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Autore: lagunablu    25/07/2018    1 recensioni
[5406 words] [non me ne vogliate]
Una semplice storia raccontata attraverso i ricordi di chi resta.
FrUK, dolce e straziante FrUK.
[dal testo]
Erano bastato quanto? Tre mesi scarsi ed ecco come la situazione era degenerata, deragliando da qualsiasi binario possibile ed immaginabile.
«Ti stai nutrendo?» non riusciva ancora a guardarlo, ma provò a fare il punto della situazione.
«Seh… di uva fermentata».
«Idratando?».
«Sei qui…» un leggero sorriso circondò quelle deboli parole.
«Dormendo? Curando?» tuonò il francese e, volgendogli le nere pupille, lo trapassò con lo sguardo «non morendo?!».
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Agrodolce

L’accendino sfavillò nell’oscurità della notte. Un’argentea nube di fumo si levò in aria, trasportata dalla fresca brezza estiva che aveva spazzato via l’umidità di luglio. In una sola boccata l’uomo inspirò una generosa dose di nicotina che gli si riversò sui polmoni e lo inebriò con il suo sapore tostato. Era buffo. Ogni qualvolta fumava una sigaretta si convinceva che, ad ogni respiro, la sostanza aeriforme gli potesse in qualche modo riempire il vuoto angosciante che percepiva all’altezza del petto. Come se quelle ceneri fossero una polvere magica che riuscisse ad anestetizzare le lancinanti fitte che lo coglievano, di tanto in tanto, in corrispondenza del cuore. Francis Bonnefoy fumava così tanto che gli amici potevano dirsi sorpresi nel constatare che il colore dei suoi occhi non si fosse in qualche modo inquinato di fuliggine, ma avesse preferito rimanere del suo originale colore ceruleo. Praticava quella sottile arte in compagnia o da solo, non faceva differenza e talvolta si alzava anche la notte per regalarsi qualche momento di riempimento, solo lui e il suo pacchetto di sigarette, che se durava due giorni era un miracolo.
Una stella cadente balenò in cielo, distante chissà quanti anni luce da lì. La mano di Francis andò nervosamente a tastare l’accendino ed il suo pollice iniziò a far scattare la miccia ad intermittenza, mentre le sue pupille si perdevano nella vastità del manto stellato. Ad un tratto la fiammella non si accese più e l’ormai inutile oggetto fu lasciato cadere a terrà con un sospiro, producendo un suono che alle sue orecchie apparve, in contrasto con l’atmosfera così silenziosa, eccessivamente disturbante. Si sbilanciò in avanti, con i gomiti appoggiati alla fredda ringhiera metallica, sporgendosi verso le sconfinate tenebre e prese un altro tiro dalla sigaretta. Era salito sulla Torre Eiffel quella sera dopo mesi, un lungo periodo nel quale non aveva nemmeno avuto il coraggio di avvicinarsi all’alto colosso di ferro. Forse il suo era stato un semplice capriccio, un modo per imputare ad un luogo inanimato ed impersonale la parziale responsabilità di ciò che era accaduto. Che comportamento infantile ed irrazionale. Eppure anche ora stare lassù gli procurava un senso di smarrimento, di rammarico e nostalgia ed il pesante flusso di ricordi lo investiva con la sua impietosa avanzata, alla quale non riusciva a mettere argini.
Il primo che arrivò lo avvolse come miele caldo e lo trasportò all’interno del cafe Artcurial sugli Champs-Elysées, una limpida mattina di Novembre. Seduti ad un tavolino situato al centro di una lunga stanza dal soffitto trasparente, intervallata da ampie vetrate che la rendevano simile ad una piccola fermata ferroviaria, due figure facevano colazione. Dapprima simili ad ombre, i loro capelli si colorarono di biondo dorato mentre i gesti presero sempre maggior vivacità. Uno dei due rideva.
«Tu insulti il vero gusto del caffè!» stava protestando Francis, mantenendo un tono divertito.
«Senti da che pulpito, mister baguette!» il ragazzo aveva un marcato accento inglese e due smeraldi verdi incastonati al posto degli occhi.
«Hai appena violentato quel cappuccino… tre bustine di zucchero sono nauseanti…».
L’altro continuava imperterrito la sua risata, mentre mescolava quella poltiglia grumosa che non poteva più avere la parvenza di un caffè né tantomeno il sapore. Il francese si incantò ad osservarne il volto, leggermente tirato e sbattuto, e le varie increspature che si andavano a creare ai lati degli occhi. Era così raro vederlo ridere che per nulla al mondo avrebbe osato interromperlo, anzi, avrebbe voluto poter registrare quel momento per conservarlo in eterno. Arthur. Un nome così tipicamente inglese che Francis avrebbe dovuto odiarlo solo a sentirlo pronunciare, ma che col tempo era finito per diventare la sua melodia preferita. Non cercava nemmeno di storpiarlo in sciocchi soprannomi che, oltre a rovinarne la bellezza, avrebbero fatto corrugare la fronte dell’altro per il fastidio.
