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Autore: Alicat_Barbix    17/07/2018    2 recensioni
//Le accarezzo la fronte imperlata da goccioline di sudore e le deposito un ultimo bacio su quella testina imperfetta che baciai sette anni fa, appena nata. Da quel primo momento, pappe, pianti, dondolii notturni, giri in macchina, primi passi, prime parole, disegni, giochi, risate, capricci… Come riassumere la vita di mia figlia? Sa di così riduttivo… Lei, invece, è stata la mia ancora di salvezza dal lutto per Mary e dai sentimenti impossibili verso il mio folle coinquilino. Lei è il mondo in cui vivo, l’aria che respiro, non può andarsene, non può lasciarmi solo.//
Genere: Fluff, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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BIANCA COME IL LATTE


 
“John, va’ a casa.”
La figura di Sherlock s’innalza maestosamente in mezzo al bigio corridoio dalle pareti pallide come la carnagione dei pazienti. Resto per qualche istante a scrutare il suo volto, il bicchierino col caffè ancora caldo in mano: è alto, bello, il suo viso appena rasato e le iridi luminose. Mi vergogno del mio aspetto vissuto, in confronto al suo, dei vestiti che indosso da ormai quasi una settimana, delle mie occhiaie violacee, della mia mascella leggermente adombrata.
John, va’ a casa… Mi ripeto questa frase dentro di me e ne saggio il sapore inusuale, quasi paradossale. In tutto questo tempo, non mi ha mai – mai – incoraggiato ad andarmene, a staccarmi da questo posto. Sono sempre stati i suoi occhi, il suo sguardo di lieve rimprovero, le sue impacciate carezze alla schiena, rassomiglianti piuttosto a dei semplici e casuali sfioramenti a farlo. Ed è per questo che il bicchierino mi cade di mano, il caffè che si spiega sul pavimento tirato a lucido da alcune donne delle pulizie. Lo capisco dal suo tormentarsi le mani, quasi non riuscisse a trovare loro un posto dove lasciarle riposare. “Ci siamo?”
Non mi risponde subito né io avverto la necessità che lo faccia. Sherlock Holmes, il famigerato e misterioso consulente investigativo londinese, non è più un enigma, un rebus indecifrabile per me.
“Va’ a casa.”
Non è un ordine o una rigorosa imposizione, solo una supplica. Non lo credevo capace di implorare. Anche a quella donna, Irene Adler, l’ha detto: io non imploro. E invece, eccolo qui, il volto da cui la sicurezza e la strafottenza vanno via via scemando, lasciando solo qualche strascico di ombre tormentose. Lo scanso dolcemente ma con presa salda e mi affretto per quel corridoio semideserto a quest’ora della notte, corro quasi con il mio passo militare. Avverto i suoi passi dietro di me, rapidi ma distaccati, come a volermi concedere un mio spazio personale dove permettere ai sentimenti di sgorgare come acqua da una sorgente o come… come sangue da una ferita.
La porta è aperta. E’ sveglia, altrimenti Sherlock avrebbe di certo chiuso la stanza. E’ sveglia e questa consapevolezza mi fa male, perché sarò costretto a guardarla spegnersi, la sua breve vita consumata come la fiamma di una candela. Mi fermo a pochi passi dall’entrata, la realtà dei fatti che finalmente si consolida in me, depositandosi sul cuore come detriti portati da un fiume. Se entro, quando uscirò da questa cameretta d’ospedale niente sarà più come prima. Questi pochi passi che mi dividono da un freddo letto d’ospedale non sono altro che la conclusione al processo di disgregazione durato due anni, da quel primo maledetto referto ospedaliero…
Un dolce calore mi sfiora la mano e mi rendo conto che le dita di Sherlock sono mestamente intrecciate alle mie. Mi volto appena verso di lui, cercando forza e coraggio in quelle iridi, sperando di trovarvi la solita freddezza che da sempre lo ha contraddistinto, ma ciò che vedo mi colpisce. Non vi è indifferenza, distacco, biasimo, ma umanità, pura e limpida, scintillante. Mi sorride con fare comprensivo e non ha nulla a che vedere con le parole false di pre-condoglianze di cui la gente in questi giorni ha amato impastarsi la bocca. Deglutisco un paio di volte a vuoto, infine entro.
