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Autore: artemisius    09/07/2018    0 recensioni
“Akiomi Kunugi era un uomo semplice: era un insegnante di canto alla Yumenosaki, custodiva gelosamente un segreto e ancora non era sposato.”
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Akiomi Kunugi, Arashi Narukami
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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note: grownup!arashi (qui è maggiorenne, tute le cose che fa sono legali), akiomi kunugi/arashi narukami con dinamica dom/sub appena accennata. 



pillow talk.

 

Akiomi Kunugi era un uomo semplice: si alzava ogni giorno alle sei in punto del mattino, consumava la colazione nella silenziosa compagnia delle parole già vecchie di un giornale del giorno prima e, una volta abbottonata con rigorosa precisione la camicia con quelle dita magre e nervose che correvano repentine da un bottone all’altro, si metteva sulla strada per raggiungere il suo posto di lavoro. 
Qualche volta, quando la cravatta insisteva nel scivolare sgraziatamente fra le sue mani a causa del cattivo umore, decideva di prendere la metropolitana – aveva la terribile abitudine di entrare in simbiosi con il clacson della sua automobile ogni volta che il traffico decideva di complicargli ulteriormente le cose, ci sbatteva entrambi pugni sopra ed era capace di tenere premuto per molto tempo, nonostante fosse perfettamente consapevole di quanto quell’azione fosse vana e che non avrebbe né smosso il traffico né sciolto quel gomitolo di nervosismo che andava via via ad attorcigliarsi sempre di più nella sua gola.
Aveva cominciato a prendere la metropolitana sempre più frequentemente e Jin ci aveva pure scherzato su, gli aveva chiesto con una risata bonaria se i poliziotti si fossero finalmente decisi a ritirargli la patente, magari timorosi di una psicosi da automobilista, ma non aveva ottenuto alcuna risposta, eccezion fatta per un’occhiata sbieca e non divertita, lanciata e ritirata nel giro di qualche brevissimo e fugace secondo. Sagami non aveva mai dato troppo peso a quelle scelte che sembravano star acquistando i caratteri di una pericolosa routine – a dire il vero, non era una rarità vedere Akiomi nervoso e, di conseguenza, non era nemmeno troppo raro vederlo arrivare in metropolitana a scuola. Ma, fortunatamente, non sapeva che quella volta le cose erano un tantino differenti.

 

Akiomi Kunugi era un uomo semplice: era un insegnante di canto alla Yumenosaki, custodiva gelosamente un segreto e ancora non era sposato.
Più si avvicinava alla pericolosa età dei trentacinque anni, che gli pareva una sorta di limbo fra la fine di quell’età confusa in cui ancora ci si sente un po’ troppo giovani per qualsiasi cosa e fra l’inizio di un’età adulta più matura, più i suoi sentimenti nei confronti del matrimonio si facevano confusi e contrastanti. A dire il vero non voleva sposarsi, non ne vedeva il motivo e gli sembrava superfluo ma, allo stesso tempo, sentiva la necessità di dover aggiungere qualcosa alla sua immagine sociale e, soprattutto, di allontanare eventuali e pericolosissimi pettegolezzi riguardo a possibili gusti sessuali promiscui e legalmente discutibili nei confronti dei ragazzi con cui trascorreva gran parte della sua giornata. 
Ma la situazione di Akiomi non si limitava solo a questa complicata e misera condizione di una solitudine non completamente voluta ma decisamente apprezzata: era, anzi, un pochino più complicato di così.
Aveva un segreto e quel segreto era il motivo per cui qualche volta le sue dita indugiavano spaventate su un bottone della camicia, la ragione per cui aveva cominciato a utilizzare la metropolitana più del solito. Fonte di una sempre crescente agitazione, era costretto a convivere in solitudine con quella cosa, simile ad un’orrenda piega sulla camicia perfettamente stirata che pareva essere la sua vita. 
Aveva provato a convincersi più volte che in fondo andava bene, che non aveva nessun motivo particolare per essere così ansioso e che quello che stava facendo poteva non essere comune ma era legale
C’era solo un problema: quella singola e piccola cosa poteva mandare in fumo anni di carriera lavorativa per cui aveva lavorato duro fin da quando era ancora adolescente – e probabilmente non gli avrebbe nemmeno offerto alcuna occasione futura, se la cosa fosse sfuggita di bocca a lui o alla persona con cui condivideva quella vergogna.

Quel segreto aveva un nome: Arashi Narukami.

