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Autore: MadLucy    17/08/2018    1 recensioni
Ermione, figlia di Elena e Menelao, non partecipa direttamente a nessuna delle leggendarie vicende della guerra di Troia. Ma osserva. È testimone della vita che vivevano le mogli e figlie greche durante i dieci anni e gli anni dei nòstoi, assiste allo svolgersi della saga degli Atridi fino alla sua conclusione. La sua vita dipende sempre dalle azioni degli altri. L'abbandono da parte di sua madre, le strategie politiche della sua patria, il matrimonio con uomini sanguinari. Ma i suoi pensieri erano solo suoi, e mi sono permessa di dare loro voce.
"In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori.
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?"
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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E all'improvviso la reggia non era più deserta. Voci in ogni corridoio, passi sulle scale, animali in cortile. Prima nessuno, ora tutti. Ti sentivi come se avessero invaso una casa soltanto tua, ti sembrava assurdo che ci si comportassero con familiarità. Tuo padre ti presentava a chiunque, con orgoglio, come se avessi compiuto qualcosa di più glorioso di combattere a Troia per dieci anni. Il tuo sguardo era cordiale e vitreo, insincero, un po' come la festa che ci sarebbe stata e che era spacciata per il tuo matrimonio, quando invece era la festa di Sparta intera. Chiedevi a Menelao notizie da Micene, ma non sapeva nulla e non aveva il coraggio di trascinare i suoi soldati in una nuova guerra per scacciare Egisto. Quello era il tanto agognato momento della pace. I legami di sangue, prima così sacri, apparivano meno vincolanti. Agamennone era il fratello di Menelao, ma era morto. E i morti non elargiscono ricompense per chi salva il loro palazzo dagli invasori. 
Neottolemo non si vedeva quasi mai, spariva per l'intera giornata. Soltanto durante i pasti era tenuto a partecipare, e potevi esaminarlo spietatamente. Non avevi intenzione di mostrargli che avevi paura di lui. Non era proprio paura. Era diffidenza, e impressione. Le storie che parlavano della sua impulsività, ben diversa dalla magnifica rabbia di Achille, ti avevano suggerito di considerarlo imprevedibile. 
Lo avresti sposato. Non c'era nessun pensiero che vi si opponesse logicamente, nella tua testa, se non qualche considerazione frammentaria, fulminante, con quelle mani ha ucciso un bambino. La sola idea vi gettava un'ombra di impurità perenne. Le spiavi, di nascosto, durante il primo banchetto che si tenne a Sparta in presenza del re dopo la guerra. Strette allo stelo del calice di vino, rozze, grandi, arrossate. Sul dorso una peluria quasi bianca, come bruciata dal fuoco. Eri sicuramente condizionata. Se suo padre era mezzo dio, lui era del tutto umano. Un figlio della terra. I polsi massicci, le braccia sode, e sulla pelle tesa ad inguainare i muscoli, che pareva spessa come quella di un toro, cicatrici. In controluce, irregolari, di cui non sapevi considerare la gravità. Lui non notò le tue occhiate, o le ignorò così bene da non fartene accorgere. Il suo sguardo era puntato sul cibo, sul pane che spezzava. Mangiava come se fosse ancora il pasto del soldato in accampamento, rapido, senza eccedere. Pochi sorsi di vino, poi acqua, abbondantemente. In contrasto con gli altri volti della tavola era ombroso, annoiato. Nessuno pareva farci caso. Questo ti diede modo di pensare che fosse il suo atteggiamento abituale. Dicevano che non sapesse nemmeno scrivere. Dicevano tante cose. Ma lui, al contrario dei generali intenti a decantare le lodi l'uno dell'altro, non pareva interessato a gloriarsi, nè a mettere in mostra la sua presenza. Tanti parlavano di Neottolemo, lui a malapena li degnava di un'occhiata. Finito di mangiare, senza chiedere il permesso a nessuno, si alzò e si diresse alle stanze che gli erano state riservate. Tu lo seguisti con lo sguardo, sbalordita da quel comportamento, non tanto per l'impertinenza che dimostrava, ma per il fatto che gli fosse concesso con tanta indulgenza. Incontrasti lo sguardo di tuo padre, che ti sorrise, intuendo i tuoi pensieri. 
