Interferenze
Your
circuit's dead, there's something wrong
Can
you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major
Tom?
Can
you hear me Major Tom?
Can
you–
Here
am I floating 'round my tin can
Far above the moon
Planet Earth
is blue
And there's nothing I can do
[Space Oddity – David Bowie]
Ha
sempre odiato i telefoni, in particolare i cellulari.
Quei
giorni sono già abbastanza brutti senza doversi confrontare anche
con quel
suo astio, che non è così ingiustificato come le
tante altre fisime
che lo contraddistinguono, tra cui quella di farsi dare in mano le cose
e di rimanere senza occhiali da sole in pubblico. No,
ha tutti i migliori motivi per detestare quegli apparecchi
ingannevolmente innocui – motivi che gli rievocano lo squillo
del
telefono in una lontana notte di dicembre, una bomba col suo nome
sopra che gli esplode in faccia mentre si affanna su un tastierino,
chiamate senza risposta a un passo da portali alieni e quel cellulare
a conchiglia che gli è pesato in tasca come un macigno per
mesi.
Quei
giorni sono già abbastanza brutti, e lui
si è trovato ad
avere a che fare con quegli aggeggi infernali sin dal momento in cui
ha rimesso piede sulla Terra, non appena l'armatura ha ripristinato
il collegamento con Friday e una cacofonia di trilli, vibrazioni e
notifiche gli ha quasi fatto saltare i timpani. L'ha disattivata
senza esitazioni, rendendosi reperibile solo per Pepper, Happy e May,
e poi fisicamente irreperibile per tutti gli altri.
Si è
costretto a uscire dal suo isolamento volontario per presenziare alle
esequie per la Battaglia di Wakanda, solo per ritrovarsi a voler
fuggire di lì non appena Okoye inizia a declamare la lista
dei
caduti. Pensava di riuscire a resistere per qualche ora in quel
completo nero e asfissiante: ha passato mezza vita a sfoggiare
sorrisi falsi in pubblico e in quel caso non ha neanche bisogno di
sforzarsi per approntare un'espressione costernata, ma dentro di lui si
agita
qualcosa di sempre più opprimente ad ogni nome ignoto che
riecheggia
nella piazza gremita. Gli sembra che dalla ferita si irradino delle
fratture brucianti che spaccano il suo corpo e la sua mente in
settori contrastanti e inconciliabili: il desiderio di sapere chi
è
perduto, il terrore di udire un nome conosciuto, il fatto che ognuno
di essi incida comunque una tacca indelebile nella sua coscienza, la
consapevolezza che quella lista è incompleta,
perché non ha
ancora detto a nessuno cosa è successo su Titano e anche
l'aliena
blu ha taciuto.
Pensava di riuscire
a resistere, almeno per qualche ora. Invece sente
un peso lambirgli le spalle indolenzite e le incurva di riflesso,
assecondando quella sensazione malsana che non lo abbandona da due
giorni e
che lo getta costantemente sull'orlo del panico.
Solo che
adesso
scivola oltre il bordo.
È
di nuovo su Titano. Ne respira l'aria rovente e caustica, sente i
piedi che affondano nella sabbia rossastra, avverte il sentore di zolfo
e polvere. La ferita torna ad essere
un incendio che divampa al centro del suo corpo; percepisce la sua
stessa lama che gli strazia le carni. Si costringe a tornare presente a
se stesso – come ha imparato dopo New York: respiri profondi,
contare a rovescio, pensare a... non
pensare – guida per mano la sua mente spaurita verso il
proprio corpo, incalzato dal pensiero di poter collassare in
quell'istante, di fronte a tutti. Il riverbero rosso cede il passo ai
tetri stendardi funebri e alle mura dei palazzi slanciati verso il
cielo limpido.
È nella piazza, in Wakanda, sul solido mattonato, l'unico
odore è quello dei ceri. La ferita torna ad essere un sordo
pulsare.
