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Autore: BrizMariluna    21/10/2018    3 recensioni
Questa storiella racconta di come un evento, naturale e normalissimo nella storia del mondo e dell'umanità, possa sconvolgere la vita di una coppia. Una qualsiasi.
Avrei potuto usare chiunque, di qualunque anime, di qualunque libro o film famosi... ma ho deciso di far vivere questa esperienza a qualcuno a cui sono affezionata, ripescando dai miei ricordi, (e non solo) di questo evento, avvenuto ormai parecchi anni fa...
Potremmo dire che è uno spin-off della mia long, "Il Drago e il Leone", alla quale contiene riferimenti.
Idealmente, va a posizionarsi tra l'ultimo capitolo e l'epilogo di quest'ultima. Ma penso che non sia strettamente necessario averla letta, per seguire questa trama. Va beh, fate voi... ;)
E i protagonisti sono Sakon Gen e Jamilah Nyong'o, l'altra OC che ho creato per la long.
Strano, eh? (Praticamente l'ho scritta solo per te, Morghana! Bacioni!!!! :******)
[Storia in fase di revisione]
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Gaiking secondo me'
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*2* 
IL FIGLIO DI MARTE
 
 
Sakon Gen entrò nell’ascensore che lo avrebbe portato al piano del reparto maternità; non vedeva sua moglie e la loro prole solo da sei ore, eppure gli sembravano secoli.
Era mezzogiorno: tra una cosa e l’altra aveva dormito solo quattro ore, e solamente perché Jamilah glielo aveva praticamente imposto.
La sua mente non poteva fare a meno di rivivere all’infinito i momenti successivi alla nascita di quella nuova vita che loro stessi avevano concepito: quando aveva udito quel primo pianto, improvviso e liberatorio, aveva sentito lui stesso gli occhi pungere pericolosamente e il cuore battergli impazzito in gola. Non era arrivato a porre la prima domanda, che Azumi già gli aveva risposto:
 − È un maschietto!
Sakon e Jamilah avevano aspettato, impazienti, che l’ostetrica e la puericultrice ripulissero sommariamente il neonato dal sangue e dal muco, mentre contemporaneamente rispondevano ai loro scontati e sciocchi quesiti, uno sconclusionato tripudio di: “Sta bene?”, “È normale?”, “Ha tutto?”.
Poi Azumi aveva posto a Sakon una domanda che lo aveva spiazzato: 
− Papà, vuole tagliare lei il cordone ombelicale?
Jami lo aveva squadrato con uno sguardo sfinito ma divertito, poiché lui si era sentito all’improvviso defluire il sangue dal volto.
− Direi di no – lo aveva anticipato la moglie – Fate voi, è meglio; credetemi sulla parola. 
Sakon, già sul punto di svenire davvero solo al pensiero, aveva tirato un sospiro di sollievo e aveva guardato, grato, la sua Jamilah.
E poi avevano posto il bimbo, che non aveva smesso un attimo di strillare, sulla pancia nuda di Jamilah, prima di coprirli entrambi con un telo sterile verde.
Quel contatto, pelle contro pelle con la propria mamma, e il battito rassicurante e famigliare del suo cuore, che lo aveva accompagnato incessante per quei quasi nove mesi di vita intrauterina, avevano calmato di botto il nuovo arrivato, che aveva smesso subito di piangere.
Così, la coppia aveva avuto modo di godersi da vicino lo spettacolo di quella piccola vita appena giunta da questa parte. 
La perfezione… Sì, nient’altro che la perfezione assoluta, faceva mostra di sé: nelle manine dalle minuscole unghie; nelle ciglia sottili, lunghe e ricurve, che ombreggiavano un paio di guancette poco più chiare del cioccolato al latte; nei capelli scuri, incredibilmente folti e lunghi, fini e sfilati intorno alla fronte e davanti alle orecchie piccine.
− Jami, hai fatto un capolavoro – aveva sussurrato il neo-papà commosso, la voce non del tutto ferma.