«Il matrimonio si terrà qui, a Sparta» dichiarò, «tra dieci giorni. Poi partirete.»
«Per dove?» Pensasti a Ftia, la patria di Achille.
«Questo lo dovrai chiedere a lui» rispose Menelao, con un pizzico d'ironia. Poi fece un cenno con il capo. «Ti ci abituerai. Ci siamo abituati tutti. Ma sei in buone mani, figlia mia.»
Il fatto che avesse usato proprio un'espressione che tirasse in mezzo le mani ti fece rabbrividire. Il figlio di Ettore era un bambino dolce, nelle storie degli aedi. La stella negli occhi del suo popolo. Lo amavano come se fosse il figlio di ciascuno di loro, acclamavano i suoi passi esitanti di bambino nella terrazza affacciata su Troia. Dovevi smetterla di ascoltare quelle storie, non ti facevano bene. 
A cosa serve imparare a combattere se si uccidono i bambini?
«Ti ho appena ritrovato, padre, e già ci dobbiamo separare di nuovo» osservasti, con mestizia.
«Il destino di una figlia non è restare al fianco del padre» sospirò Menelao. «Anche se avrei preferito che così fosse, e che non fossero invece le mogli a dover rimanere fino alla fine, come così sarà.»
Elena non si presentò a quella cena, nè a nessun'altra a cui tu prendesti parte a Sparta. A tavola volavano facezie nei suoi confronti, e Menelao sogghignava senza difenderla. 
Volevi seguire docilmente il tuo destino di femmina, avevi un desiderio struggente di obbedire. Di essere diversa da tua madre. Di adempiere a un dovere sgradevole, come quei soldati che avevano già pagato il loro fio di sangue e dolore. Avresti sposato quel pazzo, quello da cui le altre donne si ritraevano inorridite, alla cui stanza le ancelle impallidivano nel recare una brocca d'acqua. 

~ • ~

Il rito di vestizione per il matrimonio era lungo e infarcito di superstizione non priva di bellezza, ma esasperante. Doveva esserci la cassa di bambole per Artemide, le parole del culto di Era, la clamide intinta dell'olio di rosa di Afrodite, il bracciale a forma di serpente di Asclepio. Ti perdevi in questo guazzabuglio di riferimenti, di benedizioni. Stavi soltanto immobile sotto le mani delle donne più mature, cercando di non ascoltare le chiacchiere di cui ti riempivano le orecchie. Una di loro aveva mostrato quasi con orgoglio una fioritura di lividi blu intorno al gomito. Diceva che quello era il matrimonio e presto o tardi avresti dovuto abituarti, perchè le signore non se la cavano meglio delle serve: le mogli sono serve. Nessuno dei tuoi mariti ti ha mai picchiata, e non sai proprio come ti saresti comportata, se lo avessero fatto. Il tuo orgoglio e il tuo buonsenso avrebbero battibeccato. Altre donne parlavano del talamo, di trucchi per provare meno dolore. Tu facevi orecchie da mercante, testarda. Non volevi attenuare il prezzo che dovevi pagare. Avresti subito tutto di quel che c'era per te, senza una protesta. Era il tuo personale eroismo. Forse sciocco, forse egoistico, incapace di apportare vantaggio a chiunque altro oltre a te, senza confronto con un sacrificio per il bene dei più, di un esercito, di un popolo, ma tuo. 
Poi si cambiò discorso. 
«La figlia di Priamo aveva l'età di mia figlia» chiosò una schiava, strattonandoti i capelli per appuntarli in una crocchia dietro la testa con un pettine d'avorio affilato. «Ancora inesperta di ogni fatto della vita.»
Le voci cadevano come una dopo l'altra intorno al tuo silenzio ostinato. 
«Le ha fatto scoprire il petto, bello che era, bianco e nobile, e glie l'ha infranto come fosse creta.»
«La madre guardava, la regina Ecuba, a cui erano già stati uccisi tutti i figli, e tanti che ne aveva, solo cadaveri ne erano rimasti.»
