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Autore: _Lightning_    02/09/2018    5 recensioni
Ha sempre odiato i telefoni, in particolare i cellulari.
Quei giorni sono già abbastanza brutti senza doversi confrontare anche con quel suo astio, che non è così ingiustificato come le tante altre fisime che lo contraddistinguono, come quella di farsi dare in mano le cose e di rimanere senza occhiali da sole in pubblico. No, ha tutti i migliori motivi per detestare quegli apparecchi ingannevolmente innocui.

[post-Infinity War //Introspettivo // Angst // Civil War-fix it // PoV Tony]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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Serie: Schegge


Interferenze




Your circuit's dead, there's something wrong
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?

Can you hear me Major Tom?
Can you–

Here am I floating 'round my tin can
Far above the moon
Planet Earth is blue
And there's nothing I can do

[Space Oddity – David Bowie]





Ha sempre odiato i telefoni, in particolare i cellulari.
Quei giorni sono già abbastanza brutti senza doversi confrontare anche con quel suo astio, che non è così ingiustificato come le tante altre fisime che lo contraddistinguono, tra cui quella di farsi dare in mano le cose e di rimanere senza occhiali da sole in pubblico. No, ha tutti i migliori motivi per detestare quegli apparecchi ingannevolmente innocui – motivi che gli rievocano lo squillo del telefono in una lontana notte di dicembre, una bomba col suo nome sopra che gli esplode in faccia mentre si affanna su un tastierino, chiamate senza risposta a un passo da portali alieni e quel cellulare a conchiglia che gli è pesato in tasca come un macigno per mesi.
Quei giorni sono già abbastanza brutti, e lui si è trovato ad avere a che fare con quegli aggeggi infernali sin dal momento in cui ha rimesso piede sulla Terra, non appena l'armatura ha ripristinato il collegamento con Friday e una cacofonia di trilli, vibrazioni e notifiche gli ha quasi fatto saltare i timpani. L'ha disattivata senza esitazioni, rendendosi reperibile solo per Pepper, Happy e May, e poi fisicamente irreperibile per tutti gli altri.

Si è costretto a uscire dal suo isolamento volontario per presenziare alle esequie per la Battaglia di Wakanda, solo per ritrovarsi a voler fuggire di lì non appena Okoye inizia a declamare la lista dei caduti. Pensava di riuscire a resistere per qualche ora in quel completo nero e asfissiante: ha passato mezza vita a sfoggiare sorrisi falsi in pubblico e in quel caso non ha neanche bisogno di sforzarsi per approntare un'espressione costernata, ma dentro di lui si agita qualcosa di sempre più opprimente ad ogni nome ignoto che riecheggia nella piazza gremita. Gli sembra che dalla ferita si irradino delle fratture brucianti che spaccano il suo corpo e la sua mente in settori contrastanti e inconciliabili: il desiderio di sapere chi è perduto, il terrore di udire un nome conosciuto, il fatto che ognuno di essi incida comunque una tacca indelebile nella sua coscienza, la consapevolezza che quella lista è incompleta, perché non ha ancora detto a nessuno cosa è successo su Titano e anche l'aliena blu ha taciuto.
Pensava di riuscire a resistere, almeno per qualche ora. Invece sente un peso lambirgli le spalle indolenzite e le incurva di riflesso, assecondando quella sensazione malsana che non lo abbandona da due giorni e che lo getta costantemente sull'orlo del panico. 
Solo che adesso scivola oltre il bordo.

È di nuovo su Titano. Ne respira l'aria rovente e caustica, sente i piedi che affondano nella sabbia rossastra, avverte il sentore di zolfo e polvere. La ferita torna ad essere un incendio che divampa al centro del suo corpo; percepisce la sua stessa lama che gli strazia le carni. Si costringe a tornare presente a se stesso – come ha imparato dopo New York: respiri profondi, contare a rovescio, pensare a... non pensare – guida per mano la sua mente spaurita verso il proprio corpo, incalzato dal pensiero di poter collassare in quell'istante, di fronte a tutti. Il riverbero rosso cede il passo ai tetri stendardi funebri e alle mura dei palazzi slanciati verso il cielo limpido.
È nella piazza, in Wakanda, sul solido mattonato, l'unico odore è quello dei ceri. La ferita torna ad essere un sordo pulsare. 
E gli altoparlanti stanno ora gracchiando nomi conosciuti:

«Virginia Potts... Peter Parker... Harold Hogan... James Rhodes... Howard Stark... Maria Carbonell...»