Rosie è abbandonata sul materasso candido, il cranio completamente rasato e gli occhi chiusi. Mi avvicino silenziosamente, beandomi di quell’immagine così bella e fiabesca della mia bambina: vorrei che arrivasse un principe, qui ed ora, a portarla via, a rubarla dalle fredde braccia della morte. I miei pensieri vanno a Sherlock che per Rosie è sempre stato una sorta di eroe, di salvatore, e a nulla era servito a lui ripeterle che gli eroi non esistono e via dicendo. Rosie. La mia piccola Rosie.
Mi accomodo sulla scomoda sedia accanto al letto e lei apre gli occhi. Sono belli i suoi occhi, sono scuri, pozzi profondi privi di fine, ereditati da chissà quale scambio di geni fra me e Mary.
“Papà…” Voce stanca, provata, sfinita, così lontana da quella squillante con cui prima di tutto questo soleva urlare papà da lontano, sventolando in aria la manina rosea.
“Tesoro.” mormoro sporgendomi in avanti e raccogliendo il suo muto invito di starle accanto prendendole la mano. “Hai dormito un po’?”
Oneroso cenno d’assenso con la testa. Omette di dirmi che in realtà sono due anni che non dorme davvero a causa dei farmaci con cui la imbottiscono e delle terapie, ma io so e fingo di non sapere. “Sherlock?” chiede flebilmente facendo scorrere lo sguardo ormai nebbioso per la stanza.
Mi volto in direzione della porta, dove Sherlock è statuario, le mani in tasca e gli occhi liquidi puntati su mia figlia. Con uno sguardo, mi domanda il permesso di entrare e io mi limito ad annuire.
“Sono qui, Rosie.”
Gli occhi di Rosie per un attimo si accendono, per poi subito spegnersi nuovamente. Alza la mano libera, così pesante e fredda, e Sherlock si appresta ad stringergliela, quasi tema che possa scivolare via senza preavviso.
“Ti trovo in formissima, piccola Watson. Sei proprio un fiore.”
Abbasso gli occhi, sospirando sommessamente. Rosie ridacchia divertita e sento la sua presa rafforzarsi debolmente sulla mia mano. Vorrei crederci, vorrei ignorare il destino ormai segnato di mia figlia, vorrei essere qui non essendo consapevole che questa sarà l’ultima volta, ma mi costringo a restare lucido e saldo.
“Era… era da tanto che non chiamavi così. Da quando sto male.”
I miei occhi saettano in direzione di Sherlock e lo vedo sperduto, un sorriso forzato sulle labbra tremanti e gli occhi lucidi. “Ah, sì?”
“Sì. Mi mancava.”
“Allora ti prometto che da ora in poi ti chiamerò sempre così, okay?”
Rosie annuisce e sposta lo sguardo sul soffitto, persa a scrutare un punto indefinito. I suoi occhi si riempiono di pianto e un singhiozzo doloroso le spezza il respiro stentato. “Non sono papà, Sherlock, con me le bugie non funzionano.” Per un fugace, dolce frangente rivedo Mary, i suoi occhi, il suo viso sofferente, il suo abbandono alla dipartita. “Sta arrivando, vero? Sento… sento che faccio sempre più fatica a stare sveglia e-e a stare bene…”
Piange, la mia piccola Rosamund. Piange come un’adulta quale questa maledetta malattia l’ha fatta diventare. Dolce, piccola, fragile Rosie. Mi alzo per abbracciarla, ma lei mi blocca stringendo con disperazione la mia mano e scuotendo rassegnatamente il capo, e di fronte a quello sguardo annacquato dalle lacrime, capisco: capisco che ha già difficoltà a respirare così, capisco che ha già difficoltà a doversene andare così, capisco che ha già difficoltà a dovermi lasciare andare così…
Deglutisce un groppo di lacrime e serra gli occhi. “Ho paura… Ho tanta paura…”
Mi sento come una barca in balia di una tempesta, completamente perso e solo e impaurito. Come posso dire addio a mia figlia, dirle di non avere paura? Cosa c’è di normale in un bambino che muore, in un figlio che muore?
“Piccola Watson, Rosie!” la chiama Sherlock con voce concitata e rotta da una malcelata angoscia. “Ti prometto che passa subito. Guarda me, okay? Stringici forte forte le mani e guarda me, capito?”