− E io che l’ho persino chiamato mostriciattolo! Perdonami, cucciolo… − disse la mamma, facendo pensare a Sakon che la coerenza, in quei momenti, fosse proprio andata a farsi benedire – E comunque… lo abbiamo fatto insieme, direi, questo capolavoro – aveva risposto, con un sorriso stanco e felice, una luce nuova e dolcissima negli occhi color acquamarina.
− Oh, taci… Sei stata bravissima. In fondo, a me, è toccata solo la parte piacevole.
− Beh, direi che è stata fondamentale, visto che è stupendo. Non credevo che un bambino appena nato potesse essere tanto bello: mi aspettavo uno gnometto grinzoso e cianotico e invece… – aveva ridacchiato Jami, parlando sottovoce − Avevi mai visto un neonato con così tanti capelli? Sono neri corvini, come i tuoi… ed è uguale a te anche nei lineamenti, per quel po’ che si capisce… Se lo avessi fatto da solo, non ti somiglierebbe di più. 
Fatto da solo fu un’espressione che non gli piacque per niente, dopo ciò a cui aveva appena assistito, ma che lo fece anche sorridere.
− È troppo piccolo, amore. Chissà quanto cambierà ancora, crescendo. 
− Come si chiama questo bambino? – aveva chiesto il dottor Ikeda, pronto a redigere il certificato di nascita.
I due erano rimasti interdetti per un attimo: non si erano mai soffermati più di tanto sugli eventuali nomi del bimbo, convinti che la scelta definitiva sarebbe venuta spontanea una volta che lo avessero visto in volto.
− Scegli tu, tesoro – aveva detto Sakon. 
Jami aveva sorriso appena: conosceva abbastanza bene Sakon per sapere che in quel momento, vedendola così stanca e provata, le avrebbe concesso qualunque cosa. Era sicura che se avesse detto: “Voglio chiamarlo Vercingetorige, probabilmente, con la sua flemma olimpica, le avrebbe risposto: “Amore mio, è perfetto!”
− Posso pensarci qualche minuto ancora? – aveva chiesto allora, a voce bassa. 
− Certo, ma non di più, poi devo registrare il certificato – aveva risposto il medico con un tono che sembrava dire: “Ma guarda questi, in nove mesi non hanno nemmeno deciso che nome dare al loro primogenito!”
− Dio, che meraviglia… − era sfuggito ancora a Jamilah, ormai rilassata dal fatto di non sentire più dolori, e che fosse tutto finito.
Anzi… cominciato
− È stupendo… Il figlio di Marte… − soggiunse poi. 
− Ahem… di Marte? E io che credevo fosse mio figlio… − aveva precisato Sakon, fingendosi deluso.
Jami lo aveva guardato preoccupata, pensando di aver proferito l’ennesima scemenza, e aveva poi sorriso, vedendo invece l’espressione scherzosa di suo marito: un sorriso complice, che apparteneva a loro soltanto. 
E a quel punto, ecco l’illuminazione che stavano aspettando, data la simbiosi esistente tra loro che li aveva portati, già innumerevoli volte, a pensare insieme le stesse cose.
− Dottore, si chiama Martin – aveva decretato Sakon, sapendo di aver interpretato alla perfezione il pensiero della moglie.
− Sì − aveva approvato, infatti, Jamilah – Martin: dedicato a Marte. Ma non il dio della guerra: il pianeta. È lì, che la vita di nostro figlio ha avuto inizio… e anche la nostra insieme, in un certo senso. 
Il medico non aveva fatto domande: era abituato a parecchie stramberie dovute alla immediata condizione di padre e madre. 
Dopo alcuni minuti, e non prima di aver rassicurato i neo-genitori che i punteggi dell’Indice di Apgar1 fossero perfetti, la puericultrice aveva invitato Sakon ad andare con lei, per assistere al primo bagnetto di suo figlio.