Stringe i pugni e affonda con forza le unghie nei palmi, riprendendo di nuovo contatto con la realtà e chiedendosi se il rombo che sente sia davvero solo nelle sue orecchie e se il suo cuore stia pulsando davvero così forte da scuotere l'intera piazza. Mantiene la presa sulla scintilla morente del suo autocontrollo, reprime la violenta urgenza di piegarsi in un conato e si volta di scatto, ringraziando di essersi mantenuto tra le ultime file. Si piazza in testa due paraocchi immaginari per escludere gli sguardi perplessi che gli piovono addosso, focalizzandosi unicamente sui punti in cui la folla sembra meno folta e sul mantenere stabile il proprio respiro sempre più costretto e superficiale.

Da dietro le sue abituali lenti impenetrabili, coglie di sfuggita Rogers che guarda nella sua direzione. Sente una stoccata colpirlo all'altezza dello sterno e la nausea aumenta, pericolosamente sul punto di traboccare. Ringrazia di avere gli occhi schermati e svicola fuori portata fingendo di non averlo visto. Ha comunque preso nota del suo aspetto sciatto, del suo misto di incredulità e rimprovero nel vederlo sgattaiolare via e dell'assenza di Barnes al suo fianco. Evita di elaborare il gorgoglio di emozioni contrastanti suscitato da quell'ultimo dettaglio, solo parzialmente arginato dal suo cervello, e si convince di non averlo semplicemente scorto tra la calca.
Guadagna a passo svelto i margini della piazza e imbocca alla cieca una strada secondaria. 
Si costringe a portarsi fuori vista prima di permettere alle proprie ginocchia di cedere e di soccombere alla nausea che gli squassa lo stomaco.


***


È tornato al palazzo di T'Challa, rifugiandosi sulla terrazza della sala comune.
Sta tamburellando da almeno cinque minuti sulla piastra d'alloggio per nanoparticelle sotto la sua camicia, in un surrogato del gesto calmante che a volte ancora compie nonostante abbia rimosso il reattore da anni. Funziona, o almeno se ne convince. Smette solo quando si rende conto che la tensione nel suo petto non si allenterà più di così e lascia spaziare lo sguardo ancora protetto dagli occhiali.

Le strade circostanti il palazzo sono deserte, ma in lontananza scorge avanzare una delle innumerevoli processioni funebri in onore del re caduto e dei suoi guerrieri. Davanti a lui si stende l'irreale distesa esotica della savana, segnata dalla battaglia. Sa che tra i ciuffi d'erba riarsa dal sole si celano centinaia di mucchietti di cenere. Al limitare della giungla torreggiano le gigantesche astronavi semidistrutte, simili a monoliti infausti.
Dalla città, portati dal vento caldo e secco, gli arrivano ancora le note gravi dei canti funebri wakandiani, inframezzate da alti trilli gutturali e grida melodiche. Un'eco lugubre di tamburi si diffonde fin lì, scemando ai margini della savana solo per tornare a rimbalzare con nuovo vigore tra le valli e montagne circostanti, nell'unisono di un coro dolente. 
L'intero Wakanda è in lutto. Persino gli edifici in vibranio della capitale, prima rivestiti di colori caldi e placche dorate, sono ora di un nero cangiante come il manto del loro animale simbolo.

Si poggia mollemente alla balaustra, sentendosi provato in ogni modo possibile e a un passo da un esaurimento nervoso. Dovrebbe dormire, ma la sola idea di cosa lo aspetta oltre il sonno che preme dietro le sue orbite è abbastanza terrificante da dissuaderlo. 
L'alternativa al sonno non è molto più allettante. Tasta il vecchio cellulare a conchiglia nella tasca interna della giacca ed esita. Vorrebbe scaraventarlo via, a perdersi nella distesa stepposa cosparsa di ceneri. Bruce gliel'ha cacciato in mano appena l'ha visto scendere dall'astronave, dopo averlo stretto in un abbraccio convulso. Ha accompagnato il gesto con un'occhiata significativa. Probabilmente ha avuto modo di aggiornarsi su ciò che è accaduto durante la sua vacanza fuori pianeta. Probabilmente pensa anche che sia colpa sua, ma in questo momento non gli importa. Quella di due anni fa sembra una scaramuccia priva di rilevanza, adesso – nonostante l'amarezza che continua a bruciargli le viscere al pensiero.
Estrae il cellulare, coi cardini allentati che fanno oscillare a vuoto lo schermo superiore. Sul piccolo quadrante esterno, oltre un reticolo di crepe, riesce a distinguere data e ora, a confermare che funziona ancora.
L'irrazionale idea di usarlo adesso gli attraversa la mente.

