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Autore: Happy_Pumpkin    01/07/2018    3 recensioni
si mordevano, giurando che non avrebbero mai mollato la presa l’uno dall’altro, anche al costo di strapparsi le carni a vicenda.
Una terra dimenticata, con il cielo oscurato da giganteschi edifici di metallo che cancellavano tutto il resto. Loro combattevano per riavere il Sole.
Auguri di Buon Compleanno, Fede
[GinTaka]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Gintoki Sakata, Takasugi Shinsuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Floating hearts






La nuvola di fumo si disperse nell’aria, scomparendo leggera, impalpabile, agguantata dall’oscurità che sembrava ferita dalla scia giallognola delle lampade sopra la sua testa. Le osservò un istante, uno solo, poi tornò a guardare la porta davanti a sé.

Sentì in lontananza dei colpi di pistola, infine tutto tornò immobile, rarefatto in quel frammento di tempo apparentemente insignificante. Espirò un’ultima boccata, socchiuse l’occhio, poi ripose la pipa nella tasca interna della giacca lunga, leggera, troppo per il clima non riscaldato dalla luce solare diretta dell’inverno.
“Qui abbiamo concluso, Shinsuke-sama.” Annunciò una voce femminile alle sue spalle.
Matako. In mano, aveva ancora la pistole fumanti.
“Gli altri?” domandò l’uomo.
Matako Kijima, ufficiale in seconda del Movimento di Restaurazione, fissò il suo leader, l’uomo che più ammirava e... amava, al di sopra di ogni altra persona al mondo. Scorse un’espressione vagamente distante, come se si stesse gustando il momento ma, allo stesso tempo, desiderasse essere già altrove.
Shinsuke Takasugi, d’altronde, non era mai stato veramente lì. Perché quando tutti loro credevano di averlo già raggiunto, la sua mente era già proiettata avanti, verso la prossima mossa, prevedendo le vide di fuga dopo un’azione spericolata; anche quando sembrava essere disposto a far saltare tutti in aria, se stesso, i propri uomini, come i nemici, finiva sempre per possedere un piano di riserva.
Quello, diceva, lo aveva imparato a proprio discapito da un amico. Un tempo era molto più arrabbiato, irrazionale, folle; adesso possedeva ancora tutte quelle cose, altrimenti non sarebbe arrivato lì: in un certo senso continuava a rischiare la vita, a sembrare non tenere affatto a ritornare – e probabilmente era così – ma aveva compreso nel tempo che una guerra contro un sistema non si combatteva da solo. E Matako, come i suoi compagni più stretti, sapeva quanto accidenti avesse impiegato Shinsuke-sama a fidarsi di loro, dopo aver subito il tradimento dalla persona a cui, anni fa, avrebbe affidato invece la sua stessa vita.
“Bansai sta tenendo occupati i Miliziani degli Aerei, Takechi sta gestendo i sistemi di sicurezza. Possiamo prendere l’ascensore che ci porterà fin su.”
Takasugi non disse nulla, limitandosi a voltarsi verso il grande portellone che pochi istanti dopo si aprì in un clangore metallico. Oltrepassò la soglia e si girò, sgranando lentamente l’occhio quando vide Kijima avvicinarsi per entrare.
Sembrò quasi sorriderle, un sorriso contorto e folle, nel momento in cui la sospinse, ricacciandola indietro. Vide lo sguardo della donna, ferito e sorpreso, i suoi passi nel terreno secco, due, forse tre, il tempo di indietreggiare un istante per ritrovare l’equilibrio.
“No.”
Le disse soltanto.
Scorse alle sue spalle dei raggi di luce, pochi, giusto spiragli sporadici che riuscivano a passare oltre le immense strutture metalliche che da secoli sorgevano sopra le loro teste. Gli sembrò di vedere della polvere fluttuare, antica, forse era terra che tentava di sfuggire dalla morsa di buio a cui era stata condannata. Poi gli occhi di lei, sembrò capire e realizzare che... l’avrebbe lasciata indietro:
“Shinsuke-sama! Devo proteggerla!”
Cercò di correre, ma poté solo detestare le porte pesanti metalliche che si chiusero davanti a lei.
