Ricordare ciò che siamo
3398esima rotazione dalla mia nascita
Il cervello è qualcosa di complesso: un intricato sistema chimico e
fisico creato dalla biologia e dall’evoluzione. Ma la mente? Cos’è la mente? Un
semplice sinonimo o qualcosa di più?
Quando la Terra smise di essere ciò che era: la nostra casa; l’umanità si
disperse nel sistema solare e cambiò la propria natura. Le grandi navi-arche si
sistemarono in orbita dei pianeti terrestri e lì rimasero come vecchie bagnarole
dimenticate. Dimenticate… sì. La memoria di ciò che eravamo, di ciò che volevamo essere si perse e
dell’uomo rimase solo un cervello. Tutto ciò che teneva unite le persone si
spezzò, non ci furono più famiglie, amanti, amici, ma solo altri esseri simili
a noi con cui condividere le risorse. Tutto ciò che l’umanità considerava
normale smise di esserlo, il semplice termine di quotidianità smise di avere
senso.
In qualche modo, però, il cervello continuò a funzionare perfettamente e
il genere umano non si estinse, neppure nelle nuove complesse situazioni
ambientali in cui si ritrovò. Marte, Venere e Mercurio furono colonizzati da
una forma di società completamente diversa da quelle che avevamo conosciuto
sulla Terra, ma altrettanto capace di sopravvivere e prosperare. I nuovi nati
imparavano con il cervello e non con la mente. La fisica, la matematica, la
chimica prosperarono, ma nessuno seppe più cosa fosse la storia, la letteratura,
l’arte, la religione. Nessuno cercò una soluzione, perché nessuno ricordava un
mondo o un’esistenza in cui l’attuale condizione non fosse normale.
Poi nacqui io.
La mia malattia è di tipo mentale: io ricordo. La mia mente esiste ancora
e, in qualche modo, ricorda ogni cosa. Conosco la potenza dell’antica Roma,
conosco la bellezza di Nefertiti, conosco il suono del vento nelle pianure
mongole, conosco il brusio senza fine di New York e ricordo l’intensa nostalgia
dei profughi che, dalle navi-arche, guardano il proprio pianeta natale morire,
la propria casa scomparire.
In quel preciso momento percepisco uno strappo, un senso di vuoto, uno
spezzarsi dell’equilibrio tra ciò che siamo biologicamente e ciò che possediamo
in quanto popolo, in quanto umanità con una Storia.
Ho avuto molte rivoluzioni per riflettere sulla condizione in cui mi
trovo e in cui si trovano gli altri. Cos’è successo in quel momento? Cosa ci ha
reso ciechi e sordi a ciò che eravamo? Posso pensare di essere io quella pazza?
La malata mentale che vede e sente cose che non esistono? No, non posso
accettarlo, dunque la risposta può essere solo una: l’umanità, avventurandosi
in uno spazio prima inesplorato, ha incontrato qualche forma di energia, di
virus, di onda che ne ha invaso la mente cancellandola, ma lasciando intatto
tutto il resto.
Ho iniziato questo diario perché devo combattere il senso di solitudine,
ho provato a parlare con loro, con gli altri, ma nessuno bada alle mie parole è
come se parlassi una lingua diversa e nessuno avesse la minima intenzione di
provare a capire, è frustrante e sto iniziando a impazzire… scrivere è la mia
ultima spiaggia, perché ho paura di svegliarmi un giorno come loro.
4613esima rotazione dalla mia nascita
La mia peculiare situazione, la mia malattia, mi tormenta, a volte
desidero solo di essere come gli altri, di dimenticare, di perdermi nell’oblio
e diventare asettica, calma. Ogni volta che osservo il cielo e vedo il vuoto un
tempo occupato dalla Terra mi sento sopraffatta dalla nostalgia e vengo sommersa
dai ricordi: il Sole sulla mia pelle nuda e non su questa maledetta tuta, il
vento tra i capelli, l’erba che solletica le piante dei piedi, la sensazione di
accarezzare un gatto, la ruvida lingua di un cane spinta contro il mio palmo, un
fiocco di neve freddo che cade e si scioglie sulla mia guancia. Toglie il
respiro e altera il mio battito cardiaco spingendo la tuta a mandare un segnale
d’emergenza che mi fa riportare sotto la cupola protettiva al cospetto di un
medico incapace di comprendere il mio dolore privo di qualsiasi causa fisica.