E
gli altoparlanti stanno ora gracchiando nomi conosciuti:
«Virginia Potts... Peter Parker... Harold Hogan... James Rhodes... Howard Stark... Maria Carbonell...»
Stringe
i pugni e affonda con forza le unghie nei palmi, riprendendo di nuovo
contatto
con la realtà e chiedendosi se il rombo che sente sia
davvero solo
nelle sue orecchie e se il suo cuore stia pulsando davvero
così
forte da scuotere l'intera piazza. Mantiene la presa sulla scintilla
morente del suo autocontrollo, reprime la violenta urgenza di
piegarsi in un conato e si volta di scatto, ringraziando di essersi mantenuto tra le ultime file. Si piazza in testa due paraocchi immaginari per escludere gli
sguardi perplessi che gli piovono addosso, focalizzandosi unicamente
sui punti in cui la folla sembra meno folta e sul mantenere stabile
il proprio respiro sempre più costretto e superficiale.
Da
dietro le sue abituali lenti impenetrabili, coglie di sfuggita Rogers
che guarda nella sua direzione. Sente una stoccata colpirlo
all'altezza dello sterno e la nausea aumenta, pericolosamente sul
punto di traboccare. Ringrazia di avere gli occhi schermati e svicola
fuori portata fingendo di non averlo visto. Ha comunque preso nota
del suo aspetto sciatto, del suo misto di incredulità e
rimprovero
nel vederlo sgattaiolare via e dell'assenza di Barnes al suo fianco.
Evita di elaborare il gorgoglio di emozioni contrastanti suscitato da
quell'ultimo dettaglio, solo parzialmente arginato dal suo cervello,
e si convince di non averlo semplicemente scorto tra la calca.
Guadagna
a passo svelto i margini della piazza e imbocca alla cieca una strada
secondaria.
Si costringe a portarsi fuori vista prima di permettere
alle proprie ginocchia di cedere e di soccombere alla nausea che gli
squassa lo stomaco.
***
È
tornato al palazzo di T'Challa, rifugiandosi sulla terrazza della
sala comune.
Sta
tamburellando da almeno cinque minuti sulla piastra d'alloggio per
nanoparticelle sotto la sua camicia, in un surrogato del gesto
calmante che a volte ancora compie nonostante abbia rimosso il
reattore da anni. Funziona, o almeno se ne convince. Smette solo
quando si rende conto che la tensione nel suo petto non si
allenterà
più di così e lascia spaziare lo sguardo ancora
protetto dagli
occhiali.
Le
strade circostanti il palazzo sono deserte, ma in lontananza scorge
avanzare una delle innumerevoli processioni funebri in onore del re
caduto e dei suoi guerrieri. Davanti a lui si stende l'irreale
distesa esotica della savana, segnata dalla battaglia. Sa che tra i ciuffi d'erba riarsa dal
sole si celano centinaia di mucchietti di cenere. Al limitare della
giungla torreggiano le gigantesche astronavi semidistrutte, simili a
monoliti infausti.
Dalla
città, portati dal vento caldo e secco, gli arrivano ancora
le note
gravi dei canti funebri wakandiani, inframezzate da alti trilli
gutturali e grida melodiche. Un'eco lugubre di tamburi si diffonde
fin lì, scemando ai margini della savana solo per tornare a
rimbalzare con nuovo vigore tra le valli e montagne circostanti,
nell'unisono di un coro dolente.
L'intero Wakanda è in lutto.
Persino gli edifici in vibranio della capitale, prima rivestiti di
colori caldi e placche dorate, sono ora di un nero cangiante come il
manto del loro animale simbolo.
Si
poggia mollemente alla balaustra, sentendosi provato in ogni modo
possibile e a un passo da un esaurimento nervoso. Dovrebbe dormire,
ma la sola idea di cosa lo aspetta oltre il sonno che preme dietro le
sue
orbite è abbastanza terrificante da dissuaderlo.
