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Autore: MarcoBacchella    25/07/2018    0 recensioni
L'antologia delle psicosi umane può essere definita come una raccolta di scarabocchi su un quaderno da tre euro, che spaziano dalla pizza con l'ananas alla questione ontologica dell'identità umana, passando anche per la Bolivia e per tutti i mezzi testi che ho scritto. è, per sua natura, irregolare: che questa irregolarità sia voluta o meno, starà poi a voi deciderlo.
L'antologia in sè va a comporre un universo in cui i miei altri testi vanno a intrecciarsi, un universo fatto di Milano, di biciclette, di musica scadente e noodles istantanei.
I principali nuclei tematici, ovviamente in disordine, sono:
La cultura in quanto feticcio
Il ruolo dei ruoli
Le biciclette
L'entropia delle lampadine a incandescenza
Il vademecum
Genere: Avventura, Comico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ant5

Perché ho ricominciato a drogarmi:

Ci sono due cose che odio: i viaggi, e i viaggiatori. Ed ecco il resoconto del viaggetto che ho fatto nel parco dietro casa.

                 Ricordo perfettamente quando sentii la necessità: era uno di quei periodi particolarmente brutti. Sia meteorologicamente che emotivamente. Il mio mettermi in discussione e tentare di risolvere i problemi continuando a rimuginarci su fino a che la soluzione non appariva di fronte ai miei occhi mi aveva portato a passare dei giorni in stato catatonico per la mia inabilità di portare a termine qualsiasi cambiamento effettivo e perdurante.

                 La sera prima guardai il meteo. Ci sarebbe stata la prima giornata di sole dopo un lungo inverno.
La mattina quindi mi alzai alle sette, di domenica. Feci il caffè, guardai la dispensa vuota, presi le chiavi di casa e scesi le scale. Girai a sinistra, feci 700 metri in direzione nord. Arrivato davanti al parco presi un respiro, mi allacciai la felpa e cominciai a correre.

                 Feci due km, un intero giro del laghetto del parco, ma nel farli capii due cose molto importanti:

·         Io odio correre

·         Io adoro correre

Intendiamoci: correre mi fa proprio schifo. Sì, tento di mangiare sano e non fare una vita completamente sedentaria, faccio almeno sei mila passi al giorno, non mangio dolci e raramente mi abbuffo, ma le gambe le uso solo per fare gli scalini delle scale mobili a due a due, mica le avevo mai usate per correre. E tutt’ora, che è un po’ che corro, arriva un momento mentre corro che mi fa chiedere chi me l’abbia fatto fare. Che mi fanno male le gambe, mi fa male la milza, mi fa male lo stomaca, mi fanno male gli addominali, che fa freddo, che fa caldo, che le cuffie mi cadono, che fa tutto schifo. Ma in quell’esatto momento son riuscito a trovare una lucidità mentale comune solo ad alcune droghe sperimentali. Agonismo, adrenalina e disidratazione ti portano a pensare, ma non a rimuginare in modo catatonico.

                 Dopo un mesetto, quando ho notato che correre non mi bastava più, ho cominciato ad andare in università in bicicletta. Era una bici senza freno posteriore che incarnava quel one liner di Mark Twain: Get a bycicle. You won’t regret it, if you survive.
Allungava il tempo di percorrenza da casa all’università, era faticoso, era poco pratico e rischiavo di farmi male: erano perfetti motivi per non provare neanche ad andare in università in bici. Ma tenere il telefono in tasca invece che davanti al naso, dover fare i conti con centinaia di imprevisti in una sola giornata e perdersi per Milano mentre si è in ritardo ti insegnano a farti andar bene i pensieri che hai in testa, ti insegnano a conviverci. D’altronde, se sei troppo impegnato a non farti investire non puoi avere una crisi d’identità.

Ad un ceerto punto della primavera del 2018, un mio collega di università mi propose di partecipare a una “critical mass”, in modo molto bonario. Non mi spiegò esattamente cosa fosse una critical mass, in realtà, mi disse solo di presentarmi in piazza Mercanti con la mia bici.

                 Quando arrivai capii perché non mi disse nulla. Definirlo un ritrovo di persone in bicicletta significherebbe sminuire e svalutare il significato dietro a quell’insieme disunito di 500 bicilette e relativi proprietari. Era una sorta di messa a cui ognuno partecipava per motivi differenti, con mezzi di trasporto differenti (non c’erano solo biciclette, ma pattini, longboard, tricicli, risciò) in una sorta di corteo acefalo in cui il sogno anarchico della forza e della responsabilità collettiva si affermavano per quattro ore la settimana. Era a tutti gli effetti quella scena di Fast&Furious Tokyo Drift dove c’è il protagonista nel parcheggio e si vedono tutte le macchine modificate, una più stravagante dell’altra.

In quel momento, ma soprattutto quando mi resi conto della potenza creatrice che un atto del genere può causare, mi sentii non solo vivo, ma parte di un insieme, parte di un collettivo che, per motivi diversi, voleva pedalare per 4 ore in pace senza macchine che disturbavano: ma anche così si rischia di non capire il valore di un qualcosa che è destinato a morire dopo quattro ore, ma che rinasce con intensità sempre crescente la settimana dopo senza alcun tipo di obbligo se non la propria voglia di appagamento di tante motivazioni diverse quante persone compongono una critical mass.

                 Credo che la funzione delle droghe sia proprio questo: evitare di rimuginare per avere una chiarezza utile alla vita, o rimuginare in modo non letale per tentare di avere un corretto funzionamento, o trovare il modo di non rimuginare per poter vivere senza costanti voci.
Ma questo causa non poche ripercussioni. Se io eseguo azioni come correre, pulire casa o andare in bicicletta per evitare di rimuginare, non è un’anestesia alla quale mi sottopongo per evitare di rimanere da solo con me stesso? Se è così, non vado a plasmare delle meta strutture che vanno a rifarsi ad altre meta strutture in cui io penso per evitare di pensare?

                 Fino a che non trovo la risposta a quest’utima domanda, penso continuerò a drogarmi.

  
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