Ho passato ore a scrivere di quel mondo dimenticato, piangendo per la
bellezza andata perduta due volte, prima a causa del disastro, poi a causa del
rifiuto dell’umanità di ricordare.
Pagine che nessuno ha letto e che mi sembrano prive di significato, vuote
nella loro incapacità di trasmettere ciò che la mia mente prova e ricorda.
Vuote perché impossibili da comprendere ad altri che a me stessa in cui vivono
ben più intense e vere.
Forse sbagliavo, forse addormentarmi e svegliarmi come loro sarebbe una
liberazione.
Forse dovrei smettere di scrivere e iniziare a dimenticare.
Entrò nella grande cupola refettorio
storcendo il naso a causa del silenzio. Avrebbe dovuto essere abituata, ma le
faceva sempre strano osservare un centinaio di persone in fila in assoluto
silenzio. Il solo rumore lo facevano le pillole ad alto contenuto nutrizionale
che cadevano nei contenitori di plastica e l’acqua depurata che riempiva i
bicchieri.
Con un passo lento, leggermente
incurvata dagli ormai 115 anni, raggiunse la fila e attese il suo turno. Un
tempo, quando era giovane e scriveva per sentirsi meno sola, sognava i ricchi e
saporiti piatti della Terra, uno per ogni paese, ma ora che non scriveva più,
non pensò a nulla se non a quanto quel silenzio fosse assordante e a quanto
fosse triste che quei finti estranei non avessero nulla da dirsi.
Con un sospiro ingurgitò le pillole e
bevve l’acqua poi si recò allo sportello d’assegnazione dei compiti. Il giorno
prima aveva lavorato nel laboratorio di chimica A239XC collocato nella zona 5
della sua struttura, le era piaciuto perché per raggiungerlo bisognava uscire
da sotto le cupole abitative e aveva potuto osservare il cielo.
L’antica malinconia era ancora viva,
ma neppure una lacrima era scivolata sul suo viso.
Oggi dove l’avrebbero mandata? Magari
al centro di controllo delle tute, era da un po’ che non ci andava. Il sistema
tendeva a distribuire gli incarichi con una particolare attenzione alla non
ripetitività, prima o poi, però, si finiva per tornare in una struttura di
lavoro già vista.
Non appena ebbe passato il proprio
chip identificativo il numero 4831, il suo nome in quel mondo privo di
fantasia, apparve sullo schermo, qualche secondo e sul computer apparve
l’intera struttura GH3 composta dalle due grandi bolle sonno, che ospitavano
500 persone l’una, dai 50 laboratori la maggior parte dei quali nell’enorme
bolla veglia, ma alcuni disposti nelle piccole bolle esterne al nucleo abitato,
dalla cupola intermedia che fungeva da refettorio e da centro per lo
smistamento e, infine, dalle due strutture ospedale, una delle quali occupata
dal centro natalità. Proprio quest’ultimo era colorato di rosso, segno che era lì
che doveva andare.
Chiuse gli occhi e li riaprì,
sperando che la vecchiaia le avesse fatto un brutto scherzo, ma lo schermo era
chiaro e l’indicazione anche, doveva recarsi nella zona nascite. Con un sospiro
di rassegnazione lasciò il proprio posto ad un altro abitante della sua unità, avrebbe
potuto ignorare l’assegnazione, dopo tutto nessuno controllava che gli
operatori si recassero dove dovevano, era ovvio che lo facessero, ma aveva
abbandonato da tempo lo spirito di ribellione che quel semplice atto prevedeva.
Con passo ormai lento raggiunse il
mezzo di trasporto B che si svuotò lentamente mentre raggiungeva i vari
laboratori per poi fermarsi per lei e altre quattro persone davanti alla
piccola struttura nascite.
Non le piaceva quell’incarico, vedere
tutti quei bambini fermi nelle loro culle o seduti ai loro banchi di scuola che
assimilavano informazioni, senza esprimere nulla, la faceva stare male. Vi era
qualcosa di profondamente sbagliato in un neonato che non piange o in un
bambino che non gioca, litiga o ride. Ma quel giorno le toccava quel compito,
quindi si recò nella stanza incubatrici e controllò che gli uteri artificiali
funzionassero come dovevano e che i feti ricevessero il giusto apporto nutrizionale.