Staccò un morso dal suo croissant, trovandolo ancora caldo e fragrante, mentre una goccia di miele dorato cadeva sul piattino. Si portò subito la salvietta alle labbra nel tentativo di non farsi cogliere con qualche briciola di pasta burrosa appiccicata al mento. Doveva sempre apparire il più inattaccabile possibile quando si trovava in sua compagnia per evitare di essere trafitto da qualche frecciatina sarcastica che talvolta veniva scoccata, sempre con ottimo tempismo. Arthur non sembrava essersi accorto del suo siparietto tanto era concentrato a rovistare, con il cucchiaino, il fondo della tazza. Prestando un’eccessiva attenzione e mordicchiandosi il labbro con fare impegnato, pescò quello che appariva a tutti gli effetti un ammasso di zucchero impregnato di caffè e se lo mise in bocca. Dall’espressione beata che subito gli illuminò il volto sembrava che stesse assaporando un particolare nettare divino, non della insalubre poltiglia dolciastra.
«Davvero cher, dovresti mangiare qualcosa» Francis interruppe la sua religiosa degustazione «magari che sia più consistente di un boccone di zucchero puro…»
«Nah» l’altro accompagnò la risposta con un chiaro gesto di dissenso «ho dormito due ore stanotte e non ho affatto fame».
Era inutile chiedergli perché dormisse così poco, la risposta che dava era sempre identica. Lui scriveva. Cosa, quanto e per chi erano tutte informazioni precluse al pubblico dominio, interrogativi che andavano a scontrarsi con il muro invalicabile che amava alzare di tanto in tanto. Eppure convogliava tutte le sue forze in tale attività e sembrava quasi divorarsi l’anima nella scrittura, tante erano le volte che lo aveva visto pallido, esausto e paranoico. Era come se, in quei periodi di immensa produttività, qualche meccanismo al suo interno andasse in avaria, un ingranaggio si inceppasse ed allora nulla si poteva fare perché solo il tempo era in grado di mutare la situazione. Ed Arthur diventava ancora più complesso di quanto già non fosse, mentre Francis non capiva se la scrittura fosse il suo elemento vitale o la malattia terminale che lo avrebbe portato lentamente alla morte.
«E prendi i medicinali a stomaco vuoto quindi?» non voleva risultare invadente ma l’effetto percepito fu proprio quello poiché l’altro si accigliò di colpo.
Lo sapeva, quante volte ancora doveva accadere prima che imparasse quanto l’inglese odiasse parlare di quella questione? Una volta, durante il tragitto verso l’università, li aveva ingenuamente chiamati “psicofarmaci” ed Arthur gli aveva riservato un broncio silenzioso ed insopportabile per i successivi cinque giorni. Cercava sempre di evitare l’argomento, pretendendo di ignorare che il suo problema esisteva e talvolta andava anche controllato affinchè non inficiasse troppo la sua vita pubblica e non si sovrapponesse agli amati studi. Quella mattina però l’inglese parve troppo di buon umore per soffermarsi troppo su ciò che Francis aveva erroneamente detto, o forse, più semplicemente, non aveva la minima intenzione di affrontare l’argomento dal momento che gli lanciò la bustina di zucchero arrotolata e dal nulla ricominciò a ridere. Il francese lo seguì a ruota, rinfrancato dal pensiero di non aver rovinato il felice momento, almeno quella volta.
 
I contorni della scena sfumarono così come le risate dei due si fecero sempre più flebili e lontane. I ricordi stavano trascinando Francis in avanti, verso periodi più recenti e, in qualche modo, più bui e drammatici. Si trovava ora nel corridoio dell’università e scandagliando le varie file di porte, tutte uguali tra loro, cercava di individuare l’aula dalla quale sarebbe uscito Arthur. Aguzzando la vista vide un ragazzo biondo allontanarsi precipitosamente da una delle classi e mosse qualche passo verso di lui, salvo poi arrestarsi di colpo. Occhiali quadrati, occhi azzurro cielo, indossava una pacchiana maglia con l’effige di un’aquila: quello era Alfred Jones. Il francese l’aveva visto qualche volta in compagnia di Arthur ed inizialmente aveva provato anche a parlarci, trovandolo da subito irritante e catalogandolo come una persona totalmente inutile e dannosa per il suo quieto vivere. Ma cosa ci faceva lì? Non frequentava di certo la facoltà di lettere.