«Aveva accettato di sacrificarsi per il Pelide, e si era inginocchiata sull'altare da sola, senza che nessuno la trattenesse, la sventurata.»
Tu eri sopraffatta dai troppi rimandi, il tuo abbigliamento nuziale, e quelle parole. Non sapevi se Ifigenia si fosse rassegnata o no, se avessero dovuto tenerla ferma sotto il pugnale acuminato del sacerdote, che salmodiava imperterrito al cielo. Non sapevi se avesse pianto. Di Polissena, invece, sapevi anche di meno. Se fosse o no il modello di virtù dei racconti che la celebravano. Eri tentata di affondare il viso tra le mani, ma qualcosa accadde. Una donna entrò nella stanza, visibilmente stonata con l'atmosfera argentea. Intabarrata di nero, vesti brutte, disadorne. Non l'avevi mai vista prima nel palazzo, altrimenti te ne saresti ricordata. Non l'avresti scordata facilmente. Aveva un incarnato scuro, capelli mori e inanellati in una coda costellata di lacci per la sua lunghezza, e il viso di una statua cava, riempita di pece. Prese un loutrophoros e lo trasportò all'esterno, senza pronunciare una parola. Tu voltasti la testa al suo ingresso, e ti accorgesti di non essere stata l'unica. La sua presenza semplicemente risucchiava il fiato nella stanza, come un buco nero. Lei ci passò in mezzo, assente, impermeabile. La donna che ti stava frizionando il collo fremette, rabbrividendo per la sua aura. 
«Quella è Andromaca.»
Aveva tagliato la rotta del principio del tuo matrimonio come un oscuro presagio, come un corvo. 
Il sangue dei buoi si allargò in pozze ampie, si asciugò tetro sulla terra rossa di Sparta, mentre storcevi la bocca di disgusto e pena. La sacerdotessa ti prese in una mano i capelli biondi, allungati dagli anni dell'attesa in cui nessuno poteva rimproverarne la crescita, e li recise con un colpo di coltello. Mentre li guardavi dispersi dalla corrente pensavi che stavi lasciando andare anche tu la tua integrità, e ti stavi prendendo una ferita, una crepa, un cambiamento. Neottolemo uccise un'altra bestia mentre tu attendevi, ferma sotto le tue ghirlande di foglie d'olivo, il tuo velo opaco, attraverso la tessitura del quale vedevi appena il mondo tratteggiato di fronte a te. La sua mano che calava sul garrese pareva provenire da un sogno sanguinario. Immaginasti quella stessa mano scendere su una persona, abbatterla con quella secca violenza, di dovere, di mattatoio. Al banchetto Elena non c'era, avevi smesso di cercarla tra le teste degli ospiti. 
Non avrebbe saputo spiegarti perché ti aveva abbandonata, perché non se n'era mai pentita. Aveva avuto una figlia che non voleva, e che non era pronta ad avere, probabilmente. Pensasti: io sarò una brava madre. Neottolemo, il mantello sporco di sangue di toro, mangiava per conto suo, senza cambiare espressione, mentre nella stessa sala non facevano altro che parlare della guerra che lui aveva vinto. 
«Che cosa dici tu, a chi afferma che la tua gloria dovrebbe essere grande quasi come quella di Achille?» lo interruppe infine Ascalafo, dopo aver tentato invano di attirare la sua attenzione nominandolo. 
«Che mi ritengo offeso,» rispose Neottolemo, graffiante. «Mio padre è morto, io sono vivo. Chi sopravvive non può essere paragonato a chi è caduto.»
Freddo, denigratorio. Pareva che cercasse la critica, il dissenso. I vecchi scuotevano la testa, dicevano gli dei possono colpire in qualsiasi momento, e una spavalda gioventù può finire. Menelao sorrideva. Aveva trascorso anni al suo fianco, per età poteva benissimo essere suo figlio. Quietava le proteste. 
«Questo è un matrimonio... Si parla dei vivi, non dei morti.»