Si morse un labbro, urlò, di rabbia, per non averlo capito, per aver pensato che, dopo tutti quegli anni, davvero il loro leader avrebbe permesso di accompagnarla in quella missione suicida.
Provò in qualche forma a richiamare quell’aggeggio meccanico, a farsi aprire le porte, tirò persino qualche calcio, ma oltre agli echi sordi dei suoi colpi non ci fu altro che silenzio e immobilità snervante. Così, alla donna non rimase altro che accettare l’inevitabile; si appoggiò con la schiena sulla parete di robusto acciaio per poi rinfoderare le pistole e torturarsi un labbro.
Vide venirle incontro Bansai, con l’arma rinfoderata messa dietro la schiena e addosso gli occhiali scuri, per evitare qualunque contatto con gli spiragli di sole; iridi non abituate ed esposte troppo a lungo rischiavano infatti di venirne bruciate. A Takasugi era andata bene, da dopo quel giorno aveva perso solo l’occhio sinistro, l’altro aveva diminuito delle diottrie ma la cornea non era stata danneggiata.
“È salito da solo?” domandò l’uomo, aggiustandosi un auricolare per le comunicazioni.
“Mi sembra ovvio! Lo vedi qui con me?” replicò la donna, stizzita. Fu tentata di aggiungere altro, sull’onda della rabbia per vedere quello stronzo di Bansai così calmo, come se tutto fosse straordinariamente sotto controllo, ma si trattenne, schioccando invece la lingua per poi guardare altrove.
Bansai aveva sollevato lo sguardo, ripercorrendo con occhi attenti l’immenso cilindro in ferro che si stagliava per migliaia di metri in altezza, sfidando le vette, con la sua struttura dal basamento piantato nella terra, in modo da reggere anche eventuali scosse di terremoto. Alla fine di quel tunnel verticale c’era qualcosa che secoli fa sarebbe stato scontato anche per loro, Terrestri, da vedere: il cielo.
Il sole, sulla pelle, il sole che rigenerava e non accecava occhi poco abituati. L’aria non soffocante, invece ormai troppo rarefatta per i loro polmoni disabituati alle quote elevate.
Enormi pavimenti d’acciaio e cavi collegavano infiniti altri cilindri, strutture, case, bloccando ogni accesso a chi, come loro, era nato sulla Terra e lì rimaneva, schiavo, indebolito da una genetica non pensata per evolvere in simili condizioni; mentre gli Aerei, là sopra, con il loro sole, le loro piogge e il vento vivevano, soffocandoli.
“Piazziamo gli esplosivi, Takechi li connetterà al sistema di comando hackerato, in tempo per quando Takasugi avrà chiuso i condotti.”
“Lo so quello che c’è da fare.” sbottò Kijima, per poi rimboccarsi le maniche della divisa scura, simbolo del loro ormai decennale Movimento di Restaurazione.
Ogni tanto le sembrava assurdo che si dessero tutto quel da fare per far saltare in aria quei colossi di metallo, allo scopo non solo di destabilizzare il sistema, ma anche di lasciare spazio ai raggi di sole per passare fino a lì, in quel posto dimenticato dagli Dei, considerando che probabilmente avrebbero finito per venirne accecati, bruciati, torturati.
Ma non era per loro. Non era mai stato per chi si trovava ancora sulla Terra, bensì per chi avrebbe vissuto dopo, sicuramente più adatto a ricevere ciò che a loro era stato negato.
Per questo piazzò con una certa sicurezza di sé la prima delle cariche, anche se gli occhi erano lucidi – dannazione, non si sarebbe mai fatta vedere così da quel deficiente di Bansai – al pensiero che Shinsuke-sama forse non sarebbe mai uscito da quella torre, per assistere a quella vita dopo di loro.

*

Il ronzio dei cavi e della struttura dell’ascensore che risaliva era in qualche modo rilassante nella sua ripetitività. Ma a Takasugi non piaceva; odiava le cose che si ripetevano, gli facevano venire voglia di intervenire e sballarle totalmente dal percorso precostituito: la gente, esattamente come quell’ascensore, si adagiava nel rifare sempre gli stessi gesti e si annichiliva, perdendo la voglia di uscire dal loro personale tunnel di noia.