Sarebbe un tipico gesto da Tony Stark: un plateale sfoggio di impertinenza per sbandierare ai quattro venti di essere in grado di ridere anche in faccia alla fine del mondo. Non sarebbe la prima volta: ha punzecchiato Loki, ha deriso Ultron, si è gettato a testa bassa verso ciò che poteva distruggere lui e tutto ciò che amava, e l'ha fatto con una battuta sagace sulle labbra e un sogghigno beffardo stampato in volto – la maschera perfetta.
Adesso non riesce neanche a forzare un sorriso e le sue parole si riducono a monosillabi spenti. Ha schivato come poteva ogni contatto fisico, visivo e verbale con chi è rimasto – non sa ancora di preciso chi – e si è rintanato nella sua stanza per due giorni rifiutando ogni cura medica. Il dolore è sopportabile, la ferita curata alla buona lo deturperà probabilmente a vita e a lui sta bene così.

Per due giorni non ha fatto altro che stare con l'orecchio incollato al cellulare, a sentire mille e mille volte la stessa voce robotica che gli comunica l'irreperibilità di Pepper. Potrebbe chiedere a Friday, ma non lo fa. Si rifugia in quel "forse" che custodisce l'ultima speranza che gli è rimasta, e si rifiuta di soffocarla.
L'ha chiamata quarantadue volte e una parte di lui è grata che il suo telefono non sia raggiungibile. Sentirlo squillare a vuoto all'infinito – quindici squilli a chiamata, seicentotrenta tu-tu persi nell'etere a rimbombare nei suoi timpani assieme a quel "mi dispiace" in loop e allo schiocco assordante – sarebbe molto peggio.

May l'ha chiamato prima che potesse farlo lui. Aveva visto le sue decine di chiamate perse, ma non è riuscito a costringersi a premere quel tastino verde.
La donna aveva già capito, ma gli ha chiesto tutto. Tutto. E lui ha risposto, a tutto, perché lei ha il diritto di sapere e di incolparlo e ritenerlo responsabile e urlargli contro per la morte del suo ragazzo. Ha il diritto di chiedergli cosa abbia detto prima di sparire e lui ha il dovere di rispondere, di sussurrare "mi dispiace" volendo semplicemente riportare le sue parole e di trovarsi invece a pronunciarle ancora e ancora – mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace – in un mantra infinito, con la voce sul punto di sgretolarsi nel sentire i singhiozzi di May dall'altro capo. I suoi sono ancora imprigionati nel suo petto. Sarebbero un sollievo immeritato, così si limita ad annegarli dentro di sé, a riempirgli i polmoni.

Vorrebbe credere che non sia colpa sua, stavolta vorrebbe crederlo davvero e imputare tutto al caso, ma finisce sempre per attribuirsi un ruolo estremamente attivo nei propri errori.
Fa pressione sul ventre, sullo squarcio che lo trapassa, e si assicura che faccia male. Fa male, tanto che un lampo gli esplode in testa, ma non quanto il senso di voragine che lo spacca in due quando porta quella stessa mano alla spalla. Quella spalla dove si è aggrappato in cerca d'aiuto, senza trovarlo. Le sue dita incontrano solo la stoffa della giacca e vi si artigliano in cerca di un calore ormai svanito.

Si illude di sentirlo parlare a raffica, raccontandogli tutto ciò che gli passa per la testa come se fosse di fondamentale importanza – e lo è, lo era, tutto ciò che gli diceva era importante, dai test di fisica alle missioni notturne, dai churros alla ragazza per cui aveva una cotta, dal modello Lego del Millennium Falcon completato con Ned a quanto fosse bello essere Spider-Man e attraversare New York a rotta di collo saltando da un palazzo all'altro.

Si illude di essere avvolto tra le braccia esili e salde che l'hanno sorretto per vent'anni, di sentire una risata argentina sfiorargli il collo e delle dita delicate che gli accarezzano l'ennesima ferita, redarguendolo per la sua temerarietà. La vede per un istante, radiosa nel vestito bianco che ha scelto e che gli piace da impazzire – anche se lui non dovrebbe saperlo, ma ormai si è rovinato la sorpresa e quando lei lo scoprirà sarà furibonda. Non gli importa, perché adesso anche solo poter evocare quell'immagine nitida è un privilegio prezioso.

Quegli evanescenti frutti del proprio inconscio sembrano incunearsi nella realtà, vividi e tangibili. Sono piccole scariche statiche che interferiscono in un segnale costante e monotono, come una linea piatta rianimata dagli sporadici sussulti di un cuore agonizzante.
Si guarda intorno, sentendosi isolato in una bolla sospesa e falsamente rassicurante.
Non vuole contatti, non vuole parlare, non vuole rivangare il passato, stavolta non vuole neanche rifugiarsi nell'armatura, perché ormai sa che il suo è un abbraccio fasullo, incapace di sostituire quello delle uniche due persone che vedono in lui qualcosa che lui stesso non si capacita di possedere.