Ti vide per la prima volta a quel banchetto nuziale, troppo agghindata, oberata di ninnoli, pietruzze, pendagli e stoffe ruvide a contatto con la pelle, mentre con gli occhi soppesavi il tuo futuro insieme a un uomo di cui non ti fidavi. Deve aver percepito questa tristezza, questo onere. Ti ha aggiustato una medaglia votiva a penzoloni, che stava per cadere sul pavimento. Ti voltasti confusa. Incontrasti il suo sguardo, chiaro, diretto. Avresti voluto infrangere l'illusione scenica e contagiarlo in una risata per quelle cianfrusaglie propizie, di quei gingilli apotropaici, di quegli dei che non ti spaventavano. Ma non l'hai fatto.
«... ti ringrazio.» 
Era raro che un uomo non di famiglia interagisse direttamente con una ragazza. Ma tu ora eri una donna sposata, in salvo da ogni sospetto di riprovevolezza. Ciò che destava più stupore era che si trattasse di un giovane, anche più giovane di te, a malapena maturo, che non avevi mai visto. Capelli un po' lunghi, castani come le nocciole di Tracia, occhi dolci, quasi femminei. Indossava una tunica bianca, morbida, e sandali.
«Telemaco di Itaca, figlio di Odisseo» si presentò.

Ti era stato riferito che la furbizia di Odisseo era il risultato di sacrifici a dei inferi, che il suo sorriso faceva tremare i troiani dietro le loro mura impenetrabili. L'occhio limpido di Telemaco era acuto, ma non c'era traccia di malizia. In fondo si assomigliavano tutti, i figli del dopoguerra. I cocci, i rimasugli degli eroi. Schiacciati dai loro nomi. Preceduti dalle leggende dei loro genitori. 
Se il figlio di Achille faceva strage di nemici, perchè mai la figlia di Elena non avrebbe dovuto ammaliare, perchè il figlio di Odisseo non avrebbe dovuto sciogliere veleno nelle coppe?
«Tuo padre non è tornato a casa, non è vero?»
Telemaco ti guardò. I capelli a piccole pieghe, color sabbia bagnata, l'altezza superiore a quella delle donne che ti circondavano, l'insicurezza delle tue spalle, come se non sapessero dove mettersi, in contrasto con la fierezza della fronte. Ti guardava come lo guardavi tu, come si fa quando si riconosce qualcosa di sè nel viso di un estraneo. La notte era calma, mossa da un vento come un'onda, lento, salato. 
«Non hai pensato che...»
«Sia morto?» completò Telemaco, senza turbarsi. «È più o meno quello che credono tutti. Io no. Ma non soltanto perchè lo spero.» Scosse la testa. «Mio padre non è il tipo che si lascia ammazzare da un mare dopo essere scampato a una guerra. In base a quello che mi hanno raccontato di lui, è più probabile che sia approdato in un'isola di ninfe attraenti e non abbia nessuna intenzione di tornare al tedio del quotidiano.» Capisti che non stava parlando di una persona, stava parlando di un eroe che non aveva mai visto, e non aveva la certezza di incontrare mai. Lui, sotto il tuo sguardo fisso, costante, prolungato, sorrise, quasi divertito, senza prenderti in giro, alla luce aranciata delle torce disposte a eguale distanza sulle pareti di pietra scura. 
«Spero che tuo padre torni da te» hai detto. Ascoltaste i rumori della notte che provenivano dalle porte aperte, la corrente placida dei grilli, degli zoccoli, delle voci delle guardie, dei giochi dei garzoni più piccoli. Faceva caldo, era piena estate. Il vino nelle coppe era dolciastro, la festa era lontana, ferma in fondo alle pupille ferme, consapevoli, di Telemaco. 
Un giorno di molti anni dopo -eri già sposata al tuo secondo marito, e scortavi per mano tuo figlio di pochi anni- l'avresti incontrato, Odisseo. Un uomo dai ricci neri, bruno come un marinaio, carismatico, che cambiava atteggiamento in base alla persona con cui parlava, abile attore nella farsa sociale dei convenevoli e della diplomazia. Reggeva il capo di ogni discorso, spargeva la sua opinione ovunque come semi in un campo coltivato. Il volto segnato ma il sorriso inscalfibile, impertinente. Soltanto quando mormorasti quelle parole, sfiorandogli il braccio e simulando noncuranza -ho conosciuto tuo figlio, una volta- soltanto allora qualcosa accadde, il suo volto s'illuminò, e tra le cortine di quella finzione ben congegnata vedesti quel centimetro di vulnerabilità che la freccia di Palamede aveva centrato, precisa e letale come quella che trovò il tallone di Achille -quegli occhi disarmati di padre che non avrebbero saputo mentire su quanto amasse Telemaco. 