Andava avanti da un po’ di tempo quella situazione, ma non aveva la forza di calcolare effettivamente da quanto tirasse avanti così. Era cominciata sicuramente dopo Marzo, dopo che Arashi era ufficialmente diventato un adulto per la società e, soprattutto, lo Stato. Era già passato qualche anno da quando aveva portato a temine il suo brillante percorso alla Yumenosaki e onestamente Kunugi si aspettava di vederlo solo comparire in qualche giornale o di sentirlo ancora cantare tra le stazioni radio, in immagini e suoni lontani da lui e irreali, ma non poteva immaginare che la cosa sarebbe precipitata fino a quel punto. 
Invece di incontrarlo in una pubblicità di vestiti fra le pagine di una frivola rivista che Narukami stesso era solito leggere, lo rivide in un ristorante. Gli era comparso davanti all’improvviso, in un’epifania di un profumo sottile, senza fare il più piccolo rumore e si era invitato in completa autonomia ad occupare quel posto rimasto vuoto al tavolo.
Gli aveva rivolto uno dei suoi sorrisi radiosi, uno di quelli capaci di disarmare qualsiasi individuo, nessuno escluso, forse nemmeno Akiomi stesso. 
«Accomodati pure Narukami, nessun problema» non riuscì non puntualizzare, a non commentare quel gesto così disinvolto e intraprendente, quasi fastidioso. Non erano più legati da alcun rapporto formale, questo era vero, ma non riusciva a spiegarsi il perché di quella sicurezza che sembrava ignorare ogni forma di rispetto esistente che gli era comunque dovuto.
Le labbra di Arashi lasciarono libera una risata, una risata elegante e a modo, ben contenuta, perfettamente nel suo stile ma non rispose. Se ne stette in silenzio per qualche minuto, mentre lasciava volare lo sguardo sul tavolo e intorno a sé e intanto ne approfittava per accomodarsi – sentì la punta della scarpa del ragazzo sfiorargli appena l’orlo dei pantaloni, probabilmente aveva accavallato le gambe.
Si studiarono, cercarono di capire se in quegli anni fosse effettivamente cambiato qualcosa nei loro volti, erano alla ricerca di una ruga fra le sopracciglia di Akiomi e di un volto dai tratti meno gentili nel caso di Arashi. Si sentirono quasi sollevati entrambi nel non trovare niente di tutto ciò, di vedersi ancora esattamente uguali a quando s’erano salutati l’ultimo giorno di scuola.
«È andata male, mmh?»
Doveva riferirsi a quella sedia vuota che stava occupando, alla sua tenuta un po’ più elegante e a quella bottiglia di vino rosso, un vino di alta qualità, aperta al centro del tavolo ma nemmeno toccata e una candela ad affiancarla, accesa, che lentamente si consumava. Era una scena un po’ patetica – un appuntamento mancato, l’alcool sprecato, una candela sul punto di morte.
Non poteva fare a meno però di meravigliarsi dello spirito di osservazione di Arashi: gli era probabilmente bastato uno sguardo velocissimo per comprendere tutto il quadro della situazione, il suo intuito era davvero notevole. Così come la sua indiscrezione, ma quello era un dettaglio trascurabile.
«Nemmeno a te, immagino»
Il sorriso del biondo mutò in modo impercettibile, un accenno di amarezza gli tinse le labbra – sarebbe venuto a conoscenza solo in seguito che la loro chiacchierata era stata preceduta da un altrettanto piacevole litigio sussurrato, costruito di parole incredibilmente taglienti e di urla mancate. Condivisero l’ennesimo silenzio, si fecero compagnia in quel sentimento acre e pungente che almeno aveva scacciato l’imbarazzo di Kunugi. Non avevano molto da dire a riguardo, si scambiarono un solo e unico sguardo che parlò per le loro bocche.
Arashi allungò infine la mano dalle nocche di rosa verso la bottiglia di vino, abbandonata nella sua intima solitudine fra i due, e accompagnò quel movimento con un sospiro rassegnato, quasi tragicamente divertito. 
«Beh, è un peccato lasciarla qui»
Akiomi non ribatté, né si lamentò. Non lo fece, in verità, per tutta la notte.

