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Autore: heartbreakerz    02/08/2018    4 recensioni
[ Fr/UK (Francis/Arthur), post-Russia 2018 ]
Il primo incontro di Francis e Arthur dopo la finale dei mondiali.
Dal testo: «Mh-mh.»
«E poi—ehi, mi stai ascoltando?»
Francis sollevò lo sguardo verso di lui. «Naturalmente,
mon ami» disse con una certa dose di sdegno e ipocrisia. «Per chi mi hai preso?»
«Esattamente per uno che non ascolta!» sbottò Arthur. «E non chiamarmi
ton ami. Non sono tuo amico. Oggi meno di ieri.»
Trattenere una risata fu difficile. «E domani? Come funziona?»
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Tutti i personaggi e le ambientazioni contenuti all’interno di questa storia non mi appartengono. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e non intende infrangere il copyright dell’autore originale.


 

Une fois par month

 

La porta d’ingresso si aprì e si richiuse di colpo. Ci fu uno scalpitio lungo il corridoio, un insieme di tonf e clack e imprecazioni particolarmente colorite, e poi Arthur comparve in salotto, con i capelli spettinati, la fronte sudata e uno stivale in mano. Lo lanciò malamente a terra, vicino al divano, e si piegò per sfilarsi anche l’altro. I suoi pantaloni s’impigliarono nella cerniera. Arthur imprecò di nuovo, con più intensità questa volta, e diede un forte strattone al tiretto. Dopo un minuto esageratamente lungo, finalmente anche l’altro stivale raggiunse il fratello sul pavimento, e Arthur si lasciò cadere a sedere sul divano.

Francis aspettò la fine della scena da dietro il bancone della cucina. Provò a dire: «Bentorn—» ma l’occhiataccia che gli lanciò Arthur, degna del suo antico furore da pirata, lo zittì sul posto. Con un sospiro, sapendo già cosa lo aspettava, Francis si limitò a spegnere il bollitore dell’acqua e stringersi nelle spalle.

«Dunque?» chiese pacato.

Arthur girò il capo con lentezza esasperante. «Dunque?» lo imitò Arthur, corrucciando le sopracciglia in un’espressione che urlava ho molto da dire ma dovrai tirarmelo fuori a forza. «Dunque niente» continuò. «Cosa dovrebbe esserci, eh? È solo un weekend come un altro, un weekend in cui, per puro caso, cade il nostro incontro mensile. Cosa vuoi sapere, dunque?» Parlava veloce, Arthur, inciampando nelle parole straniere, pronunciando qualche s e qualche t di troppo, in quel pessimo francese che usava ogni volta che tentava di nascondere la rabbia o l’irritazione. Quel giorno le t erano particolarmente calcate, e le s sibilanti come z.

Francis versò l’acqua bollente dentro la teiera. «Hai qualcosa da dirmi?» chiese allora, scandendo lentamente ogni sillaba.

«Io?» fece l’altro. «No, niente. Perché dovrei aver qualcosa da dire?» E poi, in inglese: «Anzi—» la sua voce divenne quasi stridula, «—sì, una cosa voglio dirla».

«Ovvero?»

«Non lo accetto!»

Francis sospirò, di nuovo. Sapeva che quel commento sarebbe arrivato. L’aveva aspettato per tutta la settimana: una settimana di silenzi, messaggi scocciati e chiamate perse alle due di notte. L’aveva aspettato senza fare domande, paziente come un padre alle prese con la rabbia silenziosa del proprio figlio. Ma l’averlo aspettato non rendeva più facile la situazione.

Solo, almeno ora era preparato.

Sistemò la teiera vicino alle tazzine e poi sollevò il cabaret con maestria, senza far trillare i cucchiai contro la ceramica, e lo portò sul tavolino in vetro di fronte al divano, lì dove Arthur sedeva, ora, con la schiena dritta, rigida, e con le mani che continuavano a muoversi su e giù, su e giù lungo le sue cosce, come a voler lisciare la stoffa dei pantaloni, o forse con la semplice intenzione di far innervosire anche Francis.

Francis, che si sedette al suo fianco e poggiò le mani sulle sue, afferrandole con fermezza e rallentando i suoi movimenti.