«È vero, ebbe l'onore di essere ospitato a Sparta durante il suo piccolo viaggio» rammentò Odisseo. «È passato del tempo. Era ancora un ragazzino. Ha preso moglie, ormai.» Raccontò che aveva sposato Policasta, una delle figlie di Nestore, che gli aveva dato due figli. Eri felice che la sua vita non avesse incontrato tempeste, ma qualcosa, meno di un rimpianto, più di un ricordo, continuò a grattare dentro di te come una storia incompleta. 
Il matrimonio non poteva essere essere consumato nella casa dove gli sposi avrebbero vissuto. Tutto il cerimoniale del trasferimento venne evitato. Camera tua fu il luogo prescelto. Neottolemo sedette sul letto su cui avevi dormito da sola per tanti anni, i cuscini tra cui avevi pianto di paura per Elettra. La tua Elettra, di cui non sapevi nulla. Cosa stesse passando, cosa le riservasse il futuro. Le avevi recapitato dei messaggeri, ma non erano tornati indietro a riferire nulla. Forse le impedivano di comunicare con l'esterno. Pensasti a lei in quel momento grottesco, quasi inquietante. Alzavi la testa, vedevi l'uomo vicino a te ed eri tentata di chiedergli: chi sei? Cosa ci fai qui?
«Non ti giudicherò per la madre che hai» concluse lui, in tono definitivo, come se avesse riflettuto per tutto questo tempo solo per queste poche parole. O forse era semplicemente la prima cosa che gli era venuta in mente per rompere il silenzio, un po' diffidente da parte tua, del tutto neutro da parte sua. 
«Dovrei ringraziarti di nuovo?» replicasti, senza rifletterci troppo. Non eri mai stata altera con gli uomini con cui avevi avuto a che fare, e invece adesso ti veniva naturale esserlo. Non avevi timore, per quanto poco potessi sapere di come il tuo atteggiamento sarebbe stato accolto. 
«No» si limitò a ribattere Neottolemo, indifferente. «Ma almeno lo sai.» 
Ricordasti Oreste che ti diceva tu non sei cattiva. Il pensiero ti procurò una smorfia. Era la seconda volta che pensavi al tuo passato, da quando eri entrata in quella camera ariosa, spoglia -la tua, ma in cui il trasloco dei tuoi possedimenti era già iniziato il giorno prima. Il letto grande, vuoto. 
Neottolemo fece tutto ad un tratto, come se si fosse destato da una lunga meditazione. Ti premette a schiena in giù sul letto, con una bruschezza non davvero violenta. Tu lo osservasti dal basso verso l'alto con occhi disincantati, per nulla assorti, solidi, interrogativi ma privi di sfumature, con una curiosità quasi infantile. Neottolemo sganciò cinture, slacciò nastri, finchè ne ebbe abbastanza e strappò con le mani le stoffe sovrapposte, per un'impazienza più dettata dal desiderio di non prolungare in maniera imbarazzante il vostro fronteggiarvi piuttosto che dall'impulso amoroso. Ti toccò un fianco con le mani, come se lo stesse esaminando, una questione tecnica più che privata. La sua pelle era ruvida, priva di nobiltà. Vi guardaste ancora per qualche istante, senza più domande, come mera constatazione. Quando ti prese fu un po' doloroso, ma non lo desti a vedere. Neottolemo fece come avrebbe fatto per pugnalare un nemico, ma probabilmente era solo disavvezzo a dosare la propria forza. Avevi le lacrime, ma battesti le ciglia e le disfacesti. Non avevi immaginato qualcosa di diverso, e quando finì eravate entrambi senza rancore. Neottolemo si girò sulla pancia e si addormentò celere, come chi lo fa sempre a comando, secondo necessità. Tu ci mettesti un po'. Guardasti un po' fuori dalla finestra, quella notte lunga, vellutata, come vino spanto di quella grande festa triviale e modesta. 