Tirò fuori la pipa, la accesse e aspirò una prima boccata; aveva un braccio fuori dalla manica del lungo giaccone nero, appoggiato nello spacco frontale coi bottoni dorati aperti. Lui ancora portava quella divisa, non se n’era separato, nonostante in alcuni punti fosse rammendata e la pelle nera un tempo opaca fosse usurata. Non perché ci fosse affezionato, l’attaccamento alle cose e alle persone era una cosa che aveva smesso di provare da tempo, bensì perché voleva arrivare alla fine di quel percorso lungo, sfiancante, fastidioso e distruggerla assieme a tutto il resto.
Lui non aveva dimenticato.
Con uno scatto improvviso, poi, l’ascensore si fermò. Era arrivato.
Chiuse l’occhio ancora sano e sentì che la lente interna protettiva era a posto. Non lo faceva vedere meglio, ogni tanto la vista era sfocata, ma avrebbe evitato di bruciarsi la cornea; non poteva infatti permettersi di essere totalmente cieco, per quanto detestasse doversi adattare alle leggi dettate da quei parassiti che infestavano il cielo.
“Aerei.”
Mormorò oltre le labbra sottili, piegate in una smorfia crudele.
La pipa si spense. Gettò la cenere, poi la ripose nella tasca. Le porte lentamente si aprirono e Takasugi, in quell’istante, venne investito dalla luce.
Era calda, sulla pelle del viso e delle mani, l’aria sapeva di cielo, di nuvole che ogni tanto sfioravano le abitazioni e gli edifici; udì qualcosa, un verso lontano, di animali e di vita che riecheggiava nelle sue orecchie abituate al silenzio di tutte le cose lasciate morire.
Ricordò quando ancora c’erano degli spicchi di sole e loro, da bambini, sulla Terra andavano a sdraiarsi nel prato verde macchiato dalla luce; poco, prima di iniziare a soffrire per gli eritemi provocati dall’eccessiva esposizione. Ricordò la pioggia, sulla pelle, gli adulti e i bambini che l’andavano a raccogliere in contenitori di fortuna, sguazzando nelle pozzanghere prima che venissero assorbite dalla terra disidratata e arida.
Udì poi dei passi. Lenti, persino strascicati, ma in qualche modo decisi.
Afferrò la spada portata al suo fianco, lasciò alla sua pupilla il tempo di abituarsi e cominciò a distinguere i contorni di ciò che aveva davanti a sé. Non aveva molto prima che la lente procurata da Takechi si consumasse.
Assieme al resto degli edifici e delle strade che si dipanavano davanti a lui, scorse chi era avanzato di fronte, a pochi metri di distanza.
“Gintoki.” Parlò con aperto disprezzo e una sorta di ironia cattiva. Pronunciare il suo nome, però, gli era pesato più di quanto avesse creduto; il lascito dei ricordi, oltre alla rabbia, gli procurava una fastidiosa nostalgia che gli faceva venire voglia di ucciderlo.
Lo scorse sorridere, con quegli occhi apparentemente vacui, troppo rilassati.
“Takasugi – sembrava ironico – non dirmi che hai fatto tutta questa strada per venirmi a trovare?”
Si grattò un orecchio, per poi aggiungere: “Non mi hanno ancora pagato dall’ultimo lavoro di disinfestazione, la vecchia dice che mi scala i soldi dall’affitto, quindi non ho nulla da offrirti. Puoi comprarmi un parfait alla gelateria, se vuoi.”
“Taci! – esclamò Takasugi, estraendo la spada per puntargliela contro – Non sono qui per te, anche se sarai parte del magnifico spettacolo che ho intenzione di condurre. Ti trascinerò a fondo, Gintoki, proprio come un tempo, quando sguazzavamo nel fango.”
Sgranò l’occhio e sorrise, un sorriso storto, persino folle. Non gli dette nemmeno tempo di parlare, aveva il vizio di farlo troppo e un tempo, anni fa, lui era cascato in quelle parole. Si era fidato e tutto ciò che aveva ottenuto era stato un tradimento, per il quale l’occhio sinistro era stato solo un segno, un monito per tutte le volte in cui aveva pensato che la vita valesse ancora qualcosa.
Con uno slancio rapido, nonostante la quota elevata che poteva dare alla testa, Takasugi menò un fendente trasversale con la katana. Quella volta Gintoki non parlò, ma gli occhi divennero attenti, perdendo quell’aura di pigra indifferenza che li caratterizzava.