La risposta gli fu subito chiara quando vide un’altra testa bionda, questa volta la sua testa bionda, rincorrerlo fuori dalla stanza per cercare di parlargli. L’inglese aveva il volto scomposto in una smorfia che sembrava lacerargli la pelle mentre continuava a grattarsi il polso nervosamente. Non era solo a disagio. Continuava a deglutire e parlava annaspando come se stesse nuotando controcorrente. Il fiatone gli spezzava le frasi ed un peso invisibile gli vessava le spalle, che si incurvavano ogni secondo di più. Era avvilito.
«Perché!?» tutta la frustrazione proruppe in un’unica esclamazione «Cosa… che ti ho fatto?».
«Ma niente, poi ti ho già detto» Alfred parlava serenamente con la stessa intonazione che usano i maestri davanti ad un alunno caparbio «tra noi non cambia nulla!».
«Beh, ma mi ha dett-».
«Non significa che se usciamo un po’ meno assieme le cose cambino,» lo aveva interrotto come si fa con un bambino molesto, «se preferisco frequentare altre persone o se qualche volta non ci sentiamo rimaniamo comunque… si siamo come prima».
«Come cosa?» la paura dettava le parole ad Arthur, ma la domanda rimase sospesa.
«E poi sono stanco io, tra la sessione di esami e gli allenamenti con la squadra di calcetto…».
«A quelli vai con Ivan?» l’inglese vomitò quel nome come se fosse uno spergiuro. Un secondo dopo però sembrò essersi pentito della domanda poiché la mano passò dal polso a coprire la bocca, in un estremo tentativo di scongiurare altre uscite infelici.
«Sì, ci divertiamo» ora anche il tono dell’americano sembrava incerto.
«All’inizio non la pensavi così…».
«Ma sai che l’ho rivalutato! Voglio dire, si ci sta come persona!» il suo solito tono allegrotto colorò quella che per l’altro fu come una condanna, «è simpatico!».
Francis non aveva potuto sentire altro dal momento che Arthur, una volta scusatosi con il suo interlocutore, era guizzato velocemente attraverso il corridoio per poi uscire dall’edificio, con la stessa smaniosa rapidità con cui la vittima fugge dal suo aguzzino. Lui, d’altro canto, non aveva mai compreso in che particolari e delicati rapporti fosse implicato con Alfred e che relazione i due avessero instaurato; quel che era palese era il grido di sofferenza che aveva avvertito inquinare ogni frase dell’inglese e la netta impressione che, se lo avesse seguito fuori, l’avrebbe trovato in lacrime. Doveva volergli un gran bene e, dalla delusione che aveva letto dentro quelle appannate iridi verdi, avergli donato la sua preziosa e fragile fiducia. Da lì in poi tutto era mutato e la situazione aveva iniziato a precipitare a velocità vertiginose, sprofondando infine in una fossa nella quale anche il francese per un po’ si era sentito impotente. Il cielo sapeva quanto detestasse quel Jones, quanto lo avrebbe volentieri preso a calci in faccia e quanto, quando ancora lo vedeva camminare saltellante, mano nella mano con Ivan, si doveva trattenere dallo sputargli in faccia i peggiori insulti. Eppure nonostante tutto esisteva un essere a Parigi che il francese era arrivato ad odiare maggiormente, una persona alla quale nessun perdono avrebbe mai concesso, neanche avesse campato cent’anni.
L’ultimo ricordo che apparve lo colpì come un pugno allo stomaco, tuttavia non si sottrasse alla riesumazione di quei tristi fatti poiché era doveroso per lui custodirli. Francis fu spiazzato dalla vividezza con cui la scena stava prendendo forma e mancò poco che si convincesse di star rivivendo veramente quel lontano pomeriggio, senonché un altro lui entrò dalla porta d’ingresso in gran fretta. Indossava un cappotto beige e una sciarpa di lino, poiché marzo quell’anno non sembrava voler donare un po’ di tepore alla città. L’appartamento nel quale si trovava era piccolo e mal tenuto. Una sottile patina di polvere ricopriva ogni elemento del mobilio e bastava compiere il minimo movimento per alzare una nube di irritante pulviscolo. Le tende ocra erano tirate cosicché l’atmosfera dell’ambiente, già soffocante di per sé, risultava evanescente nella triste penombra. Ai lati del divano e sopra il basso tavolinetto giacevano abbandonate una fila di bottiglie di vetro, tutte completamente vuote. Il francese si chinò sui talloni per esaminarne alcune, constatando, senza grande sorpresa, che andavano dall’amaro whiskey al gin più scadente. Passò il pollice sulla liscia superficie trasparente mentre si guardava attorno, smarrito e titubante in quel quadro di decadenza e disordine che era divenuto l’appartamento di Arthur, da sempre pignolo e ossessionato dalla pulizia. Si alzò. I suoi passi sul parquet producevano un suono scricchiolante che echeggiava sulle pareti come se queste non captassero rumori da secoli. Francis arrivò davanti alla porta del bagno, la quale non oppose resistenza quando lui tirò giù l’arrugginita maniglia d’ottone.