La mattina dopo, pioveva a dirotto e Neottolemo non c'era. Avresti avuto modo di non stupirtene più. Seguiva l'addestramento militare della sua infanzia: un istante prima dell'alba, in piedi. Lo fece sotto la pioggia battente, il cielo nero e il vento che la tirava obliqua sulle montagne, addossando gli ulivi al suolo. Tu eri contenta di svegliarti da sola, di mangiare con calma. 
Telemaco partiva insieme agli altri ospiti. Sembrava che ti aspettasse. Tu scendesti, nonostante le proteste delle guardie, sotto il temporale che imperversava, strappandoti il velo che solo ti copriva il capo, fradicio nel giro di pochi attimi. 

«Non voglio nulla da te» assicurò Telemaco, con la sua voce gentile, più alta per farsi sentire da sopra il cavallo. Con i capelli attaccati alla fronte sembrava la naiade dell'Eurota, che esondava poco lontano. 
«É un vero peccato» rispondesti, circondandoti il busto con le braccia. 
«Va bene così» osservò Telemaco. «L'amore può essere anche soltanto questo. Perfetto perché fugace. Io non ti vedrò mai incanutire, tu non avrai il tempo di scoprire i miei difetti. Non finiremo per darci il tedio a vicenda, per prevederci ed esasperarci.» Parlava con tono leggero, come se fosse una bella storia e non altro, e in effetti era questo. 
Lo avresti ricordato così, con quella pioggia che l'aveva catturato, che attaccava la sua figura esile e quasi intermittente sotto il manto del diluvio, il naso che grondava acqua dalla sua linea elegante, il tuo nastro nuziale legato al polso sotto la casacca di cuoio da viaggio. 
Il giorno dopo, il cielo era sereno e sulla carrozza da viaggio c'eri tu, in direzione del porto di Giteo, per salpare verso l'Epiro. Accanto a te, Neottolemo; nella carrozza dietro, anche se non potevi vederla, Andromaca, le sue vesti nere, il suo capo chino. 

~ • ~

«Un'altra volta sta cazzo di barca» imprecò Neottolemo controvento. 
Per te era tutta una novità, per lui «-un'altra volta sta cazzo di barca.» Giustamente. Sputò in mare. Tu trattenesti una risata, facendo finta di niente. 
A bordo c'era un sacerdote di Poseidone, come secondo tradizione. Lo guardava in cagnesco da sopra la barba. In un mondo senocratico, tuo marito di certo non si sapeva integrare. «Non è saggio infastidire gli dei.»
Neottolemo spalancò le braccia, affacciato al parapetto. «Nonna, Teti! Non ti arrabbiare. Sono solo un ragazzino. Le Parche mi puniranno.» Si voltò, sorrise aguzzo ai marinai dal volto aggrottato. «Siete soddisfatti?»
Tu nel frattempo godevi dell'acqua che grazie all'attrito con la fiancata della nave saliva spruzzando fino al tuo viso, inarcandosi e spezzandosi. Ora che sapevi il pericolo che poteva rappresentare, la minaccia che poteva celare dietro la sua maestosa bellezza, la ammiravi con un timore non privo di rispetto. Il mare faceva credere agli uomini di averlo domato, soltanto per poi rovesciarli sotto il peso schiacciante delle sue onde, riempire di sale i loro teschi. C'era qualcosa di femminile nel mare. Ti faceva pensare a Clitemnestra, al suo stagnare per anni e poi impazzire. All'improvviso capivi dove poteva averla tenuta nascosta, quella rabbia, nella parte concava delle ossa. Non volevi capirla, non lei che aveva tradito Elettra, che aveva voltato le spalle agli altri figli dopo averne persa una. Lei aveva sostituito Elettra e Oreste con Alete. Però succedeva, e osservavi quel fenomeno con un misto di turbamento e pietà.