Finì prima di quanto sperasse e tornò a raggiungere la stanza principale. Due
operatori stavano guardando perplessi una culla. Tra le mani avevano un
apparecchio di diagnosi, ma sembravano non ricevere da esso nessuna indicazione
sul come proseguire. Perplessa si avvicinò a sua volta.
“Cosa succede?” Chiese, il suono
della sua voce la sorprese, erano due giorni che non la usava.
“Identificazione del dolore fallita.”
Le spiegò l’operatore donna che stringeva lo strumento. Allora lei abbassò lo
sguardo verso la bambina, osservando il modo in cui il pianto le contorceva il
viso. Per un istante rimase immobile, poi, senza esitare ulteriormente, aprì il
guscio che proteggeva la bambina e il suono del pianto inondò la stanza,
facendo fare un passo indietro, sorpreso, ai due operatori. Lei allungò le mani
e sollevò la piccola avvolgendola nella sua copertina e stringendola contro il
proprio corpo.
“Su, su, non è niente.” Si ritrovò a
mormorare. Bastò, la bambina ora la osservava con grandi occhi dal colore
ancora indefinito.
La donna e l’uomo considerarono il
problema risolto, annuirono, poi tornarono ad occuparsi delle altre culle. Solo
allora lei si rese conto di cosa fosse successo, con occhi sgranati osservò la
bambina e comprese: era come lei, era malata, era viva, era umana.
Per la prima volta da anni ebbe un
attacco di panico, il suo cuore prese a battere veloce e il suo corpo si
ricoprì di sudore freddo, posò la bambina nella culla e uscì dalla stanza
cercando di respirare, ma sentendosi oppressa da quella sconvolgente nuova
verità.
Vi era qualcun altro come lei: non
era più sola.
Si passò le mani tra i capelli grigi,
cercando di calmarsi, se l’avessero vista in quello stato l’avrebbero
accompagnata da un medico come prevedeva il loro cervello strutturato e lei non
voleva passare delle ore a fare test inutili.
Riuscì a tornare nella stanza culle
una decina di minuti dopo, le sue mani tremavano ancora, ma era più calma. La
bambina era ancora lì, non piangeva, ma agitava le piccole mani davanti al
volto, come se cercasse di afferrare qualcosa: imparava a coordinarsi, a
comprendere quale parte del mondo fosse lei e cosa il resto. Passaggi naturali
in un bambino umano, passaggi che il cervello della nuova umanità non aveva
bisogno di compiere, ma conosceva nei pochi minuti successiva all’estrazione
dall’utero artificiale.
“Ciao…” Mormorò alla bambina poi aprì
la culla, con un po’ di timore, e avvicinò la mano al viso della neonata
sfiorandone delicatamente la pelle. Era così piccola e così viva… non riuscì a
trattenersi e pianse in silenzio, un sorriso meravigliato sulle labbra, mentre
osservava, dopo tanto tempo, qualcosa di vero e bellissimo.
Passò una settimana, poi un mese, la
bambina cresceva e lei ignorava ogni assegnazione solo per poter passare la
giornata nel reparto natalità occupandosi di quella piccola meraviglia e
sottraendola al programma riservato al suo gruppo di nascita. Dopo 67 giorni i
suoi compagni di estrazione camminavano, iniziavano a pronunciare le prime
frasi e apprendevano le basi della chimica e della fisica, mentre la piccola
emetteva i primi versi e imparava a stare seduta, tendendo le mani verso di lei
ogni volta che la vedeva, un ampio sorriso che le illuminava il viso. La lunga
gestazione nell’utero artificiale e la somministrazione di particolari ormoni permetteva
al neonato di crescere quindici volte più in fretta di un bambino nato sulla
Terra, dopo dieci mesi, mentre i suoi compagni venivano integrati nella vita
della comunità e ricevevano i loro primi assegnamenti, la bambina iniziava
finalmente a parlare correttamente e la sua mente era piena di domande: perché
non potevano uscire a vedere l’erba? Perché non c’erano animali? Perché non
pioveva mai?