Immerso nello squallore di mute mattonelle grigiastre, con la faccia china e le braccia incrociate appoggiate sulla tazza ingiallita, Arthur, a prima vista, sembrava sonnecchiare. Soltanto quando lo stridio dei cardini si acutizzò volse lo sguardo verso l’intruso che lo stava disturbando. Io splendore dei suoi occhi sembrava coperto da una patina di fango mentre le occhiaie violacee risaltavano in contrasto con il colore lattiginoso della pelle. I capelli unti, la sporca maglia verde buttata addosso al torace scarno, lo stesso odore di alcool e bile che impregnava l’aria rendendola irrespirabile, tutto lì dentro comunicava lo stato di trascuratezza emanato dalla malaticcia figura dell’inglese. Francis rimase paralizzato sulla porta, bloccato dal dilagare del pesante fetore e dalla vacua espressione riservatagli dal ragazzo.
«Sei qui…» un flebile gemito lo accolse.
Il francese lo scannerizzò con lo sguardo senza che il dissenso dipintogli in volto mutasse, poi si avvicinò al ripiano del lavandino ed iniziò a raddrizzare tutte le scatolette che trovava rovesciate, leggendovi sopra i nomi dei vari medicinali. Infine con una cura maniacale le svuotò e si mise a contare le pillole sul palmo della mano, una ad una, come se stesse cercando di mettere assieme la giusta somma per pagare alla cassa.
«Non ne stai più prendendo» sancì non appena ebbe chiuso l’ultimo barattolo.
«Eccetto la Vortcox… Virxa…»
«Vortioxetina. Assumi un antidepressivo, che mischiato a tutto quello che bevi…» Francis si mise a fissare l’angolo destro del soffitto, come se ora volesse contarne la quantità di ragnatele lì intessute.
Non aveva nemmeno la forza di guardarlo. Arthur parve percepirlo e pertanto tornò a rivolgere la sua attenzione al calcare che permeava il sanitario, mentre dalla sua posizione inginocchiata cercò di farsi ancora più piccolo. L’altro si maledisse. Aveva promesso a se stesso che, qualsiasi cosa fosse accaduta, lui gli sarebbe rimasto accanto per sostenerlo ed ora non riusciva neanche a rompere quel muro di straziante silenzio, che diventava, minuto dopo minuto, più pesante dell’olezzo stagnante del bagno. Aveva sbagliato lui. Per tutto il mese non si era mai presentato alla sua porta, aveva provato a dimenticare che, dentro quelle mura, ci fosse un essere umano che stava soffrendo e si era ostinatamente incaponito a vivere come se la faccenda non fosse di sua competenza. Sapeva che l’altro, fragile, ferito e con marcate tendenze autodistruttive, avrebbe avuto bisogno del suo aiuto o perlomeno della sua presenza, ma aveva ignorato e zittito la coscienza quando cercava di ricordargli ciò. Tutto solo per gelosia. Da quando aveva assistito alla conversazione tra Arthur e Alfred il suo gretto egoismo aveva avuto il sopravvento e poco a poco lo aveva fatto allontanare dall’inglese. Erano bastato quanto? Tre mesi scarsi ed ecco come la situazione era degenerata, deragliando da qualsiasi binario possibile ed immaginabile.
«Ti stai nutrendo?» non riusciva ancora a guardarlo, ma provò a fare il punto della situazione.
«Seh… di uva fermentata».
«Idratando?».
«Sei qui…» un leggero sorriso circondò quelle deboli parole.
«Dormendo? Curando?» tuonò il francese e, volgendogli le nere pupille, lo trapassò con lo sguardo «non morendo?!».
Il silenzio che piombò fu assordante, ancora più doloroso di quello precedente poiché carico di una nuova, terrificante, consapevolezza. Francis si mosse di scatto e, senza alcuna grazia, arpionò forte il polso dell’inglese, salvo poi allentare la presa non appena ne avvertì l’eccessiva magrezza. Lo vide puntellarsi sul gomito per provare ad alzarsi, ma debolezza e stordimento giocavano a suo sfavore, così gli passò l’altro braccio sotto le ascelle in modo da agevolare il sollevamento. Quando finalmente Arthur fu in piedi lo aiutò a reggersi, mentre man mano che procedevano l’altro si aggrappava sempre di più alle sue spalle. Con immensa fatica raggiunsero il divano sgualcito, sopra il quale l’inglese cadde a peso morto. Poi dalle sue labbra esangui uscì un sbuffo.
«Perché?».