La cosa che preferivi era il tramonto, quando il cielo rovesciava un secchio d'ambra liquida sulla superficie elastica e adamantina del mare. Era una grandezza a cui non eri avvezza, e che ti pareva andasse oltre a te, superasse i limiti della tua possibilità di concepirla. Ti faceva commuovere un po'. Nottolemo lo faceva con discrezione, ma ti analizzava, da lontano. Neanche lui si fidava di te, probabilmente. La cosa, in qualche modo, ti divertiva. Una fanciulla che temesse un grande guerriero, era comprensibile. Ma un guerriero che temesse per l'incolumità della sua selvatica solitudine, quello era quasi divertente. Tu non rubavi mai il suo tempo, te ne stavi per conto tuo. Eri abituata a pensare per ore, da sola, senza bisogno di stimoli esterni. In queste condizioni prive di monotonia, dove a suggerire i moti dell'animo erano i giochi di luce sulle mobili dune dell'acqua e la poesia parca dei marinai che offrivano manciate di chicchi del loro grano ai gabbiani, era ancora più facile del solito. Paragonavi quella corolla di cielo terso spalancata intorno a voi, presente ovunque, al cielo indaco di Micene che all'inizio aveva un sapore di audacia e poi di minaccia. Stavi per approdare ad una pace o ad un nuovo tranello? Soltanto una sacerdotessa di Apollo poteva saperlo, e solo un fedele le avrebbe creduto. 
Quando venne la pioggia fu un disastro. Era impossibile sfuggire dall'umidità, era nelle travi della stiva, nella tessitura delle coperte. Tutta quell'acqua ti dava quasi la nausea. Neottolemo ghignava del tuo malumore. Indicò uno dei pali che sosteneva il tettuccio, con delle scanalature profonde.
«Vedi questo? L'ho fatto con le unghie quando è venuta la tempesta sulle coste di Chio. Il vento era così forte che non ci si poteva udire parlando. La nave si è rivoltata su un fianco, e abbiamo dovuto attraccare per ripararla. Ma per trascinarla fino a riva abbiamo dovuto usare la forza del mero braccio.» Ti mostrò anche le unghie, lunghe e irregolari, come pezzi di selce. Tu annuisti, con la solennità che lui evidentemente si aspettava. 
«È davvero notevole. Al confronto, io mi lamento proprio per nulla.» Se in pubblico era taciturno e sprezzante, quando era solo con te si era rivelato un bel vanaglorioso.
Neottolemo non ti toccò mai per nessuno dei giorni di viaggio. Poco prima che tramontasse il sole si tuffava in mare, ed emergeva solo a notte fonda, quando il mare pareva petrolio, un abisso nero e insondabile, così ostile e respingente. Solo allora si arrampicava sulla fiancata senza appigli e scendeva sottocoperta, stremato, e dormiva fino all'alba. A volte lo scricchiolio del legno ti destava, sbirciavi il suo corpo completamente bagnato, le braccia spalancate, come l'apertura alare di un'aquila, che oltrepassavano il bordo del giaciglio e gocciolavano sul pavimento. Ti era ancora assolutamente indecrittabile. La percezione confusa che avevi però era che faticasse ad abituarsi ad una vita senza guerra, o senza la prospettiva di dover combattere. E che quasi ci soffrisse. 
In quello spazio ridotto, non potevi fare a meno di imbatterti in Andromaca. Lei faceva il possibile affinchè non avvenisse, ma non soltanto con te, con chiunque altro. Sembrava in grado di mimetizzarsi con gli oggetti inanimati. Si sedeva su un mucchio di corde attorcigliate come un serpente, e pareva scordarsi di esistere, di respirare. Solo Neottolemo sapeva qualche parola di luvio, nessun altro aveva anche solo i mezzi per interagire con lei. Non attirava compassione nè solidarietà. Era solo un monolite. Ignorava il suo aguzzino come il suo aguzzino faceva con lei, senza intenzione, come se semplicemente non si vedessero.
Due persone non possono guardarsi dopo una cosa del genere, pensasti. Dagli occhi, come può passare così tanto? Così tanta colpa e così tanto dolore. Un dolore così grande che il corpo si rifiuta di provarlo. 