Tirò fuori la sua patetica spada in legno, il cui valore Takasugi lo capiva anche troppo bene; uno degli ultimi alberi che ancora crescevano sulla Terra era morto, dieci anni fa: quand’era successo, Gintoki aveva usato il suo legno per costruirsi spada.
Così in cielo rimarrà ancora qualcosa, di questa stupida terra.
Erano state quellee parole a convincere Takasugi, allora, a intraprendere la ribellione e a credere in Gintoki.
“Sarà un piacere ammazzarti e bruciare quella spada dopo avertela conficcata nel petto!”
Esclamò Takasugi, deviando un fendente per poi scagliare un ulteriore affondo, più violento.
“Avanti, perché devi essere sempre così scenografico, Takasugi? Sei sempre stato uno a cui piace complicarsi la vita. Comunque – precisò, difendendosi, per poi scorgere un’apertura nella difesa dell’altro – a me sguazzare nel fango piace!”
Lo colpì allo sterno, girando l’elsa con un movimento rapido.
Takasugi rigettò aria, sentendo i polmoni già ubriachi d’ossigeno svuotarsi, per poi indietreggiare di qualche passo. Ma non fu impreparato perché slanciò la katana, allungando il braccio; finì per tagliare qualche capello di Gintoki che s’involò nell’aria.
Quei capelli argentati, scoloriti e sbiaditi dal sole, quando un tempo, da bambini, erano scuri esattamente come i suoi. Anche gli occhi, una volta castani, per via del raggi solari avevano assunto un colore rossastro dell’iride; era solo questione di abitudine, anche le vecchie cicatrici degli eritemi subiti lo erano.
La lama della katana, ferma, sfiorava il collo pulsante di vita dell’avversario.
Takasugi avvertì però la punta del bokken di Gintoki premere proprio all’altezza dello sterno. Un affondo ben bilanciato e glielo avrebbe sfondato.
Tanto meglio, potevano anche morire assieme, pur di vederlo crepare. Avrebbe avuto ancora le forze per far saltare i collegamenti con le altre cisterne e scorgere l’esplosione di quel posto, con tutti gli Aerei che lo abitavano.
“Non ho intenzione di ucciderti, Shinsuke – gli disse all’improvviso Gintoki, fissandolo – né farti ammazzare le persone di questo distretto. Hanno degli ottimi dolci, il latte alla fragola è buono, la ragazza delle previsioni è molto carina e ho due dipendenti, mica posso lasciarli senza lavoro, sono giovani, senza di me sarebbero allo sbando.”
Replicò assumendo una finta aria di maturità, caricando le sue parole di un dramma inesistente, accompagnate dalla bellezza in parte ironica, in parte nostalgica dello sguardo.
Takasugi serrò le mani attorno alla katana. Strinse i denti, provando l’impulso di afferrarlo per il collo e stringerglielo.
“Perché? – sussurrò, quasi in un ringhio – perché ti sei messo dalla loro parte? Sono solo patetici e schifosi Aerei. Loro ci hanno reso quello che siamo! Ci hanno tolto il sole, uccidendo la nostra gente e la nostra terra! Devono morire e tu con loro perché li hai scelti, cinque anni fa!”
Ma prima di poter muovere la spada, non disposto in realtà ad asoltare una vera risposta, anche se... sì, forse una risposta la cercava, Gintoki sollevò la mano e afferrò la lama del compagno di un tempo, impedendo che essa affondasse nel suo collo. Ritrasse la propria spada e dette una spinta a Takasugi, senza lasciare la katana di quest’ultimo nonostante il sangue, per poi schiantarlo contro la parete in metallo dell’ascensore.
Attraverso la struttura di metallo si udirono riecheggiare degli allarmi distanti.
Il volto di Takasugi fu trionfante, distorto dalla rabbia, nonostante il viso di Gintoki, a pochi millimetri dal suo, lo sovrastasse in altezza.
“È tardi.”
Ritrasse la katana, piegando il braccio per la scarsità di spazio: il sangue dell’altro gli gocciolò addosso e sentì che gli piacque, gli dette soddisfazione. Gli portò la mano al collo, per affondare le dita nella sua trachea e spezzargliela.