La crescita rapida da neonato a
bambino di dieci anni non sembrava turbarla troppo, ma non poter giocare con le
farfalle sì e solo lei poteva rispondere a quelle domande che si era posta lei
stessa molte rivoluzioni prima.
La sua vita cambiò, ora non era più
sola, ora poteva ridere con qualcuno, parlare, giocare, gli sterili nomi in
codice furono presto trasformati, la cupola notte divenne Pisolino, la cupola
refettorio Banchetto, i laboratori divennero Curie, Einstein, Galileo, Newton,
Fermi, Keplero e altri ancora, lei stessa ebbe, per la prima volta, un nome
estratto dal suo numero di matricola, 4831 divenne ABBI, mentre la piccola fu
ISBEL dal numero 15837.
Non era mai stata così felice.
“Perché non prendiamo una nave e
andiamo su Mercurio?” La domanda le era stata posta mentre erano all’esterno e
osservavano le stelle, persino la nostalgia per la Terra era sopportabile se
era condivisa.
“Solo pochi di noi vengono addestrati
a viaggiare tra i pianeti, è l’unica tipologia di lavoro per cui si viene preparati
già all’interno dell’utero artificiale. Le loro ossa solo più leggere, adatte
alla vita senza gravità, i loro polmoni meglio sviluppati, preparati a trarre
il massimo dall’aria con un basso livello di ossigeno, per non parlare dei loro
muscoli che sono più lunghi e flessibili, perfetti per muovere i loro snelli e
dinoccolati corpi in assenza di peso, ma incapaci di sostenerli sui nostri
pianeti. I loro apparati sensoriali sono ridotti ai minimi termini, visto che
vivono soli nei loro gusci di trasporto.” A volte dimenticava che la bambina
non aveva seguito l’apprendimento scientifico a cui erano stati sottoposti
tutti, lei compresa. Conosceva tutto il loro passato, aveva un immenso bagaglio
di informazioni e ricordi, ma non sapeva nulla del loro mondo post Terra.
“Perché non sono stata scelta?”
“Ti sarebbe piaciuto?”
La pausa di silenzio durò a lungo.
“No.” Giunse infine la risposta.
“Perché? Credevo che volessi
viaggiare.”
“Non mi sarebbe piaciuto rimanere
sola per tutta la vita.”
Quella risposta le fece abbassare la
testa, forse da quando aveva trovato Isbel non era
più sola, ma non poteva dimenticare il secolo passato in quella condizione.
“Perché non creano umani che sanno
respirare nell’atmosfera del nostro pianeta?” La domanda la distrasse e lei
cercò, invano, di scacciare quel senso di oppressione che le aveva schiacciato
il petto.
Quella notte dormì male, quando si
svegliò prima degli altri si ritrovò a scorrere le pagine scritte anni prima.
Capì che non era uno sfogliare casuale quando si ritrovò a leggere parole che
ancora ora sapevano riempirla di sofferenza.
5156esima rotazione dalla mia nascita
Oggi ho incontrato ancora 4852… non riesco a smettere di pensare a lei,
sono quasi sicura di averla vista mentre guardava le stelle, è stato solo un
istante, ma, forse…
Ho provato a parlarle, ma risponde solo con uno sguardo perplesso alle
domande prive di contesto.
Sto forse immaginando tutto?
5161esima rotazione dalla mia nascita
Vorrei che mi guardasse, vorrei che mi sorridesse. Il lei c’è qualcosa
che mi attrae, credo sia solo la mia fantasia a farmi immaginare cose, ma mi
sembra che mi abbia riconosciuto. Eravamo in refettorio, l’ho vista subito, è
impossibile ignorare i suoi capelli rossi, tagliati corti come tutti, ma pur
sempre una chiazza di vivace colore in questo mondo grigio, e lei mi ha
guardata. Mentre tutti fissavano solo la schiena davanti alla loro lei ha
voltato la testa e mi ha guardata.
5163esima rotazione dalla mia nascita
Sto impazzendo? Oggi 4852 mi ha sfiorato la mano e il mio cuore si è
messo a battere veloce. Posso sperare? Credere?