Ogni volta che si incontravano nella stanza di qualche hotel, che fosse di alto o basso profilo, qualcosa sembrava sempre cambiare.
Il corpo di Arashi mutava ogni volta che Akiomi lo percorreva con le mani: una volta le sue dita avvolgevano una coscia più tonica, un’altra ancora un braccio modellato più dolcemente. Il suo corpo si plasmava continuamente ma non osò mai chiedergli se fosse semplice gusto personale o il volere di chi in quei giorni si occupava della sua carriera e della sua immagine – pensava solo ad accarezzare quella schiena sinuosa e libera da fatiche, a farsi lambire il viso da un respiro sensualmente affannato, sfuggito da quelle labbra appena imporporate che fino a qualche secondo prima erano impegnate a danzare sulle sue. 
Non aveva tempo né voglia di badare a pensieri e alle domande che gli punzecchiavano la ragione, se ne liberava facilmente quando sentiva le dita tremanti di Arashi intrecciarsi fra i suoi capelli e guardava quegli occhi socchiusi e liquidi, cantori di quella poesia lasciva che andava via via a riempire la stanza e ad abbracciare la mente di Kunugi.
Non si chiedeva se fosse giusto stringere a sé le belle gambe esili del ragazzo, né se fosse dignitoso lasciarsi trasportare da quei gemiti di un piacere quasi sofferto. Si faceva guidare solo dal desiderio bruciante, a suo modo terribile, e dai movimenti del corpo ancora giovane di Arashi che sfregava bollente contro il suo – cielo, quanto gli facevano tremare le labbra quelle mani che si intrecciavano ai suoi capelli, gli accarezzavano le orecchie e poi correvano sul collo e che infine, scosse dalla libidine, si stringevano alle sue spalle, quasi a sopportare meglio quella graduale intrusione nella sua intimità. 
Adorava quando il suo corpo di latte si piegava a quelle parole simili a ordini sussurrate accanto all’orecchio in un tono basso, in cui un assoluto erotismo faceva da padrone, amava quando la schiena del ragazzo si inarcava in preda alla lussuria e la sua voce che toccava le note più alte di quell’ode a Eros, il calore sempre crescente della pelle priva di imperfezioni che scaturiva da quel contatto profondissimo. Amava tenerselo così stretto a sé, amava stringergli i fianchi, le natiche e amava quel piacere immenso che gli dava, che gli scuoteva le membra dal profondo e gli faceva volare l’animo e girare la testa e gli mozzava il respiro. 
Amava tutto di quegli incontri illeciti, la sensazione di pericolo che gli correva per tutta la spina dorsale simile ad una scarica elettrica, l’eccitazione che lo pervadeva quando cominciavano a sfiorarsi, amava da morire il sapore quasi illecito di quel sesso – ed era un sapore buonissimo, indescrivibile, ricco e libero da qualsiasi vincolo di dolcezza, perché Narukami a letto se la cavava benissimo, anche fin troppo bene. Amava anche quando, alla fine di tutto, gli lasciava un ultimo bacio sulla bella bocca e lo liberava da quella stretta passionale.

 