Arthur parve non accorgersene. Si voltò invece verso Francis, con gli occhi infiammati, e gli disse: «Mi hai sentito? Ti ho detto che non lo accetto».

«Mh-mh» mormorò Francis, monotono. Il suo sguardo era concentrato sulle mani di Arthur. Erano più piccole delle sue, abbastanza perché Francis potesse coprirle con le proprie, ma si portavano dietro graffi e calli che Francis non aveva. Li accarezzava allora con i polpastrelli, per imparare a conoscerli, muovendosi in cerchio sul suo palmo sudato, oppure dietro, sul dorso, nel punto in cui la mano si fondeva con il polso, e ammirava come la sua pelle si tendeva in piccoli brividi involontari. Quella era la sua parte preferita del loro incontro mensile: il modo in cui Arthur si avvicinava e si lasciava sfiorare senza accorgersene, come se fosse la normalità, come se potesse diventare la normalità. E l’idea gli piaceva così tanto che le lamentele di Arthur cominciavano a sembrare solo un minuscolo inconveniente.

«Né ora né mai» continuava Arthur, intanto.

«Mh-mh.»

«E poi—ehi, mi stai ascoltando?»

Francis sollevò lo sguardo verso di lui. «Naturalmente, mon ami» disse con una certa dose di sdegno e ipocrisia. «Per chi mi hai preso?»

«Esattamente per uno che non ascolta!» sbottò Arthur. «E non chiamarmi ton ami. Non sono tuo amico. Oggi meno di ieri.»

Trattenere una risata fu difficile. «E domani? Come funziona?»

«Sei a pelo, rana» disse Arthur. Liberò le mani da quelle di Francis e gli puntò un dito contro il petto. «Attento a te.»

«Attentissimo» rispose Francis, per niente attento. Si allungò invece verso il tavolino e sollevò il coperchio della teiera, lanciando un’occhiata al suo interno. «Tè?» disse, facendo un breve cenno ad Arthur.

Lui si sporse all’avanti, incuriosito dal delicato profumo che usciva dalla teiera, ma si bloccò all’improvviso, come colpito da una frusta. Corrucciò le sopracciglia, creando una piccola ruga al centro della fronte, poco sopra al suo naso. Francis conosceva anche quella ruga. Gli diceva non so quanto fidarmi del tuo tè. E come non detto, un istante dopo: «Meglio per te che sia buono» disse Arthur.

Francis verso il tè in due tazzine e ne offrì una ad Arthur. «Oui, vado molto fiero delle mie tea skills

«E a chi lo devi?»

«Cosa vuoi, un ringraziamento?»

Arthur prese un lungo sorso dalla tazzina. «Perché no» disse poi, mentre la ruga sulla sua fronte si rilassava, e la pelle tornava liscia come al solito.

«Uhm…» mormorò Francis, pensieroso. «Se vuoi posso insegnarti a giocare a calcio, così la prossima volta arriverai almeno al terzo post—Arthur!» Sobbalzò sul posto, con la tazzina in bilico tra le dita, lanciando un’occhiataccia al piede di Arthur, ora conficcato tra le sue coste, contro al suo fianco. «Il tè scotta!»

«Allora bruciati la lingua, mangiarane» sibilò Arthur. «Oppure impara a stare zitto.»

E così scese il silenzio. Come succedeva ogni volta, i due ritrovarono il loro incastro col passare dei minuti, delle ore: finirono di bere il tè e poggiarono le tazzine sul tavolo; accesero la TV, la spensero, si concentrarono sulla radio, e poi di nuovo sulla TV, finché non trovarono un film che andasse bene ad entrambi – in francese, con i sottotitoli in inglese – e poi restarono a guardarlo, distratti, fino a sera tarda. Allora Francis sollevò appena il capo. Arthur aveva conquistato il divano. Era ora sdraiato sopra i morbidi cuscini, con una ciotola d’uva rossa in mano e le gambe allungate, stese sulle cosce di Francis. Francis, che continuava a sfiorarlo delicatamente, partendo dalla caviglia per poi muoversi lungo il polpaccio, verso la piega del ginocchio, per poi fermarsi lì e ridiscendere, troppo spaventato da sé stesso per potersi muovere più in alto e infrangere, senza farlo apposta, quel piccolo quadretto che aveva aspettato per tutto il mese.

