Dopo essermi accorta di non averla riportata insieme a tutte le altre, ho pensato di rimetterla anche qui, semplicemente perché da quando l'ho riletta non riesco a levarmela dalla mente :-)
1.
Voci. Urla. Sirene.
Tanta gente e poi, di colpo, nessuno. Era da solo.
Il buio, soffocante. La sensazione di andare alla deriva, di perdersi.
Qualcuno ripeteva incessantemente, gridando, il nome di Kate. Le scuoteva la mano, abbandonata inerte. Era lui. Era la sua voce che la chiamava, grida rauche che si spegnevano e si trasformavano in sussurri. Preghiere. Non farla morire. Non farla morire.
Volti sconosciuti chinati su di lui che lo richiamavano alla realtà, qualcuno separava a forza le loro mani chiuse in un'ultima stretta. Si allungava di nuovo, senza trovarla.
Immagini di Kate vorticavano davanti ai suoi occhi. Tentava inutilmente di afferrarla.
Buio. Cielo senza stelle. Luci che gli accecavano gli occhi. Odori sconosciuti.
L'infinita ripetizione della sua morte messa in scena dalla sua mente, sempre diversa, sempre insopportabile. Cercava di salvarla. La inseguiva, correndo e inciampando, ferendosi le mani. Lei rideva e gli sfuggiva. Lo chiamava, giocosa. Sentiva ancora e ancora il rantolo del suo ultimo respiro, prima del silenzio immobile. La implorava di vivere. Le prometteva che sarebbe morto anche lui, che lo avrebbero fatto insieme. Doveva aspettarlo. Non era giusto che andasse avanti da sola. L'aveva promesso. Insieme.
Lei lo guardava pensosa, gli sorrideva e lo sfiorava una guancia. Sentiva il suo tocco, era reale. Le prendeva la mano, di nuovo. La stringeva. Era calda, era viva. Ma quando apriva il palmo c'era solo cenere, che vorticava intorno a lui.
Voleva sentire la sua voce ancora una volta. La supplicava di non andare via. Di non lasciarlo. Lei lo guardava dispiaciuta. Triste. Si voltava e si allontanava. Come se fosse colpa sua. Il dolore era incessante. Pulsava vivido, come se degli animali selvatici gli straziassero le carni. La solitudine era opprimente, una palude nebbiosa che gli faceva perdere l'orientamento.
Lei tornava. Si sedeva sugli scogli vicino a lui. Guardavano il mare, insieme. Gli permetteva di starle accanto, ma solo se non provava a trattenerla. Gli era concesso soltanto di ricordare il suo profumo, e la seta dei capelli sotto le dita. Non rispondeva alle sue domande. Non lo rassicurava di amarlo anche lei. Lo sguardo le si incupiva quando le diceva che non avrebbe mai voluto vivere, se lei fosse morta. Voleva che lo portasse con sé. Si intristiva. Non voleva vederla triste. Non se erano gli ultimi istanti che poteva passare con lei.
Aprì gli occhi di scatto. Bruciavano. Si sentiva soffocare, la gola graffiava. Non riusciva a deglutire. Non metteva a fuoco, non capiva dove fosse. Si sentì invadere dal panico. Cercò di urlare senza riuscirci. Udì delle voci. Non capì chi fossero le persone che si affollavano intorno a lui. Cercò Kate, disperatamente. Non c'era. Doveva trovarla. Si agitò freneticamente, ma qualcosa – qualcuno – lo bloccò. Doveva alzarsi. Doveva tornare da Kate. Una mano fresca gli accarezzò la fronte. La strinse con forza, ma non era quella di sua moglie. La lasciò andare. Una fitta dolorosa nel braccio e, di nuovo, il desiderato l'oblio, l'oscurità ormai familiare. Kate che lo stava aspettando. Si sentì a casa. Se quello era l'unico mondo dove ritrovarla, non avrebbe mai voluto tornare indietro. Sarebbero rimasti insieme, in quella terra desolata di cui erano gli unici abitanti.
Si svegliò. Era calmo. Doveva essere in ospedale: odore di disinfettante, rumori inconfondibili. Cercò di sollevarsi, ma le forze non lo sorressero. Avvertì qualcosa sul viso, che gli impediva di parlare. Alzò un braccio per toglierlo, ma lo sforzo fu eccessivo. Una mano affettuosa strinse la sua. Volse lo sguardo. Non era Kate. Era sua madre. Il cuore tornò a battere freneticamente, l'angoscia gli riempì la gola.
