselo. Loki ha le labbra
riarse, ogni
tanto spalanca gli occhi color del bosco e il suo sguardo vaga per la
stanza,
senza guardare nessuno, nemmeno lei.
Ora
Sigyn gli passa una pezza
fredda sulla fronte incandescente, gli mormora parole di conforto che
lui,
forse, non può nemmeno sentire. Ma non ha importanza. Rimane
dopo il tramonto,
è ancora seduta sulla stessa sedia quando la notte si alza e
Sif si affaccia
sulla soglia.
“Non
voglio che muoia solo,”
confessa alla guerriera senza pietà che la fissa, muta, dal
vano della porta.
La donna non glielo dice, ma se Thor sapesse con quanta dedizione sta
curando
l’amato fratello, gliene sarebbe più che grato.
Sif è colpita da quella guaritrice
che, come lei, non si arrende, combatte, cerca fino alla fine di
salvare il suo
paziente. Vorrebbe chiederle perché tanta ostinazione, tanta
dolcezza; non l’ha
detto a Fandral, che sospira già per lei, ma crede che la
pietà dimostrata da
Sigyn abbia un significato diverso, più profondo: teme che
Loki, per la donna,
non sia un estraneo. Il momento imporrebbe delicatezza, riserbo, ma Sif
non è
una dama elegante di Godhaimer, è una guerriera; come tutti
i combattenti Aesir
sfoggia uno spirito indomito ed è sfacciata, irriverente.
Così, domanda alla guaritrice
se già conoscesse il dio degli inganni.
Sigyn
scosta dalle fronte di Loki
una ciocca scura e lo fa con una carezza gentile che conferma le
supposizioni
della guerriera. “Gli curai una ferita, a Nornheim.”
Sif
annuisce. Ricorda bene la
battaglia e, ora che ci pensa, le viene in mente anche che Loki
tornò ad Asgard
con il braccio fasciato.
“Fu
gentile, divertente,” prosegue
la donna.
“Quando
non meditava di fare del male
a qualcuno lo era, è vero” soffia Sif.
Sigyn
si morde le labbra, mentre
torna a tamponare la pelle riarsa della lingua d’argento di
Asgard. “Si sta lasciando
andare,” mormora.
***
Ci
sono notti che dovrebbero essere
eterne, non finire mai, pensò Sigyn, stretta tra le braccia
del giovane
principe degli Aesir. Sopra di loro, il cielo aveva assunto sfumature
violacee:
l’alba di Nornheim si avvicinava. I raggi del sole avrebbero
scacciato via quel
cielo incantato sotto cui si erano baciati e scambiati dolci confidenze
e,
forse, avrebbero spezzato l’incanto di quella notte fatata.
Non fu la luce a
rompere il loro abbraccio, ma la voce di Thor che rimbombava per
l’accampamento.
Cercava suo fratello. Loki si tirò a sedere sbuffando e si
passò la mano sana
tra i capelli scuri.
“Il
dovere mi chiama, mia cara guaritrice,”
disse, e un sorriso triste gli attraversò il viso magro.
Pensò che gli
dispiaceva, andarsene. Che sarebbe voluto restare in sua compagnia fino
all’alba e anche oltre. Con lei, ogni cosa avrebbe preso la
giusta piega,
sarebbe parsa più bella.
“Si
è fatto tardi. Devo
assolutamente rientrare anch’io,”
s’affretto a rispondere lei, lisciandosi
nervosa le pieghe della lunga gonna.
Si
era già incamminata verso la
tenda adibita a ospedale da campo, quando sentì la voce di
Loki.
“Aspetta.
Mio fratello non mi
tratterrà molto. Vediamoci qui all’alba.”
Sorrise
Sigyn, ed annuì felice.
***
Ci
sono notti che dovrebbero durare
per sempre. Ci sono notti che non dovrebbero finire mai. Ci sono notti
che
ricordiamo per tutta la vita. Per Sigyn, quella notte vuol dire
Nornheim e il
suo cielo blu e viola, perché è lì che
ha creduto, tra i baci di un principe
capace d’incantare con i suoi racconti e l’odore
dell’erba umida di pioggia,
che le favole potessero esistere davvero. Ma non ci pensa adesso, ora
che lui è
lì, steso di fronte a lei, e sta morendo.