5184esmia rotazione dalla mia nascita
Le ho dato un bacio. Se mi avesse respinta, credo sarebbe stato meglio,
invece mi ha solo guardata con uno sguardo perplesso. Vuoto. Un profondo e
incolmabile vuoto la tiene lontana da me e io sono stata così stupida! Così
sciocca! Desideravo così tanto poter avere qualcuno accanto che ho inventato
ogni così, l’ho sentito con profonda chiarezza quando ho appoggiato le mie
labbra alle sue, non vi era nulla se non un vuoto tra me e lei.
Sono sola. La mia malattia forse non è mortale, ma vorrei che lo fosse,
vorrei che finisse, vorrei smettere di soffrire. Deve smettere!
Aveva scritto centinaia di pagine, ma
solo quelle parole, quelle frasi saltarono ai suoi occhi con bruciante forza.
Distolse lo sguardo, ma aveva
riaperto una vecchia ferita e i ricordi riaffiorarono con vibrante forza
obbligandola a sentire ancora una volta tutto il dolore provato in quei giorni.
Le sue dita corsero a sfiorare le cicatrici che aveva ai polsi, due tagli netti
che si era inferta da sola una sera, piangendo. Sarebbe stato più semplice
uscire dalla cupola, lasciare che l’atmosfera di quel pianeta ostile che
detestava, la uccidesse rapidamente, ma non ci era riuscita, così aveva
semplicemente tagliato le proprie vene osservando il sangue fuoriuscire e
colorare di scarlatto il monotono pavimento bianco.
Era stata così vicina alla liberazione,
eppure dentro di sé non aveva provato sollievo, l’oblio che desiderava tanto
non era giunto, ma solo l’angoscia, la paura che, una volta morta lei, nessuno
avrebbe più portato con sé il ricordo della Terra.
Aveva tentato di fermare l’emorragia,
ma era troppo tardi, con un profondo terrore aveva capito che non ce l’avrebbe
fatta. Poi era arrivata 4852 e l’aveva salvata. Lei piangeva mentre con
asettico professionalissimo la donna metteva fine all’emorragia e le bendava i
polsi. Piangeva per quello che era, per quello che non riusciva a fare e per
quello che quasi aveva fatto, piangeva perché era condannata a rimanere in vita
e a rimanere sola.
Si strinse nelle proprie braccia
lasciando che il dolore piano, piano scemasse tornando ad essere solo un sordo
ricordo. Presto sarebbe morta di vecchiaia e avrebbe lasciato Isbel da sola. Come poteva permetterlo?
Per anni aveva cercato di curare il
genere umano, ora doveva farlo per davvero, non per se stessa, ma per la
piccola Isbel.
“Cosa stai facendo?” La bambina
faceva oscillare le gambe osservandola con curiosità.
“Negli ultimi anni i Cervelloni hanno
studiato nuove tecniche di analisi dello spettro delle onde, sto analizzando di
nuovo i dati del viaggio dell’allontanamento dalla Terra per scoprire se ora
trovo qualcosa di anomalo lì dove prima non vi era nulla.”
La bambina annuì piano, ma era chiaro
che qualcosa frullava nella sua mente.
“Non credi che questo è esattamente
quello che farebbe un Cervellone?” Le piaceva molto quel modo di chiamare gli
altri esseri umani, quelli diversi da loro due. Abbi si voltò a guardarla
interrogativa, chiedendole di spiegarsi. La bambina si strinse nelle spalle. “E
se l'universo fosse più simile ad un grande pensiero che non a una grande
macchina?”
“Cosa intendi dire?” Ora era davvero
curiosa.
“Ai Cervelloni piacciono tanto le
macchine, ma non… pensano, non in quel modo, se non volessero sentire più
quello che sentiamo noi? Se avessero smesso di pensare all’universo e iniziato
a vederlo solo come una macchina? Solo come matematica, fisica e chimica e non
come filosofia, poesia e storia? Questo non avrebbe… cancellato parte di loro,
la parte che invece noi abbiamo in eccesso?”
L’idea la lasciò senza fiato: si era
aggrappata ad una risposta scientifica quando il problema era forse di altra
natura? E se gli esseri umani non potendo sopportare di perdere la propria
casa, in un completo e totale atto di rifiuto, ne avessero cancellato
l’esistenza alterando con quel ricordo tutto ciò che li rendeva umani?