Perché Pepper non vede mai Iron Man quando lo guarda o lo stringe a sé nonostante gli errori e le corazze che si costruisce ogni volta, e grazie a lei non ha più bisogno di una lampadina blu per ricordarsi di avere un cuore; perché Peter lo guarda e vede Iron Man anche quando non indossa l'armatura ed è riuscito a risvegliare una parte di sé che credeva di aver seppellito coi suoi genitori, e grazie a lui può pensare di aver fatto almeno qualcosa di giusto in vita sua, per meritarsi quell'ammirazione sconfinata da qualcuno di così intrinsecamente buono.
Non vuole perdere tutto ciò e risvegliarsi solo, come vent'anni prima, nel vuoto creato da lui stesso. Vorrebbe gridare al solo pensiero, ma serra la bocca e sbianca le nocche. Sente le corde vocali stridere dolorosamente, la pressione che aumenta contro la gola, ma tutto ciò che emette è una via di mezzo tra un singulto trattenuto e un debole colpo di tosse.

È solo, ma le interferenze in quel segnale inequivocabile gli ricordano che potrebbe non esserlo e lo colmano della stessa rabbia cieca che l'ha invaso su Titano; del puro, semplice desiderio di poter fare qualcosa.
E starsene chiuso nella propria stanza senza neanche la grazia di riuscire a piangere, a rivivere all'infinito gli stessi momenti, a pregare in una risposta senza davvero cercarla, non è fare qualcosa. È tornare indietro a quella notte di dicembre e rimanere in ginocchio; è tornare in quella grotta e rifiutarsi di uscirne. È lasciarsi morire. È spegnersi nel silenzio, accartocciato all'angolo di una stanza. 
Non è la fine che ci si aspetterebbe da Tony Stark.

Sente i propri neuroni fremere, come riscossi da quell'onda sottile e vibrante.
Ha costruito un reattore con un mucchio di rottami. Ha creato Iron Man. Ha sintetizzato un nuovo elemento nel proprio salotto. Ha salvato New York, ha riformulato Extremis da sbronzo, ha curato Pepper e ha rimediato a Ultron e supportato Peter e riparato lo scudo di Steve e aggiustato se stesso – e quella è forse la cosa più inconcepibile di tutte.
Può avvertire distintamente le sue sinapsi iniziare a collegarsi, riempiendo in minima parte il vuoto, accendendo qualche flebile scintilla nel grigio dei suoi pensieri. Ha bisogno di un piano, deve porre rimedio a tutto come ha sempre fatto, e deve farlo al meglio perché perdere Pepper e Peter è come perdere le parti migliori e più luminose di se stesso. Abbassa lo sguardo sul telefono che stringe in mano e sa – lo sa da due giorni o forse da due anni – che il primo tassello del suo piano deve essere quello.

"La prego, signor Stark..."
"Non importa con chi parli o non parli."
"Siamo a fine partita."
"Io ci sarò."

Apre il telefono e fissa il display in frantumi e parzialmente illeggibile, ma prima di poter fare altro lo vede oscurarsi del tutto. Preme ripetutamente il tasto centrale, ma ciò non sortisce alcun effetto. 
Sospira, rassegnato per quell'ennesimo tradimento della tecnologia.
Affonda le mani nelle tasche dei pantaloni e rientra zoppicando nella sala comune, per poi lasciarsi cadere seduto all'ampio tavolo di vetro. Allenta la cravatta soffocante e si toglie gli occhiali stropicciandosi le palpebre pesanti. Rigira brevemente il cellulare tra le mani, osservandolo con occhio clinico: è il Meccanico, potrebbe ripararlo senza problemi.

Invece lo ripone in tasca e incrocia le mani davanti a sé, in quieta attesa.
In fin dei conti, odia i telefoni. In particolare i cellulari.


This is Major Tom to Ground Control
I'm stepping through the door




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Note Dell'Autrice:

Salve!

Sull'onda dell'ispirazione post-Infinity War, torno alla carica con un ibrido tra un missing moment e una what if? Questa storia precede Speaking Terms, praticamente l'altra faccia della medaglia sulla situazione post-schiocco dal PoV Steve.

La genesi della storia è stata spontanea e imprevista, da attribuire principalmente alla citata Space Oddity di David Bowie, dal cui testo ho tratto molta ispirazione, dal leitmotiv delle interferenze (derivato da Rumore di fondo) e all'aver sempre notato molta poca affinità tra Tony e i telefoni nel corso del MCU, porello.

Le ultime citazioni sono rispettivamente di Peter (e fin qui...), Banner, Strange e Rogers.
L'espressione "accartocciato all'angolo di una stanza" è ripresa dalla poesia di Charles Bukowski Che te ne fai d'un titolo?
La punteggiatura è volutamente serrata o assente in determinati passaggi per cadenzare i flussi di coscienza.

Spero che questa dose di angst settembrino sia gradita e ringrazio chiunque leggerà e/o commenterà :)

-Light-

 




 
 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.

©_Lightning_

©Marvel
   
 
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