Lui era sembrato restio ad abbandonare il fianco di Jamilah, ma lei lo aveva incoraggiato, sapendo che le sarebbe toccato l’ultimo sforzo che desiderava, invece, fosse risparmiato a lui: l’espulsione della placenta.
Infatti, dopo che Azumi si fu premurata di riferirgli che la placenta somigliava a un disgustoso e informe ammasso di scarti di bassa macelleria, la sola idea gli aveva dato uno spiacevole brivido lungo la schiena, una contrazione allo stomaco e un’altra mancata affluenza di sangue al volto…
Naahhh! Molto meglio il bagnetto del bimbo, senz’altro! Molto saggia, la sua Jami: mica per niente, si era innamorato di lei! Così, mentre lei aveva affrontato la restante prova e ricevuto le ultime cure, lui si era goduto l’inizio della vita di suo figlio.
E l’ennesima, meravigliosa emozione di quella giornata, era stata quando la puericultrice, una volta lavato e vestito il pupo sotto ai suoi occhi ancora increduli, glielo aveva posto tra le braccia. Gli sfuggì un sorriso: i capelli nerissimi, ora puliti e asciutti, gli stavano dritti sparati sulla testolina.
Tre chili e ottocentocinquanta grammi di innocenza, perfezione e purezza.
 
My-son  

Se non che, l’innocenza, la perfezione e la purezza, si erano risvegliate di colpo, strillando come un’aquila, anzi, tre: una tonalità diversa per ogni peculiarità!
E quando lui aveva avvicinato il dorso delle dita alla guancetta paffuta per accarezzargliela, nella speranza di calmarlo, il piccolo aveva afferrato tra le labbra la punta del suo mignolo e… aveva cominciato a succhiare, lasciandolo basito per la centesima volta in pochi minuti. 
− Eh, ma è affamato come un lupacchiotto! – aveva esclamato la puericultrice, dal canto suo per niente sorpresa – Bisogna tornare dalla sua mamma, e dargli quello che chiede – aveva concluso con semplice pragmatismo.
Nel giro di pochi minuti erano stati accompagnati tutti e tre in una stanza di degenza singola e, a un’ora scarsa dalla nascita, il piccolo aveva cercato il seno della mamma con un istinto infallibile! Sia Jami che Sakon sapevano che il latte vero e proprio non c’era ancora, ma il ricco e sostanzioso colostro era l’alimento perfetto per quel momento: un concentrato carico di anticorpi che avrebbero protetto il bambino e aumentato le sue ancor giovani difese immunitarie. 
Sakon, seduto sul letto con Jami appoggiata a lui, che teneva il bimbo in braccio, si era beato della vista di quella piccola bocca che, con brevi movimenti precisi e cadenzati, suggeva il prezioso nutrimento.
Come diavolo facevano quei piccoli esseri, niente più che progetti di futuri uomini o donne, a sapere cosa dovessero fare? La natura era davvero qualcosa di assolutamente, meravigliosamente, inconfutabilmente perfetto! 
− Più lo guardo… e più mi sembra bello – aveva sussurrato Jami – Ci pensi? Questo bambino, oltre ad essere stato concepito su Marte, racchiude in sé un po’ di Africa e di Australia, da parte mia; e un po’ di Giappone e Nuova Zelanda, da parte tua. E… resto dell’idea che di me… abbia solo il colore scuro della pelle – aveva concluso, con un tono che a Sakon era parso vagamente sconsolato.
A quel punto il piccino aveva smesso di succhiare e si era prodotto in un ridicolissimo sbadiglio, tutto gengive sdentate, sopracciglia contratte e pugnetti serrati, poi, con loro sorpresa, aveva sollevato le palpebre e li aveva fissati entrambi.