Era un suo vizio farsi sempre troppe domande pur sapendo che talvolta le risposte non gli sarebbero piaciute. Francis però gli aveva sempre dato una certa sicurezza in materia, possedeva per ogni occasione qualche frase gentile a portata di mano e pertanto era lecito chiedergli qualsiasi cosa, senza incappare nel rischio di rimanere delusi. C’era poi, in quel particolare momento, una ricerca di rassicurazione nel tono dell’inglese che, per brevi attimi, gli riportò alla mente lo scambio di battute con l’americano a cui aveva assistito quel lontano giorno. Scosse immediatamente il capo per scrollarsi di dosso pensieri, quesiti e sospetti che si annidavano ancora nella sua mente. No, lui non lo avrebbe abbandonato. Forse ci sarebbero voluti anni prima che Arthur se ne accorgesse, prima che capisse le ragioni, i sentimenti dai quali scaturiva ogni suo gesto, prima che accogliesse quella scoperta ed imparasse ad accettarla, magari a ricambiarla. Poteva concedergli tutto il tempo di cui aveva bisogno, lui gli sarebbe stato comunque accanto, in un tacito giuramento che iniziava da lì, dalle maleodoranti bottiglie vuote e dalla distruzione nella quale versavano il cuore e l’anima dell’inglese. Nulla avrebbe fatto vacillare la sua scelta, niente al mondo era in grado di sviare la sua ferma volontà ed avrebbe dato ogni avere per poter regalare ad Arthur la felicità che meritava. Furono forse quell’insieme aggrovigliato di pensieri che lo portarono ad avvicinarsi ed inginocchiarsi a ridosso della poltrona, per poi pronunciare poche parole lapidarie.
«Perché non sei solo».
Anche questo ricordo scomparve, smarrendosi nell’ultima nube di fumo che leggera volò via e si dissolse nell’oscurità. Francis alzò ancora una volta lo sguardo verso la volta stellata, ma la sua immobilità rimarcò il già presente sconforto. Perché mai si era addentrato ancora una volta in quel lontano tempo perduto? Proprio non riusciva a lasciare se stesso in pace? Quanto ancora doveva andare avanti a torturarsi, perdendosi nel labirinto privo di uscita che era il suo passato? Aveva dato il massimo con Arthur, aveva rispettato l’antico patto ed insieme erano riusciti a ricostruire alcuni cocci, precedentemente frantumati. Il mondo lentamente aveva ricominciato a girare, il sole a sbucare dietro le nuvole più grigie e con esso il sorriso dell’inglese aveva acquisito sempre più vigore.
Tutto aveva la parvenza di un sogno e Francis era stato precipitoso nel tentare di renderlo definitivamente concreto. Peccando si impazienza aveva desiderato, con ogni parte di sé, di poter tramutare quella dimensione onirica in realtà e sapeva bene quale fosse l’ultima conquista che ormai mancava. Doveva slegare una volta per sempre Arthur dalle catene che lo legavano ai vecchi ricordi, da quella presenza vaporosa ma ancora troppo ingombrante che era per lui la memoria di Alfred. Non ci era voluto molto a trovare l’idea dalla quale poter creare ciò su cui poi avrebbe fatto leva. Il francese lo aveva avvistato nel campus universitario in compagnia di Ivan ed era bastato osservarli, anche di sfuggita, e captare sporadiche conversazioni per capire che i due stavano assieme. Poi, con il pretesto di assistere a qualche partita della squadra di calcetto, aveva scattato loro dozzine di foto, preziose istantanee che li ritraevano felici, sereni ed innamorati, proprio come sarebbero stati sicuramente lui e Arthur a breve. Loro due meritavano di rifarsi una vita, ecco cosa aveva pensato quella fatidica sera quando, salito in cima alla Torre Eiffel lo aveva chiamato.
«Raggiungimi dai!».
«Ma è tardi, sono stanco!» aveva protestato l’altro.
«Devo dirti una cosa importante, su, forza!».
Dopo averlo convinto aveva respirato quella frizzante aria autunnale, inebriato dall’altezza e messo in agitazione da ogni secondo che passava. Mancava poco, pochissimo. Gli avrebbe detto tutto, sì, avrebbe aperto il suo cuore ad Arthur una volta per tutte, mostrandogli le foto scattate per facilitargli il compito di obliare il sottile legame che ancora poteva conservare con l’americano. Non gli sembrava vero, provava le stesse aspettative di un bambino la mattina di natale ed era finalmente pronto a scartare il regalo tanto atteso, che consisteva semplicemente nello stringere tra le braccia il suo Arthur.