L'alternativa
al sonno non è molto più allettante. Tasta il
vecchio
cellulare a conchiglia nella tasca interna della giacca ed esita.
Vorrebbe scaraventarlo via, a perdersi nella distesa stepposa
cosparsa di ceneri. Bruce gliel'ha cacciato in mano appena l'ha visto
scendere dall'astronave, dopo averlo stretto in un abbraccio convulso.
Ha accompagnato il gesto con un'occhiata significativa.
Probabilmente ha avuto modo di aggiornarsi su ciò che
è accaduto
durante la sua vacanza fuori pianeta. Probabilmente pensa anche che sia
colpa sua, ma in
questo momento non gli importa. Quella di due anni fa sembra una
scaramuccia priva di rilevanza, adesso – nonostante l'amarezza che continua a bruciargli le viscere al pensiero.
Estrae
il cellulare, coi cardini allentati che fanno oscillare a
vuoto lo schermo superiore. Sul piccolo quadrante esterno, oltre un
reticolo di crepe, riesce a distinguere data e ora, a confermare che
funziona ancora.
L'irrazionale
idea di usarlo adesso gli attraversa la mente.
Sarebbe
un tipico gesto da Tony Stark: un plateale sfoggio di impertinenza
per sbandierare ai quattro venti di essere in grado di ridere anche in faccia
alla fine del mondo. Non sarebbe la prima volta: ha punzecchiato
Loki, ha deriso Ultron, si è gettato a testa bassa verso
ciò che
poteva distruggere lui e tutto ciò che amava, e l'ha fatto
con una
battuta sagace sulle labbra e un sogghigno beffardo stampato in volto
– la maschera perfetta.
Adesso
non riesce neanche a forzare un sorriso e le sue parole si riducono a
monosillabi spenti. Ha schivato come poteva ogni contatto fisico,
visivo e
verbale con chi è rimasto – non sa ancora di
preciso chi – e si
è rintanato nella sua stanza per due giorni rifiutando ogni
cura
medica. Il dolore è sopportabile, la ferita curata alla
buona lo
deturperà probabilmente a vita e a lui sta bene
così.
Per
due giorni non ha fatto altro che stare con l'orecchio incollato al
cellulare, a sentire mille e mille volte la stessa voce robotica che
gli comunica l'irreperibilità di Pepper. Potrebbe chiedere a
Friday,
ma non lo fa. Si rifugia in quel "forse" che custodisce
l'ultima speranza che gli è rimasta, e si rifiuta di
soffocarla.
L'ha
chiamata quarantadue volte e una parte di lui è grata che il
suo
telefono non sia raggiungibile. Sentirlo squillare a vuoto
all'infinito – quindici squilli a chiamata, seicentotrenta tu-tu
persi nell'etere a rimbombare nei suoi timpani assieme a quel "mi
dispiace" in loop e allo schiocco assordante – sarebbe molto
peggio.
May l'ha chiamato
prima che potesse farlo lui. Aveva visto
le sue decine di chiamate perse, ma non è riuscito a
costringersi a
premere quel tastino verde.
La
donna aveva già capito, ma gli ha chiesto tutto. Tutto. E
lui ha
risposto, a tutto, perché lei ha il diritto di sapere e di
incolparlo e ritenerlo responsabile e urlargli contro per la morte
del suo ragazzo. Ha il diritto di chiedergli cosa abbia detto prima
di sparire e lui ha il dovere di rispondere, di sussurrare "mi
dispiace" volendo semplicemente riportare le sue parole e di
trovarsi invece a pronunciarle ancora e ancora – mi dispiace,
mi
dispiace, mi dispiace – in un mantra
infinito, con la voce
sul punto di sgretolarsi nel sentire i singhiozzi di May dall'altro
capo. I suoi sono ancora imprigionati nel suo petto. Sarebbero un
sollievo immeritato, così si limita ad annegarli dentro di
sé, a riempirgli i polmoni.