Rosie annuisce, mentre soffoca l’ennesimo singhiozzo, e si volta verso di me, un sorriso quasi speranzoso che le increspa le labbra screpolate. “Vi saluto la mamma, va bene?” E quelle parole disintegrano quel fragile oggetto che è diventato il mio cuore dall’inizio di tutto. Appoggio la fronte sulla sua manina da bambina di sette anni, giovane, troppo giovane per andarsene. Mi struscio contro quell’ultima, flebile speranza che le sue parole mi trasmettono. “Papà?” Alzo gli occhi e incontro le iridi calde e lontane della mia bambina. “Mi canti… mi canti la ninna nanna che cantava la mamma quand’ero piccola?”
Eccolo, l’ultimo desiderio di mia figlia. Sgattaiola fuori dalle sue labbra come un topolino dalla sua tana. Le accarezzo la fronte imperlata da goccioline di sudore e le deposito un ultimo bacio su quella testina imperfetta che baciai sette anni fa, appena nata. Da quel primo momento, pappe, pianti, dondolii notturni, giri in macchina, primi passi, prime parole, disegni, giochi, risate, capricci… Come riassumere la vita di mia figlia? Sa di così riduttivo… Lei, invece, è stata la mia ancora di salvezza dal lutto per Mary e dai sentimenti impossibili verso il mio folle coinquilino. Lei è il mondo in cui vivo, l’aria che respiro, non può andarsene, non può lasciarmi solo. Ma tutto questo non posso esprimerlo a voce, non più, perché la mia Rosie è persa, persa per sempre.
“Ninna nanna mamma, tienimi con te…” comincio a canticchiare senza riuscire a controllare il tremolio alla voce. “… nel tuo letto grande, solo per un po’.”
Rosie sorride e sposta gli occhi su Sherlock, stringendo ancora di più la presa sulle nostre mani. La sento stringere e stringere, ma chiudo gli occhi e stringo a mia volta, incapace di pensare, di voler capire. Continuo a masticare le parole di quella ninna nanna da lei tanto adorata anche quando la presa si allenta, quando l’elettrocardiogramma comincia a fischiare insistentemente, quando Sherlock mi scuote dolcemente, la voce flebile, quando un paio di infermieri mi trascinano via e perdo il contatto con la pelle ormai fredda di Rosie.
Il corpo viene improvvisamente svuotato di ogni energia e mi ritrovo per terra, in ginocchio, stretto al corpo caldo e vivo di Sherlock. Respiro il suo odore, il profumo di schiuma da barba, affondo le dita nella schiena magra e ammantata dal cappotto nero. Piango ma non mi vergogno come quella volta a Baker Street, dopo il caso di Culverton Smith. Mia moglie è morta. Mia figlia è morta. Anche Sherlock è morto, quel pomeriggio al Barts. Sono solo. Solo con i miei demoni e con i cocci del mio amore ferito.
 
Mi chiudo in camera mia – e di Rosie – e ci resto per giorni e giorni. Il sole sorge e tramonta senza che io mi muova dal letto che condividevo con mia figlia. Sono solo e questa solitudine mi lecca le ferite, mi lenisce il dolore e il senso di perdita. Non piango più. Sul mio volto, solo le cicatrici di lacrime vecchie e recenti al tempo stesso. Sherlock, di tanto in tanto, entra timidamente nella stanza, con in mano i vassoi coi pasti e mi imbocca a forza. Non mi costringe a parlare o ad alzarmi, si limita ad entrare e ad uscire come un fantasma e io non posso fare a meno di ringraziarlo internamente.