Se si trattasse di un’auto-mutilazione
di proporzioni incalcolabili, tanto quando era incalcolabile il dolore di veder
morire la propria casa?
Come se seguisse il filo dei sui
pensieri la bambina sospirò.
“Come puoi provare la mancanza di
qualcosa quando non sai essere esistita? Forse volevano solo far smettere il
dolore.”
Se era vero, se si trattava di un
qualche shock post traumatico condiviso dall’intera umanità, come potevano
invertire il processo?
“Come invertiamo il processo?” Chiese
ad alta voce. Isbel era all’origine di quell’idea,
forse la sua mente priva dei preconcetti instillati dall’educazione dei
Cervelloni poteva arrivare alla soluzione anche di quel dilemma. “Come facciamo
sì che l'universo ritorni a essere più simile ad un grande pensiero che non a
una grande macchina? Come ristabiliamo l’equilibrio tra quello che siamo noi e
quello che sono loro?”
Aveva tentato di tutto: aveva scosso
le persone urlando loro in faccia le verità che conosceva lei, aveva dipinto,
scritto poesie, pianto, implorato…
La bambina sorrise.
“Una volta hai detto che noi e loro
parliamo due lingue diverse. Forse dobbiamo solo usare la loro lingua per dire
le nostre cose.”
Aveva smesso di sperare molti anni
prima, eppure ora, mentre Isbel le prendeva la mano,
nel vedere le lacrime riempire i suoi occhi e le accarezzava il polso,
marchiato dalla sua solitudine, osò sperare.
“La musica.” Disse e la bambina
annuì.
“La musica è matematica, ma è anche
emozione, può contenere tutte le emozioni, dobbiamo solo scegliere quella
giusta e, forse, capiranno.”
Doveva creare un’arma, uno strumento,
qualcosa di potente che avrebbe diffuso il loro messaggio non solo alle
migliaia di cupole disseminate sulla superficie di quel pianeta, ma fin anche
negli altri mondi.
“Perché la chiami arma?” Le chiese la
bambina, mentre la osservava calibrare un generatore di onde. “Non mi piace… le
armi sono cattive.”
Abbi si fermò e bevve un sorso
d’acqua, non aveva più l’età per passare ore accovacciata a costruire un
aggeggio che probabilmente avrebbe fatto cilecca.
“La chiamo arma perché distruggerà
tutto quello che loro conoscono e porterà dolore.”
“Ma…”
“Non dovremmo farlo?” Le chiese lei,
cogliendo il dubbio sul viso della bambina.
“I Cervelloni sono felici così?”
Chiese Isbel invece di rispondere.
“Il fatto è che non possono essere
felici, così come non possono essere tristi. Vi è un equilibrio nel nostro
essere umani, se proviamo un sentimento finiremo per provare anche il suo
opposto. Possiamo conoscere il dolore solo se sappiamo cos’è la gioia.”
“Il nostro è, dunque, un dono
avvelenato?”
“Sì.” Ammise lei e sospirò. “Per
questo chiamo questo aggeggio che sto costruendo arma.”
Tornò a piegarsi e a lavorare, era
difficile calibrare le frequenze, ma una volta che ce l’avesse fatta era quasi
sicura di poter sfruttare le navi-arche come ripetitori del loro messaggio
anche se avrebbe richiesto molto tempo e un viaggio piuttosto difficile.
“Sapranno ancora come sopravvivere su
questi mondi così diversi dalla Terra?” La bambina ora era stesa sul pavimento
e la guardava dal basso.
“Non perderanno quello che sanno, ma
le nuovi generazioni non avranno la facilità d’apprendimento dei Cervelloni…
almeno credo. Non lo so Isbel, di certo sarà
difficile, ma lo sono tutti i cambiamenti all’inizio.”
Il lungo viaggio alla nave-arca del
suo pianeta l’aveva distrutta, ma le aveva anche dato speranza, i sistemi principali,
tra cui quelli di comunicazione, erano ancora attivi e scambiavano ancora dati
con le arche in orbita attorno agli altri due pianeti.