Vorrebbe
credere che non sia colpa sua, stavolta vorrebbe crederlo davvero e
imputare tutto al caso, ma finisce sempre per attribuirsi un ruolo
estremamente attivo nei propri errori.
Fa
pressione sul ventre, sullo squarcio che lo trapassa, e si assicura
che faccia male. Fa male, tanto che un lampo gli
esplode in
testa, ma non quanto il senso di voragine che lo spacca in due quando
porta quella stessa mano alla spalla. Quella spalla dove si
è
aggrappato in cerca d'aiuto, senza trovarlo. Le sue dita incontrano
solo la stoffa della giacca e vi si artigliano in cerca di un
calore ormai svanito.
Si
illude di sentirlo parlare a raffica, raccontandogli tutto
ciò che
gli passa per la testa come se fosse di fondamentale importanza
– e
lo è, lo era, tutto ciò che
gli diceva era importante, dai
test di fisica alle missioni notturne, dai churros alla ragazza per
cui aveva una cotta, dal modello Lego del Millennium Falcon
completato con Ned a quanto fosse bello essere Spider-Man e attraversare New
York a rotta di collo saltando da un palazzo all'altro.
Si
illude di essere avvolto tra le braccia esili e salde che l'hanno
sorretto per vent'anni, di sentire una risata argentina sfiorargli il
collo e delle dita delicate che gli accarezzano l'ennesima ferita,
redarguendolo per la sua temerarietà. La vede per un
istante, radiosa
nel vestito bianco che ha scelto e che gli piace da impazzire
–
anche se lui non dovrebbe saperlo, ma ormai si è rovinato la
sorpresa e quando lei lo scoprirà sarà furibonda.
Non gli importa,
perché adesso anche solo poter evocare quell'immagine nitida
è
un privilegio prezioso.
Quegli evanescenti
frutti del proprio inconscio sembrano incunearsi nella
realtà,
vividi e tangibili. Sono piccole scariche statiche che interferiscono
in un segnale costante e monotono, come una linea piatta rianimata
dagli sporadici sussulti di un cuore agonizzante.
Si
guarda intorno, sentendosi isolato in una bolla sospesa e falsamente
rassicurante.
Non
vuole contatti, non vuole parlare, non vuole rivangare il passato,
stavolta non vuole neanche rifugiarsi nell'armatura, perché
ormai sa
che il suo è un abbraccio fasullo, incapace di sostituire
quello
delle uniche due persone che vedono in lui qualcosa che lui stesso
non si capacita di possedere.
Perché
Pepper non vede mai Iron Man quando lo guarda o lo stringe a
sé
nonostante gli errori e le corazze che si costruisce ogni volta, e
grazie a lei non ha più bisogno di una lampadina blu per
ricordarsi
di avere un cuore; perché Peter lo guarda e vede Iron Man
anche
quando non indossa l'armatura ed è riuscito a risvegliare una parte di sé che credeva di aver seppellito coi suoi genitori, e grazie a lui può pensare di
aver
fatto almeno qualcosa di giusto in vita sua, per meritarsi
quell'ammirazione sconfinata da qualcuno di così intrinsecamente buono.
Non
vuole perdere tutto ciò e risvegliarsi solo, come vent'anni
prima, nel
vuoto creato da lui stesso. Vorrebbe gridare al solo pensiero, ma
serra la bocca e sbianca le nocche. Sente le corde vocali stridere
dolorosamente, la
pressione che aumenta contro la gola, ma tutto ciò che
emette è una
via di mezzo tra un singulto trattenuto e un debole colpo di tosse.
È
solo, ma le interferenze in quel segnale inequivocabile gli ricordano
che potrebbe non esserlo e lo colmano della stessa rabbia cieca che
l'ha invaso su Titano; del puro, semplice desiderio di poter fare
qualcosa.