La trepidazione però cedette il passo al dubbio quando, dopo mezz’ora circa, l’altro non si era ancora fatto vedere. Gli interrogativi iniziarono ad ammassarsi dentro al petto e sempre più gli procurarono fastidiose fitte, simili a punture di piccoli spilli. L’apprensione dominava lo scorrere del tempo e trascinava con sé ansia, incertezza e paura. Cinque volte il telefono dell’inglese suonò a vuoto, cinque volte Francis dovette sopprimere un urlo di frustrazione ed impotenza. Dov’era? Si era tirato indietro? Lo aveva abbandonato? Dopo tutto quello che aveva fatto per lui sarebbe stato un gesto da vero ingrato, una svolta che mai avrebbe previsto e che mal si addiceva al carattere dell’inglese, poco avvezzo al tradimento. E fu proprio mentre pensava alle svariate ingiustizie che gli aveva riservato il destino e a quanto sciocco era stato a coltivare baldanzose e futili speranze, che si sporse al di là della ringhiera, come a volersi gettare in quell’immenso vuoto. Parigi vista da lì sembrava un secondo cielo, ancora più luminoso della notturna arcata celeste grazie alle migliaia di luci artificiali che brillavano fulgide come stelle, emanando quella luce gialla così calda e rassicurante. Tra i lampioni che accompagnavano le strade vicine però, in mezzo a quella monotonia luminosa, scorse un’altra tonalità lampeggiare nella sera. Un freddo blu si alternava ad un rosso acceso e, aguzzando la vista, si poteva riconoscere la fonte di quegli inquietanti bagliori in un’ambulanza. Il segnale acustico che gli giunse alle orecchie, simile ad un’inquietante litania, catalizzò tutti i suoi sensi verso quell’indistinta disgrazia.
Ancora oggi Francis non riusciva a spiegarselo, ma sin da quel maledetto momento la sua anima aveva concepito il presagio di una tale lacerante sventura e, senza una ragionevole motivazione apparente, lo aveva spinto a muoversi. Corse a perdifiato giù dalla torre e attraversò le vie che lo avrebbero condotto al punto fatale con una rapidità che non credeva possibile. Non sentiva né fatica né stanchezza, il suo cuore era così paralizzato da ovattare ogni sensazione, gelato da quella impietosa luce blu che si faceva sempre più prossima, malgrado a lui sembrasse ormai di correre fermo sul posto. Il fischio che gli aveva invaso le orecchie all’inizio della sua marcia disperata lo rendeva sordo alle sirene che provenivano, ora se ne accorse, non dall’ambulanza bensì da alcune pattuglie sopraggiunte. Dovette frasi largo tra qualche curioso, ma ormai procedeva meccanicamente e scostava le persone con gesti distratti ma implacabili. Non riuscì però a passare oltre la linea di demarcazione posta dai paramedici e non valsero a nulla le sue preghiere singhiozzate, le frasi spezzate con cui assertiva di conoscerlo, i tentativi di forzare i vigilanti per potersi avvicinare. L’area era interdetta e il mondo esterno si mostrò totalmente indifferente ai sofferenti occhi lucidi del francese, i quali non riflettevano altro se non terrore e smarrimento. Riuscì, per un crudele scherzo dell’universo, a vedere fin troppo bene il corpo senza vita di Arthur, disteso, scomposto come una marionetta a cui sono stati tagliati i fili, sopra l’asfalto imbrattato da qualche schizzo rosso sangue. Aveva gli occhi, le sue stupende gemme color giada, sbarrati e colmi di una muta richiesta di perdono a cui mai più avrebbe potuto dar voce, mentre la bocca dischiusa gli conferiva un’espressione indecifrabile.
Francis osservò poi con minore attenzione la macchina grigio metallizzato che aveva colpito e poi sbalzato l’inglese sulla dura strada; tra sé catalogò deplorevole l’aspetto trasandato dello sprovveduto autista, esplicitamente alticcio, al quale due poliziotti stavano parlando. Non provò nulla per quell’omuncolo, forse sulla trentina, nessun rancore né odio, non lo considerò tanto più colpevole di quanto potesse essere lo sporco asfalto sul quale la testa di Arthur aveva battuto. Non lo accusò quando, dai giornali, seppe che guidava in stato di ebrezza e l’aveva investito mentre l’altro attraversava inerme le strisce pedonali. Non se la prese con lui nemmeno quando lo chiamarono dalla centrale per consegnargli quanto avevano trovato nelle tasche del corpo n◦23 dopo il superfluo referto autoptico, un biglietto coperto dalla sua calligrafia frettolosa e smilza.
“Non sono mai stato bravo a parlare, ma mi reputo scioccamente uno scrittore e quindi provo ad esprimermi tramite il mezzo che so utilizzare meglio. Da quando, quel giorno che ben ricorderai, mi hai detto che non sarei stato solo, io ho contratto con te un debito troppo grande per essere estinto. Non conosco parole abbastanza efficaci, né sono capace di gesti tanto epici da dimostrarti quanto tu sia importante per me; ciò che posso fare è solo nutrirmi del tuo amore (perché ho capito che è di questo che si tratta) fintanto che tu ti accorga del mio. Grazie Francis.”