Era stanca, passava interi giorni
bloccata nel letto a causa del dolore alle articolazioni, neanche i medicinali
riuscivano ad aiutarla come un tempo, ma lei resisteva, non sarebbe morta prima
di aver compiuto il suo lavoro. Era curioso che i Cervelloni nati assieme a lei
sembrassero in perfetta forma, pronti a vivere ancora una ventina d’anni senza
difficoltà. Un’altra domanda che andò ad aggiungersi alle altre: la sua arma
avrebbe tolto anni da vivere agli esseri umani? La mente influiva sul cervello
anche per quel fattore?
Due rivoluzioni dopo la prima volta
che aveva provato di nuovo speranza, riuscì a completare ogni cosa.
La sua arma era pronta, il giorno X
era giunto, gli esseri umani avrebbero dovuto accettare la verità: la loro casa
era morta, la Terra non c’era più, ma loro erano ancora qui ed era ora che
ritornassero a vivere.
“È tutto pronto.” Il suo cuore batteva
veloce, allungò la mano per dare il via alla trasmissione, ma poi si fermò.
“Non credo sia giusto che a farlo sia io.” Ammise, guardando Isbel. Era cresciuta in quelle due rivoluzioni, ma aveva
sempre lo stesso modo di guardarla e sullo sfondo dei suoi occhi vi era sempre
la stessa malinconia che lei vedeva nei propri, un retaggio della loro
malattia.
“Perché?” Le chiese, anche se
sembrava già conoscere la risposta.
“Se il nostro piano funziona loro
ricorderanno quello che provavano, ma non ricorderanno quello che eravamo, come
popolo, come razza umana. Tu sarai la voce della Terra, credo che sia giusto
che sia tu a farla parlare nei loro cuori per la prima volta.”
“Ma sei stata tu costruire la
macchina.” Ribatté la ragazza.
“Risvegliare la loro mente sarà il primo
passo verso un nuovo futuro, io sono un prodotto di scarto del loro passato. Se
credi che il peso del cambiamento sia troppo per te, sarò io a… sparare.”
Sorrise. “Ma credo che tu abbia tutto il coraggio e la forza che serva…”
Isbel annuì poi si avvicinò
all’attrezzatura. Non esitò, accese lo schermo e i diffusori d’onda, agganciò
il segnale di trasmissione della cupola e lo sincronizzò con quello dei
satelliti in orbita, l’ultimo passaggio fu l’inserirsi nell’ormai antico
sistema delle arche, le uniche capaci di trasmettere su distanze planetarie e
di comunicare con le astronavi in viaggio. Il messaggio era pronto, lo era
anche il messaggero?
Isbel passò le dita sullo schermo, per un
istante sembrò titubare,
“Se funzionerà lo chiameranno il
giorno della malinconia?” Domandò, ma non attese la risposta per premere invio
e consegnare all’uomo il suo messaggio.
***
I pensieri nella loro mente erano
semplici, lineari, basati su operazioni matematiche, bisogni biologici,
reazioni chimiche. Qualcosa però turbò quella quiete. Un algoritmo,
un’operazione semplice eppure estremamente complessa. Le loro orecchie la
recepirono e il loro cervello iniziò a tradurla, ma vi era qualcosa che non
andava. Il cervello non bastava, serviva… la mente.
Una lacrima scivolava sulla sua
guancia, una goccia di H2O… era mai stata così bella? Bellezza?
L’immensità dell’universo attorno a
lui… si era mai sentito così solo? Solitudine?
Un bambino che piangeva nella sua
culla, sentirlo le fece male al cuore… aveva mai provato nulla di simile?
Empatia?
Alzò lo sguardo verso il cielo, verso
le stelle… perché sentiva che vi era qualcosa di importante che mancava?
Nostalgia?
Quel suono penetrava nella loro anima
sconvolgendo tutto dentro di essi, cambiando ciò che erano o forse, soltanto
tirando fuori quello che era sempre rimasto nascosto. Tristezza, dolore, gioia,
orrore, desiderio, amore…
***
Abbi indossò la tuta d’esterno con
una certa fatica, Isbel era occupata a dare risposte,
a spiegare e divulgare la memoria di ciò che eravamo e di ciò che avremmo
potuto essere, ma lei, ora che l’equilibrio era stato ripristinato e il caos
dei primi giorni superato, poteva concedersi un po’ di riposo e aveva proprio
voglia di vedere le stelle.