E
starsene chiuso nella propria stanza senza neanche la grazia di
riuscire a piangere, a rivivere all'infinito gli stessi momenti, a
pregare in una risposta senza davvero cercarla, non è fare
qualcosa.
È tornare indietro a quella notte di dicembre e rimanere in
ginocchio; è tornare in quella grotta e rifiutarsi di
uscirne. È
lasciarsi morire. È spegnersi nel silenzio, accartocciato
all'angolo di una
stanza.
Non è la fine che ci si aspetterebbe da Tony Stark.
Sente
i propri neuroni fremere, come riscossi da quell'onda sottile e
vibrante.
Ha
costruito un reattore con un mucchio di rottami. Ha creato Iron Man.
Ha sintetizzato un nuovo elemento nel proprio salotto. Ha salvato New
York, ha riformulato Extremis da sbronzo, ha curato Pepper
e ha rimediato a Ultron e supportato Peter e riparato lo scudo di Steve
e aggiustato se stesso – e quella è forse la cosa
più
inconcepibile di tutte.
Può
avvertire distintamente le sue sinapsi iniziare a collegarsi,
riempiendo in minima parte il vuoto, accendendo qualche flebile
scintilla nel grigio dei suoi pensieri. Ha bisogno di un piano, deve porre rimedio a tutto come ha sempre fatto, e deve farlo al meglio perché perdere Pepper e Peter è come perdere le parti migliori e più luminose di se stesso. Abbassa lo sguardo sul
telefono che stringe in mano e sa – lo sa da due giorni o
forse da
due anni – che il primo tassello del suo piano deve essere quello.
"La
prego, signor Stark..."
"Non
importa con chi parli o non parli."
"Siamo
a fine partita."
"Io ci sarò."
Apre
il telefono e fissa il display in frantumi e parzialmente
illeggibile, ma prima di poter fare altro lo vede oscurarsi del
tutto. Preme ripetutamente il tasto centrale, ma ciò non
sortisce
alcun effetto.
Sospira, rassegnato per quell'ennesimo
tradimento della tecnologia.
Affonda le mani nelle tasche dei
pantaloni e rientra zoppicando nella sala comune, per poi lasciarsi
cadere seduto all'ampio tavolo di vetro. Allenta la cravatta
soffocante e si toglie gli occhiali stropicciandosi le palpebre
pesanti. Rigira brevemente il cellulare tra le mani, osservandolo con
occhio clinico: è il Meccanico, potrebbe ripararlo senza problemi.
Invece lo
ripone in tasca e incrocia le mani davanti a sé, in quieta
attesa.
In fin dei conti, odia i telefoni. In particolare i
cellulari.
This
is Major Tom to Ground Control
I'm stepping through the door
____________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Salve!
Sull'onda dell'ispirazione post-Infinity War, torno alla carica con un ibrido tra un missing moment e una what if? Questa storia precede Speaking Terms, praticamente l'altra faccia della medaglia sulla situazione post-schiocco dal PoV Steve.
La genesi della storia è stata spontanea e imprevista, da attribuire principalmente alla citata Space Oddity di David Bowie, dal cui testo ho tratto molta ispirazione, dal leitmotiv delle interferenze (derivato da Rumore di fondo) e all'aver sempre notato molta poca affinità tra Tony e i telefoni nel corso del MCU, porello.
Le ultime citazioni sono rispettivamente di Peter (e fin qui...), Banner, Strange e Rogers.
L'espressione "accartocciato all'angolo di una stanza" è ripresa dalla poesia di Charles Bukowski Che te ne fai d'un titolo?
La punteggiatura è volutamente serrata o assente in determinati passaggi per cadenzare i flussi di coscienza.
Spero che questa dose di angst settembrino sia gradita e ringrazio chiunque leggerà e/o commenterà :)
-Light-
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
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