Francis non avrebbe mai avuto la faccia tosta di addossare il peso della morte di Arthur su quel distratto pilota poiché sapeva bene chi usare come capro espiatorio. Era stato lui ad insistere quella sera affinché uscisse e soltanto per potergli mostrare quello che un tempo, ai suoi occhi, era sembrata l’unica idea che riuscisse a risolvere lo stato di stasi nel quale si trovavano. Anzi, in cui Francis credeva di trovarsi, come dimostratogli poi, troppo tardi, da quel prezioso pezzo di carta, l’ultimo canto del ragazzo che aveva tanto amato e che alla fine gli aveva inferto un colpo mortale con quelle poche e semplici parole. La colpa non riusciva a trovarla in nessuno che non fosse se stesso e la sua anima, macchiata dall’egoismo e corrosa dalla gelosia.
Se solo non fosse stato precipitoso, forse vendicativo nei confronti di quello scialbo americano, se avesse avuto la pazienza che inizialmente si era imposto, le cose sarebbero andate diversamente. Avrebbe dovuto essere capace di amarlo di più, ecco dove aveva commesso l’errore capitale che, se solo fosse stato evitato, avrebbe dato alla vicenda tutt’altro esito ed ora Arthur avrebbe potuto assistere a quella stellata con lui.
Ad un tratto, potevano essere passate ore come pochi secondi, il nero notturno del firmamento si tinse di un tenue azzurro e, in lontananza, l’orizzonte si macchiò di rosso. Le prime luci dell’alba invasero l’atmosfera e spensero le superstiti stelle, mentre una rovente palla di fuoco guadagnava lentamente il confine tra terra e cielo. Francis contemplò ad occhi aperti la comparsa del sole fintanto che il dolore non fu accecante, allora, coprendosi gli occhi con la mano, cercò di nascondere il volto a quella bagliore rivelatore.
«Credo che l’alba sia troppo sopravvalutata, in fin dei conti non è tutto ‘sto granchè» aveva sentenziato una volta Arthur, lo sguardo attento e vigile che non lasciava trasparire la stanchezza dovuta alle poche ore di sonno. Al che lui gli aveva obbiettato che, se tante persone nel mondo facevano il sacrificio di svegliarsi così presto per poterla ammirare, un qualche motivo doveva esserci.
«Beh certo, c’è tanta superficialità in giro. Lo sai che è tipico della gente superficiale non riuscire ad apprezzare quello che più si ha a portata di mano? Prendi il tramonto ad esempio, è mille volte meglio! Il suo unico problema è che lo puoi vedere ogni giorno ed ecco che perde gran parte della sua bellezza» gli aveva risposto l’inglese, incapace di arretrare la sua posizione anche nella più infantile delle discussioni.
Francis tastò la tasca dei jeans alla ricerca della confezione di sigarette. L’arrivo della luce lo aveva messo profondamente a disagio, si sentiva scoperto e vulnerabile come se quei primi raggi di sole gli avessero riaperto il baratro di vuoto assoluto che difficilmente gli dava pace. La bolla di solitudine che gli cresceva dentro lo rendeva ogni giorno ubriaco di indifferenza e gretto menefreghismo nei confronti del prossimo e del mondo circostante. In quel momento aveva nuovamente bisogno di quella sensazione di torpore che solo la nicotina sapeva donargli, simulando il falso senso di riempimento che lo faceva tirare avanti. Afferrò in malo modo, con la punta delle dita, il pacchetto, il quale gli sfuggì dalla presa e andò a rimbalzare contro la ringhiera, prima di ruzzolare per quei 300 metri che lo separavano dal suolo. Francis seguì il suo lineare tragitto con lo sguardo, neanche troppo infastidito per la perdita, bensì parecchio incuriosito per quello che avrebbe potuto provare al suo posto. Cadere da quella altezza cosa avrebbe significato per uno come lui? Capitombolare verso una fine certa e totale o piuttosto librarsi in aria per trovare, in quell’ultimo volo, la tanto agognata pace? Forse si sarebbe pentito nel bel mezzo della discesa, una volta realizzata la consapevolezza che nel suo aldilà non ci sarebbe stato nessun Arthur ad aspettarlo, ma soltanto l’ennesimo sconfinato vuoto che l’avrebbe fagocitato nell’oscurità.