Al quarto giorno trascorso in una camera buia e fredda, stantia, la porta si apre come consuetudine. Sherlock s’infila dentro silenziosamente, con passi felini. Prende a smuovere qualcosa, ma io non vi presto troppa attenzione. Solo quando si fa avanti con in braccio un completo scuro, capisco. Ancora, lui tace e non fa altro se non porgermi il vestito. Lo accetto con difficoltà, consapevole che con questo mio gesto si andrà a consolidare la realtà dei fatti, e cioè che Rosie non c’è più. Mi infilo addosso l’abito senza neanche badare alla cravatta o a frivolezze varie e scendo al piano di sotto dove Sherlock mi attende seduto sulla sua poltrona nera come il vestito. Non appena mi vede, si alza di scatto, tradendo l’impazienza di scorgermi. Nonostante tutto, so che lui è umano, che è preoccupato per me, che tiene a me, ma io non ho la forza di mostrarmi forte. Non con lui che è l’unico a cui possa ormai aggrapparmi. Mi si avvicina lentamente, in mano la cravatta che mi aveva regalato per un qualche Natale. Vorrei scansarlo, dirgli che non voglio la sua stupida cravatta, ma le parole non escono o forse lui è semplicemente più rapido, perché mi fa passare attorno al collo il pezzo di stoffa scura e con le sue dita affusolate da violinista prende ad annodarla elegantemente. Per tutta l’operazione, tengo gli occhi fissi sul suo volto concentrato e visibilmente più emaciato rispetto all’ultima volta che ho perso attimi a contemplarlo. E’ dimagrito, ma è sempre bellissimo. Così, quando fa per allontanarsi, gli afferro un polso e lo costringo a restare incollato a me, i visi a un soffio l’uno dall’altro. Ho bisogno di sentirlo, di avvertire la sua pelle viva contro la mia, di un appiglio a cui aggrapparmi. Lui non oppone resistenza, ricambia il mio sguardo, il suo fiato caldo che s’infrange dolcemente contro il mio volto. Desidererei rimanere per sempre così e non essere costretto ad affrontare tutti gli altri e quella stramaledetta tomba.
“John…” mormora solo prima di fare un ulteriore passo avanti, azzerando completamente la distanza tra noi. “Sono qui.”
“Le hai promesso che sarebbe passato subito. E’ stato così, vero? Dimmi che è stato così…” biascico mentre le sue braccia forti mi stringono a sé.
“Non ha sofferto, John. I medici hanno detto che è accaduto rapidamente.”
“Non ho avuto la forza di starle accanto come meglio potevo… Sono stato un padre terribile.”
“Non dirlo neanche per scherzo!” ribatte lui infervorandosi. “Non te lo permetto, John. Non ti permetto di parlare in questo modo dell’uomo meraviglioso che ho qui con me.”
Quelle parole mi abbracciano ancora più strette delle sue braccia. Chiudo gli occhi e mi abbandono completamente a lui, alla sua voce ovattata che m’infonde un senso di fiducia e stabilità, a Sherlock Holmes che amo da anni ma che ho sempre tenuto lontano per paura dei miei sentimenti.
“Non mi lasciare, Sherlock.”
“Mai.”
 
Il cimitero si svuota lentamente. I presenti se ne vanno uno dopo l’altro, come in processione. Davanti alla lapide, solo io e Sherlock, le mani allacciate insieme. Guardo quei fiori, quelle incisioni, quella foto… La mia Rosie è tutta lì, in quei sette anni racchiusi tra la data di nascita e quella di morte. Poco più in là, la tomba di Mary. Vicine come non sono potute esserlo in vita. Mi chiedo se è davvero possibile che, da qualche parte, si siano ritrovate e stiano bene, libere dalle sofferenze umane. Io amavo e amo tutt’ora mia figlia, a modo mio ho amato anche mia moglie, ed entrambe si trovano lì, a dieci piedi sottoterra, protette da insulse bare di legno che non hanno potuto proteggerle dalla morte. In tutta la mia esistenza, sono state poche le persone da me amate: due sono oramai lontane, e l’altra, sebbene vicina, è irraggiungibile. Gli lancio uno sguardo fugace e me ne convinco: troppi anni, troppi problemi, troppe cicatrici… E’ tardi ormai. E’ passata l’era di Sherlock Holmes e John Watson. Pian piano riprenderò a respirare, ad occuparmi con lui dei casi, a vivere… ma non ci sarà nulla di più di queste mani fuse assieme, di questo dolore condiviso e delle nostre poltrone proiettate l’una verso l’altra come una stalattite e una stalagmite.
Per sempre insieme ma mai uniti.
“Andiamo?” mi chiede lui accarezzandomi il dorso della mano col pollice.
“Andiamo.”
Addio Mary. Addio Rosie. Addio Sherlock.
   
 
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