Thor
non entra nella stanza. Rimane
sulla soglia, fissando immobile e sconvolto il corpo esanime del
fratello. Sif
è accanto a lui, in silenzio. Il dio del tuono si mette a
raccontare, con voce
grave e bassa, di come suo fratello gli abbia salvato la vita contro
Kurse,
l’Elfo Nero, e mentre lo fa osserva la larga fasciatura che
copre tutto lo
sterno di Loki e gli si riempiono gli occhi di lacrime. Infine, guarda
Sigyn.
“Voglio
ringraziarti, guaritrice.
Sei stata pietosa e gentile con mio fratello.”
Sigyn
tiene tra le sue la mano di
Loki, la stanchezza le ha segnato il viso.
“Era
mio dovere farlo,” mormora
lei.
“Sif
mi ha detto che hai conosciuto
mio fratello a Nornheim.”
***
L’alba,
su Nornheim, aveva delle
sfumature d’un rosa acceso impossibile da trovare negli altri
mondi. L’aria era
pungente e fredda, sulla collinetta erbosa dove Loki e Sigyn si erano
messi a
guardare le stelle. I raggi del sole, pian piano, scaldarono
l’erba umida, sciolsero
la rugiada sui fili d’erba e sui fiordalisi.
Loki
non l’avrebbe vista mai,
quell’alba. In quello stesso momento, era già in
viaggio verso Alfheim, come
ordinato da Odino, dove lo aspettava un’ambasceria
importante. Con la fronte
appoggiata al finestrino della lancia veloce e gli occhi persi nel
vuoto
dell’universo, pensò che non aveva avuto il tempo
di avvertirla. Lei sarebbe
andata lì, sulla collina, anzi, certamente già
c’era, e lo avrebbe aspettato
invano. E il rimpianto, per un momento, gli fece male quasi quanto il
braccio.
Quando
Sigyn giunse alla collina,
col fiato corto e la crocchia ormai sciolta, il sole era già
alto, l’alba era
passata. Non trovò nessuno ad aspettarla e credette che il
principe degli Aesir
fosse venuto all’ora stabilita e, non trovandola, se ne fosse
andato. Sospirò,
si strinse nelle spalle, si allontanò mesta. Mentre tornava
giù alla sua tenda,
sentì dai discorsi dei soldati che i principi erano partiti
in fretta, e si
avviò verso l’ospedale.
***
Thor
è andato via già da alcune ore
quando la febbre di Loki sembra abbassarsi. Apre gli occhi, batte le
palpebre,
ed i suoi occhi verdi, che Sigyn ricorda acuti e vispi, ora sono vacui,
e
persi.
A
un tratto però smettono di vagare
per la stanza e si soffermano appena su di lei. Non può
riconoscerla, Sigyn lo
sa. Lei per lui non è stata che una sera tra tante, un volto
dimenticato e
perso. Lui per lei, invece, è stato il ricordo
più bello. Un rantolo strozzato
esce dalle labbra riarse e screpolate del dio degli inganni che aveva
osato
ribellarsi ad Odino, che il silenzio della notte tramuta in un grido
disperato.
E Sigyn, pietosa e gentile, accorre al suo capezzale tremando, gli
inumidisce
con un tocco lieve la fronte, placa la sua sete.
***
L’ambasciata
su Alfheim durò più
del previsto, fin troppo. Loki tornò ad Asgard con un
braccio appeso al collo e
un rimpianto sepolto nel petto. Provò a mascherarlo con
l’idromele e le
ragazze, finse di ignorarlo mentre studiava le antiche rune e gli
incantesimi
dimenticati. Ma poi, una sera, si recò al palazzo dove
dimoravano le guaritrici.
Gironzolò attorno al perimetro della costruzione, poi
entrò tra lo stupore
delle guaritrici presenti, e chiese di lei. Dissero che era il suo
giorno di
riposo. Allora Loki sfoggiò il suo sorriso più
affascinante e si fece dire dove
fosse la casa della ragazza. Le guaritrici più anziane
pensarono forse che un
principe degli Aesir non dovesse corteggiare una giovane semplice e
spensierata
come Sigyn. Esitarono, e fu non senza una certa riluttanza che si
decisero
infine a rispondere al futuro ingannatore. Perché quel
ragazzo dall’aria furba
e le labbra sottili sapeva chiedere le cose e ottenerle, e ne era
consapevole.