Gintoki sembrò lasciarglielo fare, mentre la mano ferita era appoggiata sul braccio di Takasugi.
“Il distretto in cui vivo, questo distretto – cominciò a dire all’improvviso, con un mezzo sorriso e il respiro più difficile – è un posto pieno di stupidi che si spaccano la schiena a lavorare i campi con la nostra terra raccolta, venivano frustati, un tempo, perché in fondo il terreno è più sterile. Abbiamo combattuto, fianco a fianco, per impedire che la Milizia li punisse ancora. Hanno finito per raccogliersi qui i reietti, le prostitute, i braccianti, gli squallidi proprietari di bar o di chioschi di ramen. I rifiuti della società; come me, persino come te, Takasugi.
Non è uccidendo loro che la Terra riavrà il sole, saremmo uguali a chi voleva frustare i contadini, incolpandoli della vita incapace di crescere in una terra che non appartiene al cielo, ti pare?”
Taksugi strinse di più le dita. Lo detestava, detestava quelle parole. All’improvviso Gintoki lo afferrò a sua volta per il collo e aggiunse: “Combatterò finché avrò vita, per proteggerli. So che puoi capire il mio discorso, ora. Altrimenti non saresti venuto fin quassù da solo.”
Taksugi si bloccò, annaspando brevemente. La testa era leggera per via dell’ossigeno e, allo stesso tempo, l’aria faceva comunque fatica a passare; la stretta di Gintoki, il suo respiro addosso, che sapeva ancora di qualcosa di dolce, come se non avesse mangiato altro in vita sua, i capelli argentati che, un tempo, gli avevano solleticato le guance quando...
Doveva far saltare i collegamenti. In quel modo, l’acqua contenuta nella cisterna, una delle più importanti perché alimentava i campi del distretto agricolo, non avrebbe potuto passare nelle canaline d’emergenza per venire depositata nelle cisterne ausiliarie, pensate proprio in quei casi d’emergenza.
Al contrario, sarebbe schizzata nel cielo assieme ai metalli e alle fiamme, vaporizzata, perduta per sempre. Qualche goccia sopravvissuta, forse, sarebbe atterrata fin nella terra arida a migliaia di metri più in basso.
Morite. Tutti.
Lasciò andare la katana, consapevole di non aver spazio di manovra, per poi riuscire a sollevare un ginocchio e affondarlo nello stomaco di Gintoki che tossì, incavandosi appena per il colpo. Nonostante questo però, l’uomo dai capelli argentati non lo lasciò, ma fece a sua volta cadere la spada in legno – stupido, stupido samurai troppo corretto – per tirargli un pugno in faccia. Takasugi faticò a vederlo arrivare, per via dell’occhio cieco che gli impedì di calcolare correttamente le distanze, quindi non riuscì a difendersi quando sentì le nocche dell’altro cozzare contro la propria mascella. Avvertì un labbro spaccarsi.
Non parlarono più, inziando a colpirsi, ma facevano entrambi fatica a schivare, finendo per ferirsi soltanto di più e annaspare a ogni colpo.
Caddero sulle ginocchia, tenendosi ancora rispettivamente per il bavero della giacca e della maglia larga di Gintoki; Taksugi sentiva di non riuscire a reggersi ancora a lungo, ma avrebbe comunque trascinato Sakata con sé, fin nell’inferno più profondo.
Riecheggiarono dal basso della struttura dei gorgoglii tremendi, il metallo sembrò persino piangere.
Le cariche dovevano aver cominciato a detonare.
Sentì un rumore di passi. Spostò lo sguardo alle spalle di Gintoki che, invece, continuava a fissarlo, con un occhio pesto mezzo chiuso.
Scorse un gruppo di uomini e donne, armati di forconi, qualcuno di vanghe, la pelle scurita dal sole, a tratti rugosa; c’erano anche persone apparentemente più curate ma in qualche modo eccessive, nei trucchi e negli abiti in realtà usati. Poi qualche bambino che impugnava delle spade di legno e degli anziani.
Gente di ogni tipologia, accorsa in un gruppo compatto e determinato. Sembrava pronta a difendere quello stupido uomo che invece Takasugi avrebbe voluto uccidere; un tempo, rifletté in un pensiero rapido, lui sarebbe stato tra quelle persone.