Sospirò senza accorgersene.

Arthur lo sentì e distolse lo sguardo dalla TV. «Che c’è?» chiese. La ruga sulla sua fronte questa volta diceva: l’hai scelto tu il film, almeno fa’ attenzione!

«Nulla» disse Francis. «Stavo solo pensando che il mese prossimo mi tocca venire in Inghilterra.»

Arthur borbottò qualcosa in un inglese così rapido e accentato che Francis non riuscì a seguirlo, ma il tono scocciato della sua voce gli fece da interprete.

  Francis si morse la lingua. L’aveva detto per abitudine, senza pensarlo davvero. Era difficile cancellare secoli di battibecchi – ancor di più quando moriva dalla voglia di dire altro e non poteva farlo. Allora rimediava nella loro tipica routine, mentendo, dicendo: sei una noia quando in realtà pensava: voglio vederti anche domani.

A volte avrebbe fatto meglio a restare in silenzio, si disse. E così fece: lasciò cadere il discorso e tornò a guardare la TV. Si godette il respiro lento di Arthur, il leggero frush dei loro abiti che si strusciavano gli uni contro gli altri mentre Arthur si girava su un fianco e piegava le gambe, ancora in grembo a Francis, per trovare una posizione più comoda. Sembra sulla soglia del sonno; i suoi movimenti si erano fatti pigri, letargici, e persino le sue palpebre cominciavano ad essere più pesanti.

Eppure la sua voce non lo era per niente.

«Francis?» lo chiamò.

«Oui

«Congratulazioni per la vittoria» mormorò a denti stretti.

Francis sorrise. «Anche se non me la merito?»

«Se già lo sai,» disse Arthur, coprendosi il viso con un cuscino,  «allora smettila di sorridere a quel modo.»

 

 

 

Se ne accorse tardi, Francis.

Se ne accorse il giorno dopo, al mattino presto, quando Arthur si alzò dal letto, imprecando contro la sveglia che non aveva suonato. Avrebbe perso l’aereo, diceva; e se fosse arrivato tardi alla riunione, il suo capo l’avrebbe stroncato. Eppure perse tempo per piegarsi verso Francis, passargli una mano tra i morbidi capelli biondi e mormorare un breve: «Ci vediamo il mese prossimo».

Solo allora Francis lo guardò negli occhi.

L’aveva evitato per mesi – forse, inconsapevolmente, per anni. Aveva evitato il suo sguardo per paura di un rifiuto, ma ciò che vi leggeva, ora, era solo un delicato ti aspetto, decorato da sprazzi di un intenso verde prato e lunghe ciglia scure.

«Sono un cretino» disse Francis ad alta voce.

Arthur gli baciò la fronte. «Finalmente te ne sei accorto.» E se ne andò così, silenzioso come una spia, lasciandosi dietro un Francis frastornato e completamente rosso in volto.

Affondò il viso nel cuscino di Arthur e prese un lungo, lento respiro.

Poi si decise.

L’avrebbe richiamato quella sera, si ripromise. L’avrebbe richiamato, mettendo da parte l’orgoglio e l’imbarazzo, e avrebbe trovato un modo per andare a visitarlo il prima possibile.

Dopo aver visto quello sguardo, incontrarlo solo una volta al mese non gli bastava più.

 


La storia è stata scritta per il drabble event di We are out for prompt con il prompt: “Inghilterra non accetta la vittoria francese ai mondiali” (passatomi da BalderMoon), che io ho praticamente stravolto perché sono fatta così. Questa è la mia prima fic per il fandom di Hetalia, ma spero comunque che vi sia piaciuta! 

Per quanto riguarda il titolo, ho fuso insieme l’“Une fois par mois” francese e il “Once a month” inglese perché mi sembrava carino avere un titolo che rappresentasse bene il bilinguismo di questa coppia! Il titolo comunque si traduce con “Una volta al mese”, un po' banalotto, ma secondo me ci sta bene con il ritmo della fic. Sono soddisfatta, dai!

Grazie per aver letto,

Hz

   
 
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