Eppure era lì. Sarebbe bastato così poco per porre fine all’oppressione che si portava a presso ogni giorno, una spinta rapida e risoluta cosicché la sua discesa verso la libertà potesse compiersi. Magari avrebbe potuto essere l’unico modo per riuscire a perdonarsi ed espiare finalmente l’amara colpa che lo soffocava e gli impediva di vivere da poco meno di un anno ormai. Inspirò profondamente e chiuse gli occhi, sfogliando i suoi ricordi per estrarre il volto di Arthur che sorridente lo avrebbe accompagnato in quell’impresa. Strinse la presa sulla ringhiera, lo slancio necessario sarebbe stato minimo.
«Te ne serve una? Ho visto che ti sono cadute…»
Una voce dietro di lui lo fece sobbalzare. Francis si voltò trovandosi faccia a faccia con albino dal sorriso sardonico e l’espressione determinata. Portava un completo elegante e stringeva convulsamente un mazzo di rose rosse abbastanza sgualcito. Nonostante l’atteggiamento spavaldo, dietro a quella maschera di sicurezza vi si poteva leggere un tenue sconforto e dentro ai suoi occhi lampeggiava un baluginio di delusione. Francis non gli avrebbe dato più di trent’anni ed era palese che fosse reduce da un appuntamento andato male. Come se quel pensiero fosse stato detto ad alta voce l’interlocutore parlò ancora.
«Serata fallimentare…» mormorò simulando una leggera risata ed agitando i fiori, «anche la tua bella non si è presentata?».
Il francese rimase stupefatto da quella considerazione. Doveva avere davvero l’aria di un disperato, confinato lassù a guardare il vuoto sotto di lui, per dare quell’impressione all’esterno. D’altro canto, ora che aveva una visuale più ampia, si accorse che non era più solo in quella terrazza e che qualche sparuta anima era venuta a contemplare i primi bagliori del mattino da tale altezza, per beneficiare dell’incantevole panorama. C’era una ragazza, dai capelli così chiari da sembrare bianchi, che fissava sconsolata l’orizzonte mentre la lunga gonna blu ondeggiava al vento; c’era poi un minuto ragazzo castano dallo sguardo dolce e bonario che sorrideva felice ad un biondo, vestito in modo militaresco e con la corporatura imponente. Poche persone cui Francis non aveva nemmeno fatto caso, ma che sicuramente ad Arthur sarebbero apparse come rumorose e moleste.
«No io…» Francis osservò la mano che gli porgeva la sigaretta «sono stato lasciato».
In un certo senso era vero. Dieci mesi prima Arthur lo aveva abbandonato per sempre e non ci sarebbe stato alcun modo per poter cambiare quel fatto. Che soluzione sarebbe stata far terminare la sua vita? Era soltanto l’ennesimo capriccio di un uomo che non è in grado di guardare in faccia la realtà e non accetta le cose per come sono. Dopotutto a lui non era andata come al povero disilluso che aveva davanti, abbandonato da una ragazza che evidentemente non lo ricambiava. Francis aveva avuto la fortuna di sapere che il suo Arthur non lo avrebbe mai rifiutato, i suoi sentimenti erano stati accettati in fin dei conti e solo per un puro, disgraziato, caso non era riuscito a coronare l’ambito sogno. “Quanto sei superficiale Fran, vuoi buttare via la tua vita perché non ti piace? Non riesci ad apprezzarla perché ce l’hai a portata di mano, ecco cosa!”. Fu come ascoltare nuovamente quella dolce cantilena che storpiava, con una pronuncia inglese, ogni parola. La stizzita voce di Arthur s’impose sui suoi pensieri, lenendo le profonde ferite e regalandogli una nuova e disarmante certezza.
«Allora amico, la prendi questa sigaretta per festeggiare il fallimento comune?».
Ormai il sole iniziava a dominare il cielo e con la sua luce rendeva i colori più vividi e vivaci. Tra poco sarebbe scoppiata l’afa torrida che caratterizzava le lunghe giornate di luglio e Francis doveva trovare un modo per trascorrerla produttivamente. Un sorriso non tardò a palesarglisi in volto.
«No grazie, ho smesso».

Sproloqui inutili
Qualche precisazione. NOn credo che la Torre Eiffel sia aperta 24 ore su 24, ma mi serviva per creare atmosfera, chiamiamola licenza poetica. Inoltre il terrazzo non ha una ringhiera così bassa in modo tale che il primo matto si butti ma era meno elegante scrivere "Francis appoggiato sulla grata di sicurezza" e quidi mi sono fatta anche questa concessione. Per il resto niente da dire, la shot non aveva la pretesa di essere pubblicata quindi mi scuso per eventuali colpi apoplettici causati, o stordimenti generati dalla noiosa vicenda raccontata. Nel caso abbiate qualche commento da fare non mangio tranquilli anzi.
Stringo la mano agli impavidi giunti fin qui senza rimettere il pranzo:)
(voi non avete idea da quante ore io stia cercando di editare questo capitolo, sto avendo un esaurimento nervoso)

 
 
 
  
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