“Gin! Ci avevi detto di lasciarti fare, ma non possiamo più stare a guardare! Hai fatto anche troppo, ora ci pensiamo noi!”
Aveva gridato uno dei contadini, avanzando di un passo.
Gintoki mosse un braccio, non si voltò ma ribadì:
“Lo so, lo fate apposta per concludere il lavoro e non pagarmi. So che le provate tutte per non sganciare soldi, madao contadini, la prossima volta ci penserò due volte prima di accettare un altro incarico sottopagato – accennò un sorriso – facciamo che concludo io qui, poi voi mi offrite un pranzo e un bagno nel latte di fragola.”
Spostò una gamba, stringendo un istante i denti per lo sforzo di alzarsi in piedi. La mano di Takasugi perse la presa e lui lottò per non crollare ai piedi dell’altro che, invece, gli afferrò la giacca per non farlo cadere.
“Shinpachi e Kagura stanno bene?” domandò Gintoki, rivolto alla gente alle sue spalle.
“Stanno trattenendo la Milizia Imperiale, assieme agli altri. I miliziani volevano entrare perché hanno saputo dell’attacco del Movimento alla cisterna, ma glielo abbiamo impedito.” Rispose l’uomo.
“Bene.” Disse semplicemente Gintoki.
Takasugi lo fissò. Mosse una mano per cercare la katana, per poi rendersi conto che era metri più indietro.
L’uomo lo sollevò in piedi e Takasugi gli artigliò la maglia. Anni fa era così che...
“Andate ad aiutare gli altri. Come vi ho detto, qui ci penso io. Preparate il latte alla fragola, voglio berlo fino a fare indigestione.”
“Ma...” fece per protestare qualcuno, però spinto dagli altri finì per accettare. Takasugi scorse il gruppetto retrocedere, con la vista un po’ sfocata che non sembrava ristabilirsi.
“Ti ammazzerò, fosse l’ultima cosa che faccio.” Rantolò Takasugi.
Si sentirono nuove esplosioni, il pavimento tremò appena, ma non finirono sbilanciati.
“No, dai, spero farai qualcos’altro, prima. Passeranno un sacco d’anni prima che tu riesca veramente a uccidermi, dovrai trovare il modo di tenerti occupato – gli portò un braccio alla vita e issò quello dell’altro sopra le spalle, trascinando Takasugi all’improvviso lontano dalla porta – e non puoi nemmeno morire. Hai la pellaccia dura, con tutti i casini che hai combinato in questi anni saresti dovuto crepare già da tempo.”
Shinsuke fece per muoversi, in modo da impedire a Sakata di agire, o di toccarlo, ma i suoi muscoli si rifiutarono di obbedire. Cominciò a vedere delle sfumature nere al bordo degli occhi; per un attimo, credette di star diventando cieco, poi realizzò che stava svenendo.
Scorse le gambe di Gintoki tremare appena e il sangue che aveva imbrattato entrambi grondare dalla ferita. Faceva lo spavaldo come al suo solito, ma nemmeno lui era messo tanto meglio.
“Che discorsi stupidi fai.” Mormorò, annaspando aria.
Finirono per cadere con le spalle contro uno dei bassi edifici che circondavano il cilindro, con in cima la cisterna.
Presto sarebbe esplosa, Takasugi sentì infatti la terra metallica tremare e un ruggito distante. Ma senza quel collegamento saltato non sarebbe cambiato nulla, l’acqua sarebbe convogliata da altre parti; tutto quegli sforzi, solo per avere un raggio di sole in più. Un tempo, forse gli sarebbe andato bene pure quello. Con gli anni era diventato egoista.
Ansimarono entrambi, con la schiena contro la parete. Gintoki aveva continuato a stringerlo e... a Takasugi andò bene, come un tempo gli era andato bene il raggio di sole. Oltre che egoista, follemente arrabbiato, forse stava diventando nuovamente attaccato a sentimenti che credeva di aver distrutto.
“Quella volta di cinque anni fa...”
“Sta’ zitto.” Sbottò Takasugi. Allungo a tentoni un braccio per prendere la pipa.