Così l’Ase si incamminò per le viottole
strette che si stendevano al limitare
di Asgard dalle bianche torri. La vide al tramonto. Il cielo arancione
sembrava
infiammare l’acqua ormai blu del mare. Gli ultimi raggi del
sole morente, però,
accarezzavano le onde morbide dei capelli biondi di lei. Solo che le
sue mani
sottili e delicate erano strette tra quelle di un altro che la fissava
negli
occhi. Un’immagine perfetta, degna di un quadro. Loki Odinson
li osservò per un
istante di troppo. Poi guardò in basso e
inghiottì la sconfitta. Non era bravo
ad incassare, non lo sarebbe diventato mai. Si lasciò dietro
un mucchio di cenere
– un dono mai consegnato? – e non vide le mani
intrecciate sciogliersi né Sigyn
scostarsi. La voce di lei, ferma e decisa, risuonò forse nel
vicolo fino al
punto in cui lui, nell’istante sbagliato, aveva sostato. Ma
il principe degli
Aesir ormai era lontano, e non udì la ragazza dire che
l’amicizia non sempre si
trasforma in amore.
***
Loki
l’osserva. Fissa ogni cosa.
Poi si riaddormenta, lasciandosi sfuggire un sospiro che maschera il
dolore.
Quando si risveglia, il sole è già alto e Sigyn,
i capelli scompigliati sul
capo e l’aria stanca e distratta, sta riordinando la stanza.
“Non
dovevi lasciare che vivessi.”
Le pronuncia con lentezza, quelle parole. Senza guardarla. Lei gli si
avvicina.
La voce del principe degli Aesir le pare più roca di quella
di un tempo, e
dura. L’amarezza riempie ogni sillaba, gli attraversa lo
sguardo. “Te ne
pentirai,” preconizza.
Lei
si avvicina. Loki finalmente la
guarda, ma è un’occhiata fredda, la sua. La fissa
come fosse un’estranea. “Sono
una guaritrice. Il mio compito è salvare ogni
vita,” ribatte lei. La frase le è
uscita fuori dalla bocca in maniera meccanica. Ha immaginato che quelle
pupille
di cui ricordava la brillantezza l’avrebbero costretta a
voltarsi. Che si
sarebbe sentita i suoi occhi puntati sulla schiena e avrebbe avuto il
tempo di
cercare una frase da dirgli, una qualunque. Invece Loki si è
svegliato e le ha
detto qualcosa, allo stesso tempo, di vero e ingiusto.
L’Ase
volge a fatica il capo di
lato, verso la finestra. Il cielo arancione sta per diventare blu, le
prime
stelle si affacciano timide. “Sarei potuto morire in
battaglia,” prosegue Loki.
“Avrei avuto una bella morte. Una morte da
guerriero.” Sigyn si morde le
labbra. Sono giorni che a stento mangia e dorme nella poltrona accanto
al suo
letto. Ha passato nottate intere a ringraziare le Norne per ogni
battito del
cuore di quell’uomo steso di fronte a lei che non ricorda il
suo nome e
rimpiange di essere vivo. Le lacrime le inondano gli occhi affaticati.
Per un
momento, uno solo, è tentata dall’idea di
raccontargli di una sera lontana a
Nornheim. Ma è passato troppo tempo da allora, e Loki non
è più il ragazzo che
si vantava delle sue imprese. Lo dice la piega beffarda eppure severa
delle sue
labbra sottili e il disincanto con cui guarda ogni cosa, persino lei.
Vi
ho curato, una volta. A Nornheim. Il dio degli inganni piega il capo di
lato,
cerca di afferrare un ricordo svanito. Scuote il capo.
È una scena che si
verifica solamente nella testa di Sigyn. Due volte al giorno, mentre
gli lava e
cura le ferite e gliele benda con cura. Un pomeriggio si è
azzardata persino a
sfiorargli quella cicatrice antica, e l’Ase non ha detto una
parola. Ma cosa
dovrebbe dire, in fondo? Che senso ha rivangare quella vecchia storia?
Lei e
Loki non sono innamorati, né amanti. Avrebbero potuto
esserlo però.
“Aiutami
a fuggire.” L’ingannatore
non usa preamboli né giri di parole. Va diritto al sodo,
interrompendo il
flusso di pensieri della donna. Sigyn alza gli occhi stanchi e
cerchiati e
incontra quella di lui. È una sera come tante, ma negli
occhi di Loki scintilla
la stessa vitalità che l’ha incantata su Nornheim.