Sicuramente lui non poteva vederli ancora bene, ma loro, per la prima volta, si erano trovati a specchiarsi negli occhi del loro bambino: quegli occhi che, spalancati e dalle sottili e lunghissime ciglia spiccavano – dello stesso colore delle Nemophile blu che si apprestavano a fiorire in quel periodo – contro la carnagione scura, di un azzurro tanto intenso da far male allo sguardo… 2
− Avevi detto...? – era riuscito ad articolare Sakon, commosso di fronte a quello spettacolo e all’espressione esterrefatta di Jamilah.
− Beh, questi occhi, decisamente, non li ha presi da te… − fu costretta ad ammettere, felice.
− Davvero? E da chi li ha presi, dal postino? O forse devo prendere a pugni Pete, appena lo vedo? – scherzò Sakon.
− Scemo! La smetti di mettere in dubbio la mia fedeltà? – aveva riso lei, prima di lasciarsi sfuggire a sua volta uno sbadiglio.
− Credo sia ora che tu riposi un po’ – le aveva detto dolcemente, sfiorandole con un bacio la fronte, sulla quale la medicazione alla lieve ferita era stata sostituita con un cerotto meno ingombrante. 
− Anche tu: vai a casa, al Faro, okay? Avverti gli altri e i nostri genitori, fai una doccia, e dormi qualche ora. Noi non abbiamo bisogno di niente, qui, siamo in buone mani.
Sakon aveva pensato che, in realtà, fosse lui ad aver bisogno di loro, ma poi non aveva potuto fare a meno di concordare: avevano ambedue bisogno di dormire un po’. Le aveva dato un altro bacio sulla guancia e l’aveva rassicurata che, appena lei e Martin si fossero addormentati, sarebbe tornato al Centro.
− Mmm… Sakon… − aveva mormorato Jamilah, appoggiata al suo torace, prima di cominciare a scivolare nel sonno, contro il quale anche il piccolo Martin combatteva già da diversi minuti.
− Sì?
− Fatti anche la barba, pungi…
Sakon aveva sorriso: effettivamente aveva il mento e le guance ispide. Non era da lui tralasciare cose del genere, ma si sentiva più che giustificato: in quelle ultime ore era stato in altre faccende affaccendato.
Si era scostato, aiutando poi la moglie ad adagiarsi sui comodi cuscini, lasciandole il loro piccolo tra le braccia, finché non furono profondamente addormentati.
A quel punto aveva spostato leggermente Martin – che aveva ancora la guanciotta posata sul petto della mamma – in una posizione che fosse più comoda per entrambi, per poi soffermarsi a riaccostare, con un gesto tenero e un po’ pudico, i lembi della camicia da notte di Jami, che erano rimasti un po’ aperti sul seno, prosperoso e florido come non era mai stato prima.
Per parecchi minuti non era riuscito a staccare gli occhi da quella scena, che incuteva in lui un sentimento simile alla devozione: Jami era bella come una Madonna nera, con il suo bambino dormiente tra le braccia.
Alla fine era riuscito ad andarsene, ma solo dopo essersi riempito − dell’immagine della sua donna e di suo figlio − gli occhi, la mente e il cuore, fin quasi a scoppiarne.
 
 
E ora, mentre raggiungeva di nuovo il reparto maternità dopo poche ore di sonno, non si poteva dire che fosse particolarmente riposato, ma il pensiero di rivedere Jamilah e Martin gli mise le ali ai piedi.
Si stupì, dovette ammetterlo, di trovarla che passeggiava su e giù per il corridoio, cullando il piccino e sussurrandogli parole tenere e sciocche. Lei gli sorrise, quando lo vide arrivare, ma qualcosa lo lasciò per un attimo perplesso; si avvicinò, quasi circospetto.
Jamilah aveva i riccioli lucidi e vaporosi, una camicia da notte diversa, sotto alla leggera vestaglia color lavanda e, avvicinandosi a lei, avvertì un buon profumo di sapone e shampoo. L’infermiera di turno in quelle ore l’aveva sicuramente aiutata a lavarsi e lui poteva solo immaginare il sollievo che doveva averle dato l’acqua calda, scivolando sul suo corpo, dopo tutto quel dolore, quella tensione e quella fatica.