“... saresti morto se non ti avessi trascinato via. Non avresti ottenuto un bel nulla. Ci hai rimesso un occhio perché siamo corsi a lungo sotto la luce del sole, io ho delle cicatrici che mi causano ancora un prurito pazzesco, peggio di quando Sadaharu ha le pulci.
Ma non lo rimpiango, anche se tu non me lo perdonerai mai: ora infatti... abbiamo trovato entrambi delle persone da proteggere, oltre a noi.”
Takasugi voltò la testa, con espressione arrabbiata e stanca. Ma... vide che Gintoki aveva chiuso gli occhi, appoggiando il capo contro la parete, mentre la bocca era rimasta legermente aperta.
Suo malgrado, il ribelle scorse il petto dell’altro alzarsi e abbasarsi. Era vivo, ma svenuto.
Trovò la pipa. La mise in bocca e con un gesto lento se la accese.
Poi ci fu l’esplosione.
Il portellone, così come il metallo della gigantesca struttura alle loro spalle, saltò in aria, involandosi in pieghe contorte nel cielo, per poi atterrare sui pavimenti in ferro in tante scintille. L’acqua che non era defluita verso le canaline d’emergenza schizzò nel cielo, fuochi d’artificio lucidi, stelle trasparenti che riflettevano la luce del sole.
Si aprì una voragine nel metallo fuso ancora rovente, tra il fumo e i calcinacci; allora, un fiotto immenso luminoso tornò a baciare la terra arida dopo decenni di buio.
Dal basso, Bansai si lasciò accarezzare giusto un istante dal Sole. Poi si ritrasse nell’ombra, sistemandosi gli occhiali scuri, in modo da osservare la luce a debita distanza.
Accanto a lui, Matako sollevò una delle pistole e sparò un colpo, diretto verso il cielo. Rimase immobile, con l’arma fumante e lo sguardo puntato in alto.
Si sentì l’odore della polvere da sparo, poi di umidità, l’eco materno di una pioggia lontana.



Nove anni prima


Takasugi osservò il proprio morso vicino alla spalla di Gintoki, nudo sopra di sé. Quegli assurdi capelli mossi erano ancora più scombinati, con delle strisce argentate per via del sole assorbito in quell’anno di combattimenti contro la Milizia Imperiale; lo sguardo era apparentemente seccato, sbugiardato però dal mezzo sorriso e dalla scintilla vitale negli occhi dal profilo cadente.
“So di essere succoso come una caramella alla fragola, ma se continui così mi prosciughi.”
Takasugi fece una smorfia, il ciuffo gli era ricaduto indietro, lasciandogli scoperta la fronte per rivelare gli occhi violetti attenti, resi vividi da quelli che erano i momenti passati assieme, dalle lotte, come dal sesso.
“Quanto sei idiota. Avevo voglia di farti male, tutto qui. E non mi sembra che tu ci sia andato più leggero con i graffi sulla mia schiena – gli afferrò i capelli, per avvicinarlo a sé e mordergli le labbra, senza riuscire a cancellare il sorriso sornione stampato sopra – ora continuiamo?”
Gintoki sapeva che non era una domanda e fu contento di potergli rispondere baciandolo. Si ribaltarono sul letto di fortuna, nel rifugio ai piedi di uno dei nodi di collegamento con le città nel cielo, sorrette dai quei giganteschi pilastri che artigliavano la terra. Nello spiazzo verde d’erba umida per le recenti piogge si vedeva la luce passare in caldi fiotti dorati; dalla finestra della stanza in cui si trovavano, Takasugi e Gintoki potevano vedere quella vita e quella luce, per la quale un anno fa avevano cominciato a combattere. Per riportare il Sole alla Terra.
Fecero l’amore, in quel modo violento che avevano di approcciarsi, un po’ brutale ma carico di considerazione e... amore appunto, se così potevano chiamarlo, dato che non erano mai stati realmente bravi coi sentimenti. Quando finirono rimasero, nudi, sdraiati sul letto, rivolti verso il soffitto: mostravano le loro pelli chiare coi lividi portati da battaglie recenti o dal loro stare assieme, alla stregua dei graffi e dei morsi; si mordevano, giurando che non avrebbero mai mollato la presa l’uno dall’altro, anche al costo di strapparsi le carni a vicenda.
Ci fu un tuono lontano. Poi... piovve.