“4831?” La voce era incerta, Abbi si
voltò e rimase immobile ad osservare la donna che l’aveva chiamata. Era
invecchiata, certo, anche se meglio di quanto fosse invecchiata lei, ma, malgrado
il suo viso portasse le tracce della fatica del viaggio che doveva aver compiuto
per essere lì, era ancora molto bella e i suoi capelli erano ancora una
colorata e vivace macchia rossa.
“Abbi.” Le fece notare, incapace di trovare
qualcosa di meglio da dire.
“Giusto, questi numeri non sembrano
più bastare, adesso, non è vero?” Le sorrise, un sorriso timido.
“Già…”
“Tu hai sempre saputo, non è vero?”
Le annuì. Aveva un nodo alla gola e
non era sicura di poter parlare ancora. La donna le si avvicinò. Alzò la mano e
le prese il polso, passando le dita sulle ferite che tanto tempo prima aveva,
in parte, causato e al contempo curato.
“Mi dispiace.” Mormorò piano. “Io non
capivo…” Cercò di spiegare.
“Lo so, sono stata stupida.”
La donna scosse la testa.
“Quando ci siamo… svegliati, eravamo
estranei, nessuno di noi sapeva nulla del vicino, se non che era un viso conosciuto
da anni e anni, ma… tu… tu eri qualcosa di più tra i miei ricordi, qualcosa di…
speciale.” Era chiaro che avesse pensato a quello che le stava dicendo, ma lo
disse con difficoltà, come se si trovasse ancora a disagio nell’esprimere
concetti derivati da sensazioni ed emozioni.
“Siamo vecchie.” Si ritrovò a dire,
come se fosse tardi per qualsiasi cosa, ma o era?
“Vorrei lo stesso imparare a
conoscerti.” Ribatté lei e questa volta lo disse con decisione.
Era strano parlare con lei e ottenere
una risposta vera… forse era perché ora lo era: ora lei era vera, viva, umana.
“Mi chiamo Abbi.” Disse allora lei
tendendo la mano, la donna la guardò perplessa, poi però la strinse, intuendo
che era una qualche sorta di saluto a lei ancora sconosciuto.
“Io, per ora, sono ancora 4852 e sono
felice di conoscerti.” Si sorrisero.
“Sì, dobbiamo trovarti un nome più
umano.”
“Sarebbe bello.”
Rimasero in silenzio, poi la donna
alzò la mano verso i comunicatori.
“Posso sapere come si chiama questa…”
“Musica. Si chiama musica, questa in
particolare è stata scritta da Chopin nel 1829 sulla Terra.” Spiegò.
“Terra.” Mormorò la donna. “Casa.”
Comprese, con un sussulto di evidente dolore.
Abbi le prese la mano stringendola.
“Lo so che sei appena arrivata dalla
mia cupola di incubazione, so quanto ti ci è voluto per arrivare qui, visto che
ho percorso lo stesso tragitto per fuggire da te e da quello che avevo quasi
fatto, ma…”
“Sì.” La interruppe lei, fissando gli
occhi nei suoi. “Portami a vedere le stelle.”
Note: il Nocturne op.9 No.2 di Chopin è la musica che viene usata da Abbi nella sua “arma”.
Se volete
sentirla eccovi il link: https://www.youtube.com/watch?v=9E6b3swbnWg
Questi invece sono i pacchetti che ho ricevuto.
Pace:
1. Il
protagonista ( o uno dei personaggi principali) verrà costretto/costringerà
qualcuno a fabbricare un’arma (qualsiasi tipo).
2. Nel
sistema solare, è assente qualcosa che segna la nostra quotidianità e
l’equilibrio è mantenuto per mezzo di … (libera scelta)
Ordine:
1. Il
protagonista ( o uno dei personaggi principali) è affetto da una malattia
mentale.
2.
“L'universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non a una
grande macchina.”
- SIR JAMES
HOPWOOD JEANS
Jolly:
“La storia è fantascientifica, futuristica, la Terra non esiste più e i personaggi girano liberamente per l'Universo da loro conosciuto.”