− Sei già in piedi… ma hai riposato, un po’?
− Sakon, ho partorito, non sono mica ammalata.
Nel tono di voce era vibrata una nota d’impazienza che lo stupì ulteriormente, come se volesse convincere più sé stessa, che lui. Martin dormiva tranquillo tra le braccia della ragazza e lei glielo porse.
Quanto ci sarebbe voluto ancora, per riuscire a prendere in braccio suo figlio senza la paura di romperlo? Sakon se lo chiese, reggendo il piccolo contro di sé, cercando poi di nuovo lo sguardo di Jamilah, la quale si strinse la vestaglia sul seno come se volesse coprirsi, cosa della quale non c’era alcun bisogno: Jami era più che presentabile, soprattutto dopo la doccia e date le circostanze.
Rimase un attimo interdetto… Non che Jami fosse una a cui piacesse ostentare le proprie grazie, ma era la classica persona che si era sempre sentita a proprio agio con il suo corpo; quel gesto era strano, non era molto da lei…
La sua innata sensibilità portò Sakon a farsi un’idea del problema; andò ad adagiare Martin nella culla e si rivolse alla moglie, che lo aveva raggiunto davanti alla luminosa finestra della stanza.
La prese tra le braccia, sentendo in lei una specie di resistenza, una rigidità nella postura che non le apparteneva; non quando lui la abbracciava, per lo meno. Che davvero c’entrassero qualcosa, tutte le assurdità che gli aveva sparato contro nei lunghi momenti in cui era stata in preda alle doglie lancinanti del parto?
− Non vuoi che ti abbracci, vero? – le chiese, scostandosi di poco da lei.
− Sono brutta… − sussurrò Jami, afferrandosi le braccia e incrociandole sul petto.
Altro momento di stupore: tutto si sarebbe aspettato, Sakon, ma non questa uscita.
− Sei brutta? Ma da quando? Io non me ne sono mai accorto! – rispose lui, sbalordito, cercando di sdrammatizzare.
− Prof, guardami! Ho avuto il bambino, ma ho ancora una pancia mostruosa! Sembro una… Venere del Paleolitico, quelle orripilanti statuette preistoriche che, a dispetto del nome, erano grasse e tettone!
Sakon spalancò gli occhi: lo aveva chiamato Prof! La situazione era più grave di quanto pensasse! La guardò stranito, cominciando a comprendere.
− Guardami tu, Jami! – esclamò perentorio, ma prendendole il volto tra le mani con dolcezza.
Jamilah obbedì, perdendosi negli occhi scuri del suo compagno.
− A parte che tu non somigli nemmeno da lontano, ad una di quelle orrende statuine che hai nominato, hai partorito solo da poche ore! Pretendevi che la tua pancia tornasse esattamente com’era in così poco tempo? Abbi un po’ di pazienza… a me sembri già tornata quasi come prima, dove la vedi la mostruosità?
− Ah, taci… Sarò già contenta se ci tornerà un giorno, come prima, ma non ci conto! E poi… ho le occhiaie… Se già questa è la partenza, come la metteremo, quando avrò ore di sonno arretrato, perché Martin piangerà di notte? Metterò insieme due occhi pesti da malavita, da sembrare un boss mafioso!
− Ti aiuterò, Jami, non dovrai fare tutto da sola! Che ci sto a fare, io, se no?
− Certo, così sembreremo due, boss mafiosi! Tu già hai una faccia stropicciata che è tutta un programma! Hai dormito un po’, almeno? – lo rimproverò.
− Sì, e mi sono anche fatto la doccia e la barba, visto? – le disse prendendole una mano e posandosela su una guancia liscia e ben rasata.
− Al diavolo, la verità è che anche con la faccia stanca sei sempre così bello! Invece io… guarda! Ho due… airbag, qui davanti che… argh! E non oso pensare cosa succederà entro ventiquattr’ore, quando arriverà la montata lattea! Sembrerò… una mucca!