Chiedere a Neottolemo cosa ci facesse Andromaca lì era ciò che ti premeva di più, ma non chiedevi. Non lo conoscevi ancora. Riuscivi già a intuire che la risposta fosse celata nelle radici più profonde dell'animo di quell'uomo, che lui stesso scandagliava malvolentieri. 
«Non potrebbe ucciderci nel sonno?»
«Non riuscirebbe mai a uccidere me, nè sveglio nè nel sonno.»
Scrutavi le sue pettinature barbare, che come seguendo un riflesso involontario si ricostruiva pezzo per pezzo ogni mattina, anelli di ferro per la sua chioma d'ebano. La tradizione che portava avanti, come uno stemma, come un vessillo, ora che la sua patria era in cenere. Una specie di resistenza di commovente irrilevanza in quella distruzione inesorabile. 
«Ma me sì.»
«Forse te sì.» Non gli desti la soddisfazione di fare ulteriore ironia. 
Mentre tuo marito allenava per ore la sua forza in fatiche inutili ed estenuanti, tu rimanevi statuaria e indolente come una polena a farti tirare la veste da un filo di brezza senza opporti. Le dita esperte dei marinai componevano nodi, la vela venivano alzata e abbassata e alzata ancora, i sacchi di provviste caricati a Sparta risalivano dalla pancia della nave. Era una quotidianità pacifica ma non monotona. Dopo tanta plastica, artificiosa vita di corte, toccare una vita così concreta ti aveva restituito una nuova purezza. Forse era quella la dimensione ideale dell'individuo, staccata dal vespaio politico, dalla brulicante e malevola società, staccata dai continenti inquinati. Neottolemo era nato su un'isola, dopotutto, Sciro, frammento di terra irregolare e scabroso che galleggiava nell'Egeo. Un microcosmo a parte. 
Mangiavi focacce indurite dalla prolugata conservazione, quasi insapori, e cercavi di pensare al futuro anzichè al passato. Alle persone che avevi lasciato indietro e ai loro singoli dolori. A Elettra che non rispondeva alle ambasciate. Egisto e Clitemnestra l'avevano forse data un moglie a qualcuno? Qualcuno di non abbastanza potente per reclamare i di lei diritti, o qualcuno in combutta con l'usurpatore. E del tuo matrimonio, lei sapeva? E Oreste, scomparso? Era stato davvero portato in salvo dalla sorella maggiore, o forse solo ucciso dalla madre colta dalla follia e il cadavere fatto sparire? Era stata la tua famiglia e di loro non sapevi più nulla. Gli anni insieme erano stati difficili, gravati dal peso della guerra, ma la vostra unione ti dava un conforto che essere sulla nave di uno sconosciuto verso una terra ignota non poteva procurare certo. Ed Elena? Nella piattezza del suo ritorno a casa, bersagliata dal disprezzo della corte e del marito, cominciava ad avvertire un rimorso? La remunerazione di guerra che Menelao aveva cominciato ad offrire alle sue terre, la fila dei contadini con ottant'anni e nessun figlio, suscitava qualche impressione in lei? Non lo speravi più. Sarebbe morta ignorando le proprie azioni e piangendo la fine della propria storia, la caduta del suo mito romantico. Come se una figlia non l'avesse mai partorita.
La tua fascinazione per il mare ebbe fine quando un insetto punse un marinaio e gli trasmise una febbre contagiosa, per debellare la quale Neottolemo legò l'uomo e lo scagliò fuori prua. Tutti i presenti rimasero a fissare il punto dove l'acqua si era richiusa sopra di lui definitivamente, accogliendolo come le fauci di una rana pescatrice.
Non eri abituata alla morte -quando Clitemnestra aveva compiuto la sua strage, tu eri già lontana da Micene- e anche qualcosa di così poco cruento ti lasciò interdetta.
«Cosa si prova a causare la morte?» chiedesti. Non osavi più affacciarti al parapetto. Avevi come l'impressione che l'urlo di protesta di quell'uomo fosse ancora udibile.
Ma Neottolemo non aveva paura dei morti. Fissava l'acqua solo perchè anche gli altri lo facevano. 
«Non saprei di preciso, ma mi scappa da pisciare» ribattè, tetro. 
  
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