Amava tante cose di quella complicatissima relazione, ma una cosa era sicura: non amava Arashi.
Non ne aveva motivo, c’erano tante, tantissime cose che li rendevano terribilmente incompatibili e poteva stilare un elenco lunghissimo: l’età in primo luogo, i loro caratteri non erano fatti per stare insieme, i loro sessi e mille altre ragioni.
Non amava Arashi Narukami, non l’avrebbe mai amato. Coltivava per lui un affetto particolare e anche relativamente profondo che nessuno provava, né un padre, né un qualche parente né un amico. Ma non lo amava.
Ci pensava spesso a quanto fosse ipocrita da parte sua: scoparselo così, come se niente fosse, e perpetuare quell’illusione, rimanendo un po’ lì a scambiare parole già basse soffocate da cuscini totalmente anonimi. I sensi di colpa gli tormentavano sempre l’animo non appena gli lasciava quell’ultimo bacio sulle labbra, la consapevolezza di alimentare la speranza di Arashi di far diventare quella relazione una realtà, un qualcosa di un po’ più serio, lo attanagliava – era per quel motivo che avevano cominciato a trattenersi per qualche ora insieme, nella stanza, con le gambe intrecciate tra le lenzuola, a parlare di tutto quello che accadeva nelle loro vite.
Arashi stava cambiando insieme alla sua vita, l’insegnante lo capì presto.
Il ragazzo non faceva altro che alternare momenti in cui condivideva parole e emozioni assolutamente vere e personali a momenti in cui la vacuità era sovrana, niente era preciso e tutto pareva, e forse era, una menzogna. Oscillava in un limbo di calore e di freddezza, di fiducia e di distacco, di verità e di frivolezza – camminava su un filo sottile, sottilissimo e rischiava spesso di perdere il precario equilibrio che lo manteneva sospeso fra una chiacchierata genuina e un castello di menzogne.
Qualche volta si perdeva a parlare dei lavori che gli venivano assegnati, sproloquiava su quanto alcuni capi di abbigliamento fossero inguardabili a differenza di altri assolutamente bellissimi e che mettevano in risalto il suo grazioso fisico, di quanto certi fotografi fossero pericolosamente languidi e di quant’era difficile trovare qualcuno con cui viziarsi ogni tanto alla sua pasticceria di fiducia. Capitava rimanesse qualche secondo in silenzio e sospirasse qualcosa di dolorosamente malinconico, un “mi manca Nyanko” o “non ho ancora trovato il tempo di passare al suo cenotafio questa settimana” mormorato più per se stesso che per le orecchie dell’altro.
Un giorno Kunugi gli chiese dei Knights – gli disse in cambio che Tsukasa aveva davvero fatto un figurone durante il suo ultimo anno ma che forse già lo sapeva. Arashi non diede una davvero una risposta a quella domanda, si limitò a contemplare i ricordi della sua mente e a sussurrare un “eh sì, quelli sì che erano bei tempi, mi mancano un po’”, seguito da una risatina appena accennata e dalla melodia di qualche loro canzone appena canticchiata.
Gli domandò infine di Leo. E di Izumi. 
Era lì, in quel esatto momento, che Kunugi realizzò quante cose Arashi stesse volutamente offuscando con le sue parole per rendere la situazione più vaga possibile, capì allora quanto le cose fossero cambiate nel giro di così poco tempo. Qualcosa era mutato profondamente nello spirito del ragazzo, c’era qualcosa di dolorosamente diverso.
«Stanno bene,» aveva proferito in un tono strano, indefinibile, «anzi, stanno benissimo. Izumi, soprattutto. Si sono messi insieme, lo sa professore?»
“Insospettabile”, ma si tenne quelle parole per sé – gli interessava di gran lunga di più l’espressione che aveva piegato il viso di Arashi: era un sorriso mai visto prima, tirato, che celava dietro di sé una spruzzata di un’amarezza simile a quel caffè senza zucchero che il biondo tanto odiava.
«È meraviglioso come l’amore alla fine trionfi sempre, non trova?» la voce gli vacillò impercettibilmente sotto una finta allegria, sembrava volersi spezzare sotto quell’enorme peso che s’era sempre accresciuto dalla morte di quel ragazzo e che Narukami aveva deciso di reggere da solo, sulle sue fragili spalle, senza dire nulla a nessuno.
Chi aveva davanti? Dov’era finita quella quasi genuina allegria, quella positività che sembrava sempre irradiare, dov’erano finite tutte le persone di cui Arashi si era circondato? Si domandava sempre più spesso, mentre discutevano del più e del meno, se qualcuno amasse quel ragazzo come sperava e come soprattutto si meritava, se qualcuno gli volesse ancora bene o se era rimasto completamente solo. Non aveva nemmeno più il suo amato gatto o qualcuno con cui passare una mezz’oretta a consumare una magra fetta di torta.
Chissà da quanto tempo Arashi aveva deciso di imbottigliare tutti quei sentimenti e di metterli da parte, di annegarli in uno specchio d’acqua in cui si rimirava, forse innamorato del suo aspetto solo in apparenza. Forse si amava perché nessun altro lo faceva.
Chissà per quanto tempo aveva innaffiato come un fiore quella cotta che si era lasciato crescere dentro per quel ragazzo dai capelli chiari e il broncio perenne, chissà se aveva pianto nella solitudine della sua casa nel scoprire la lietà novità, chissà se qualcuno l’aveva consolato. Chissà in quali relazioni s’era buttato a braccia aperte per soffocare il dolore o per provare anche solo a dimenticare quell’amore senza risposta.
Erano quesiti che non sarebbero mai stati posti e che in ogni caso non avrebbero trovato una soluzione – perché Arashi aveva anche un talento unico, quello di parlare di sé per ore ma allo stesso tempo di non dire nulla. 
L’incomunicabilità del dolore s’era fatta padrone di quel ragazzo stupendo dal viso di rosa e dalla voce serafica. 
Un sacrilegio, 
una bellezza corrotta, 
un animo spezzato, 
un affetto mancato, 
il sesso 
come narcotico.

Akiomi Kunugi era un uomo semplice: non amava Arashi Narukami ma era proprio per quel motivo che, nonostante tutto, dopo il sesso, continuava a posargli un bacio simile al volo di una farfalla su quelle labbra senza amante.

 
   
 
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