Doveva tornare a prenderla. Dovevano lasciare che andasse da lei.
"Richard", mormorò timorosa.
Focalizzare l'attenzione su di lei si rivelò uno sforzo superiore alle sue possibilità fisiche. Era esausto.
"Non agitarti", lo pregò, con voce sommessa.
La guardò, senza vederla. Dove era Kate?
Cercò di nuovo di sollevare la mascherina che aveva sul viso, Martha lo fermò, impedendogli di compiere altri movimenti.
"Chiamo qualcuno perché te la tolga, ma tu cerca di stare tranquillo. Me lo prometti?".
Annuì, anche se non voleva stare calmo. Il dolore era sopportabile, localizzato solo in una zona del suo corpo, non si trattava più della sofferenza totalizzante che aveva esaurito il suo intero campo sensoriale in precedenza, facendolo inabissare.
Da quanto tempo era in quel letto? Dove era Kate?
Non si mosse, proprio come gli avevano ordinato. Si assopì di nuovo, solo per qualche minuto, per svegliarsi di soprassalto quando sua madre tornò da lui accompagnata da persone che indossavano un camice bianco.
Forse loro sapevano dove fosse Kate.
Rimase quieto mentre lo liberarono dal respiratore. Non parlò, quando gli chiesero di farlo. Voleva tornare a dormire. Voleva tornare da lei. Potevano fare qualcosa?
Le pupille si ribellarono quando furono bruscamente invase da un fascio luminoso puntato contro di loro.
Voleva perdere i sensi, sprofondare nel nulla. Perché non lo lasciavano in pace?
"Signor Castle? Mi sente?". Capì che si erano rivolti a lui, ma non voleva rispondere.
Vide lo sguardo apprensivo della madre. Gli spiacque che fosse preoccupata per lui, ma non ne aveva motivo. Di lì a poco avrebbe potuto rivedere Kate. Sarebbe andato tutto bene. Era seduta al loro posto ad aspettarlo. Avrebbe salutato e se ne sarebbe andato. Da lei. Forse per sempre. Lo sperava.
Solo più tardi – minuti, ore, giorni? Non lo sapeva – si svegliò del tutto, finalmente lucido. Ricordava di essere in ospedale, ma Kate non era con lui. Non era tornata. Aveva dormito, un lungo sonno di piombo senza sogni. O allucinazioni. Sapeva che si era trattato di quelle. Non era la vera Kate. Non era mai stata con lui. Non era da nessuna parte.
"Mamma?", chiamò con voce roca. La gola gli faceva male quando deglutiva. Mosse un braccio e afferrò la sponda del letto.
Martha corse da lui, allarmata. Forse temeva che avrebbe di nuovo dato in escandescenze.
"Kate?". Fece fatica a pronunciare il suo nome. Avrebbe dovuto abituarsi.
Martha abbassò gli occhi, senza rispondere.
L'oceano di dolore pulsante che aveva provato, quando era stato immerso nell'oscurità, non era niente a confronto allo strazio disperato che si riversò dentro di lui. Kate non c'era, perché era morta. Era semplice. Non l'aveva salvata. Mai, in nessuna delle volte cui era scomparsa e riapparsa. L'aveva lasciato. Per sempre.
Si sentì intontito, confuso. Non riusciva a figurarsi un mondo senza di lei. Doveva essere da qualche parte. Non poteva non esserci più. Scomparsa, come se non fosse mai esistita.
Di colpo il cuore ricominciò a battere furiosamente. Si spaventò. Lo sentiva martellare nelle orecchie, senza che ne comprendesse la ragione. Era sopraffatto da quel frastuono dentro di lui, di cui gli altri erano ignari. Gli mancava il respiro. Si sforzò di stare calmo, senza risultato. Riprovò, sembrò andare meglio.
Il panico andava scemando.
Arrivò un medico, non seppe se era lo stesso della volta precedente. Si accorse che intendeva somministragli un sedativo, ma lo fermò. Non c'era nessun motivo di tornare nell'incoscienza. Kate era morta. Quella che aveva incontrato era solo la proiezione dei suoi desideri e del senso di colpa per non essere riuscito a farla vivere.