Takasugi voltò la testa in direzione della finestra e contemplò lo scintillio della piogga attraverso il manto di luce, il modo in cui l’erba rada sembrò magicamente risplendere, i bambini che uscirono dalle case erette con gli scarti del mondo superiore per danzare entuasiasti sulla terra. Si espanse odore di bosco, di umido, di qualcosa di antico.
C’era tanto da fare, erano solo all’inizio.
Gintoki si era alzato. Aveva indossato dei pantaloni alla buona, senza nemmeno scomodarsi a mettere le mutande; alle sue spalle erano appese le giacche nere di entrambi. Si grattò pigramente il naso, poi annunciò:
“Beh, io non so te, ma prima di cominciare a puzzare una doccia sotto la pioggia me la farei.”
Per un istante, Takasugi lo guardò uscire. Poi sbottò, si alzò in piedi e mise a sua volta dei pantaloni, scorgendo le mutande di entrambi a terra. Fu tentato di mettere la giacca, ma non lo fece. Indossò invece una canotta scura e cercò le ciabatte, senza però trovarle.
“Bastardo.” Disse, quando scorse, oltre la porta, Gintoki fingere di fare la lotta coi bambini, sporcandosi di fango. Ai piedi, aveva le infradito che, logicamente, appartenendo a Takasugi gli stavano piccole. Il tallone usciva fuori di qualche centimetro buono.
Shinsuke accennò suo malgrado un sorriso. Uscì, per correre incontro agli altri.
Chiuse gli occhi, quando venne accarezzato dal sole e investito dallo scroscio di pioggia, mentre i piedi, nudi, affondarono nel terreno. Avvertì il fresco dell’acqua, il calore dei raggi mitigato dalla distanza e dal metallo, la morbidezza della terra.
“A piedi nudi è meglio, no?” commentò Gintoki, guardandolo, mentre i bambini avevano preso a rincorrersi e qualche adulto era uscito come loro sotto la pioggia.
“Infatti hai pensato bene di metterti le mie infradito.” Ribatté sarcastico Takasugi, portandosi all’indietro il ciuffo di capelli bagnati.
“Beh – ribatté Gintoki, scrollando le spalle – se non l’avessi fatto le avresti messe, perdendo questo momento indimenticabile. Dovresti ringraziarmi.”
Fece per aggiungere qualcos’altro con leggerezza, ma Takasugi lo anticipò, dicendo apparentemente brusco:
“Grazie.”
“Ehi da qu...” replicò Gintoki, un po’ sorpreso.
Ancora una volta Takasugi lo mise a tacere: “Non rispondere. Ti ho ringraziato, non vuoi perderti questo momento indimenticabile, no?”
Allora, l’altro sorrise: “No, non voglio.”
Guardarono il cielo, sopra le loro teste, attraverso le voragini del metallo.
I nostri piedi sono affondati nella terra, ma i cuori... stanno fluttuando, alti, tra la pioggia e il sole.





Sproloqui di una zucca

Fede, Toshi, mia diletta gorillina e avvocato del mio cuore, AUGURI DI BUON COMPLEANNO! Scusami per l'immenso ritardo, ma dovevo essere convinta nella mia testa di quello che stavo scrivendo. Ti dirò poi da dove è nata quest'idea e come avrebbe dovuto svilupparsi, prima di cambiare totalmente direzione.
Ebbene sì, sono approdata anche io su Gintama. Nonostante sia da anni che guardo quest'anime e leggo il manga, solo adesso mi decido a scriverci sopra. Ottimo. E, cosa simpatica, non scrivo di una nelle prime OTP che mi ha stretto il cuore, bensì di... Takasugi e Gintoki. Che sto shippando selvaggiamente assieme, dividendo il mio cuore di multishipper.
Che dire, spero che piaccia e che i personaggi risultino IC. Sono stata lì a immedesimarmi, per poco fumavo anche io lol
Magari, in futuro, scriverò cos'è successo dopo l'esplosione, come proseguiranno le vite di entrambi. Chissà XD
Per il momento grazie, grazie anche al gruppo gorilloso con cui conversiamo di un sacco di cose; posso dire di aver trovato una casa, o un albero su cui spulciarci assieme.
Ancora auguri Fede, davvero con tanto affetto :3
   
 
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