Le dita della guaritrice
rallentano, si fermano incerte sulla fasciatura appena cambiata.
“Ti
prenderanno” dice, e il suo
cuore perde un battito. Farà tutto ciò che vuole.
Non solo perché lui è
l’ingannatore e finirebbe per piegarla comunque al suo volere
con il suono
incantato della sua voce, ma per il ragazzo che era e ora non
è più.
Sebbene
inchiodato nel letto, l’Ase
alza il mento con fierezza, le labbra si piegano in un ghigno
compiaciuto. “Non
lo puoi sapere,” sorride fiero. Ma le mani di Sigyn si
bagnano di lacrime non
trattenute.
“Sei
troppo debole. Moriresti
fuggendo,” sospira.
Stavolta
la voce di Loki si
addolcisce, diventa quasi una carezza. “Morirei da uomo
libero,” la consola.
Non
basta. Non basterà mai. Pallido
ed emaciato, Loki varca la soglia di Asgard. Uno stivale calpesta
già la terra
brulla oltre le mura. Un altro, è posato sul selciato degli
Aesir forti, feroci
e vendicativi. Lei, avvolta in una mantella di lana pesante per
proteggersi dal
freddo del primo mattino, gli allunga una bisaccia con viveri e
medicinali.
Loki l’afferra, pare soppesarla. Guarda in basso, fissa la
linea di
demarcazione tra la libertà e la morte. Confine sottile, che
si confonde sotto
i suoi occhi appannati. Una smorfia di dolore e la guaritrice solerte
subito
gli è al fianco per sorreggerlo. Peccato non sorrida
più. Rideva moltissimo
quand’era ragazza. Potrebbe dirglielo. Rivelarle che il suo
tocco ora è più
esperto e delicato, ma il suo sorriso dolce era un balsamo potente.
Potrebbero
varcare insieme quella
soglia e provare a recuperare tutti i momenti che hanno mancato.
Basterebbe una
parola, ma l’alba è troppo vicina. Così
Loki sparisce oltre la soglia senza
voltarsi a guardarla. Tornerà indietro, però, e
quando gli domanderanno perché,
inventerà una bugia subito scambiata per vera.
Fine
L’angolo
di Shilyss
Cari
lettori,
Questa
è una shot triste che ho
sempre amato moltissimo e che ho scritto diversi anni fa, ma ho
revisionato
fino a oggi. So che vi aspettavate qualche capitolo legato alle long e
non
temete: arriveranno tutte, anche quelle aggiornate da meno tempo con i
consueti
appuntamenti (martedì e domenica). Ma ora veniamo a noi. Il
contesto è posteriore
a Thor: The Dark World anzi, come avrete senz’altro capito,
parte da un What if: cosa
sarebbe successo se Kurse avesse realmente colpito Loki ferendolo
a morte. Ecco, sarebbe stato
salvato
in tempo e forse, dico forse, avremmo avuto l’inserimento di
Sigyn anche nel
movieverse.
Il
riferimento alla battaglia di Nornheim
è tratto da una
celebre scena tagliata del primo Thor, dove Loki si vanta di aver
creato una
gigantesca illusione e aver permesso, così,
all’esercito Aesir di vincere.
L’idea
che la dea della fedeltà si
occupi di assistere il prossimo è, a mio avviso, abbastanza
IC con il suo
personaggio mitologico: non è forse assistenza quella che
offrirà a Loki
quando, nel mito, lo proteggerà con il bacile impedendo che
il veleno del
serpente gli corroda la faccia?
Il
precedente nel mio canon è in Tutte
le tue bugie, ma la dicotomia
infermierina solerte/amante ferito è un leitmotiv della
letteratura di guerra,
in particolare di Addio
alle armi di Hemingway.
Rispetto al mio solito stile c’è
un’alternanza tra il passato e il presente piuttosto
netta. I ricordi di Sigyn sono al passato, il presente è
reso con l’omonimo
tempo.
Ci
sono riferimenti a De André
sparsi per tutto il testo: vi segnalo le canzoni Andrea
e a La canzone di
Marinella.
Ringraziandovi
per essere arrivati
fin qui, mi auguro che la Fatina
dell’Ispirazione
possa spingervi a lasciarmi due righe su cosa ne pensate! Un caro
abbraccio,
Shilyss