Voleva sentire tutta la sofferenza, non sfuggirle. Il medico lasciò la stanza, mormorando qualcosa che non comprese.
"Sto bene", riuscì a dire, prima di essere scosso da un improvviso accesso di tosse. Forse non stava così bene come pensava, ma che importanza aveva? Non sarebbe mai stato meglio.
Martha gli scostò i capelli dalla fronte. Era stanca, il viso segnato, gli occhi infossati. Non voleva che si angosciasse per lui. Perché non andava a casa?
"Sto bene", le ripeté di nuovo, con più forza.
"Mi fa piacere saperlo, visto che hai un aspetto orribile e ci hai spaventato a morte, negli ultimi giorni", replicò nel suo solito modo di fare, sotto il quale nascondeva abilmente la paura.
Doveva averli terrorizzati tutti.
Castle chiuse gli occhi. Era pronto. Dovevano dirglielo.
All'ultimo non ce la fece. Non voleva che diventasse reale.
"Dove è Alexis?". Aveva atterrito anche lei? Sperò vivamente di no.
"È andata a casa un paio di ore fa. Sta arrivando".
Annuì. Le afferrò una mano, facendola sobbalzare.
"Fai tornare il medico", la pregò, cercando di trasmetterle l'urgenza della sua richiesta.
"Perché? Stai male? Il dolore è troppo forte?".
Scosse la testa. "Vai a chiamarlo", insistette.
Martha uscì dalla stanza, in fretta, per fare quello che lui le aveva chiesto.
Castle rimase immobile a fissare le luci sopra di lui. Non poteva lasciare che fosse sua madre a confessargli che Kate era morta. Non poteva farle questo.
Gli si riempirono gli occhi di lacrime, mentre la realtà cominciava a farsi strada dentro di lui. Il primo di un infinito numero di istanti in cui lei non ci sarebbe stata. Avrebbe vissuto aspettando di raggiungerla. Non doveva volerci poi così tanto.
La madre tornò accompagnata da un altro volto sconosciuto, ormai aveva perso il conto.
Si schiarì la voce, per prendere tempo.
"Va tutto bene?", gli chiese il medico di guardia, controllando la cartella clinica.
Castle aspettò di ricevere la sua attenzione.
"Mia moglie è morta?". Scandì con cura le parole. Le avrebbe dovute ripetere molto spesso, nel tempo. Lo pose come interrogativo, che era solo retorico. Sentivache era morta.
Martha sussultò, il medico li guardò entrambi, confuso. Nessuno parlò.
"Quando è successo? A casa? O era ancora viva quando è arrivata in ospedale?".
L'uomo prese uno sgabello e si sedette accanto a lui. Andiamo. Perché la facevano tanto lunga? Aveva solo bisogno di una conferma.
"Signor Castle. Sua moglie non è morta".
Lo guardò, senza capire. Volse gli occhi verso Martha, che annuì commossa.
Che cosa significava che non era morta? Perché gli mentivano? Per non farlo agitare?
Riprovò.
"Sto bene. Posso sopportarlo. Ho solo bisogno che mi diciate la verità".
Il medico gli parlò di nuovo, armato di infinita pazienza.
"Le ripeto che non è morta. Nessuno di voi due è morto".
Lo divertì il fatto che specificasse che non fosse morto nemmeno lui. Dovevano temere che fosse uscito di senno.
Nemmeno? Sbarrò gli occhi quando comprese il significato reale delle sue rassicurazioni. Davvero? Era viva? Kate non era morta?
Si sollevò, a fatica, pronto a balzare dal letto e correre da lei. Migliaia di domande affollavano la sua mente. Dov'era? Stava male? Aveva chiesto di lui? Doveva andare da lei. Non poteva rimanere da sola. Il medico intervenne, per fermarlo e imporgli di stare calmo, ma lui non intendeva sentire ragioni.
Se Kate era viva, nessuno avrebbe potuto fermarlo, neanche volendo. Non diede retta alle sue richieste, non ascoltò le preghiere di sua madre, cercò di strapparsi l'ago della flebo, si aggrappò con forza alle sbarre del letto, per alzarsi. Era mosso dal bisogno febbrile di riunirsi al lei, di vederla, toccarla. Accertarsi che fosse viva.
Dovettero sedarlo di nuovo.