− Jami, amore mio – spiegò Sakon, paziente, ma anche vagamente divertito da tutte quelle pur comprensibili paranoie, dopo averle lasciato un bacio sul palmo della mano − il tuo corpo non ha fatto altro che cambiare, ogni giorno, in questi ultimi nove mesi. L’ho visto cambiare attraverso i miei occhi, l’ho sentito cambiare sotto le mie mani… e non è stato mai per diventare qualcosa di più brutto.
− Cosa vorresti dire, che prima avevo le tette troppo piccole? Eh? Avanti, dillo! Se dopo torneranno come prima, non ti piacerò più?
− Certo che mi piacerai! Moltissimo! Ma che cosa…
− E allora adesso sono troppo grosse? – lo interruppe lei − Mi vedi solo come una mamma che deve nutrire il proprio figlio?
Sakon alzò gli occhi al cielo, un po’ esasperato: sarebbe riuscito a dirne una giusta, prima di sera, o le cose sarebbero andate avanti così per una vita? Questa era una cosa che non si era proprio aspettato!
− Jami, dopo solo due settimane di gravidanza il tuo seno era già… diverso. Era diverso da com’era quando l’ho… ehm… visto la prima volta; ed era diverso da ora. E trovo che sia stato, e sia, e sarà, bellissimo sempre, in ogni momento della tua vita, per il semplice motivo che è il tuo seno. Tu, sei bellissima, Jami, e… mi sembra anche di avertelo sempre dimostrato, in tanti modi. Ti ricordi quando è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore, sì? – soggiunse concludendo, con aria vagamente maliziosa.
− La settimana scorsa… − ammise lei.
− Esattamente: solo pochi giorni fa. E mi è piaciuto moltissimo, anche con il tuo pancione, proprio come mi è piaciuto ingegnarci, diciamo così, in questi ultimi mesi, per via della tua pancia che cresceva. Perché mi piaci tu; perché sei l’amore della mia vita.
− Dici sul serio? Non sono diventata solo la… madre di tuo figlio? – chiese lei incerta.
− Essere la madre di nostro figlio – e calcò volontariamente su quel nostro − è soltanto qualcosa in più, che tu sei diventata, nel corso della tua vita di donna. Ti amo per tutto quello sei sempre stata prima, e ora ti amo ancora di più, perché sei anche questo. Essere la mamma di Martin… è solo un valore aggiunto, a tutto quello che già sei per me!
Gli occhi di Jami si riempirono di lacrime, provocate dal sollievo che quelle parole le diedero. Sakon la strinse a sé, accarezzando dolcemente le morbide curve della schiena e dei fianchi di sua moglie, cominciando a capire cosa avesse provocato quella specie di attacco di disistima nell’animo di Jami.
− Jami, pensi davvero che ti amerei di meno per qualche chilo in più, un pancino un po’ arrotondato o qualche segno di stanchezza sotto gli occhi?
− Scusami… Ho avuto paura per un po’ di… non essere più io e… di non piacerti più.
− Tesoro, credimi, so che ci vorranno diverse settimane prima che il tuo corpo ricominci a gradire certe attenzioni e si riabitui a certe sensazioni, ma questo non significa che io non ti ami o non ti desideri più. Anzi…
− Cosa vuol dire quell’anzi? – fece lei, sollevando un sopracciglio.
− Secondo te? – scherzò Sakon, sfiorandole appena la florida rotondità di un seno.
− Piantala! Sono una mamma, non puoi farmi certe avances! – esclamò lei, senza riuscire a trattenere una risata.
− Jami, oggi hai davvero la coerenza fatti in là, in modalità attiva, te ne sei accorta?
− Sì, e mi va bene così! E senti… giusto per saltare di palo in frasca: ti va di baciarmi? Come si deve, intendo, non stupidi bacetti sulla fronte o sulle mani…
− Questo significa che non devo starti a due metri di distanza?
− Allontanati da me e ti fulmino, professor Gen…
− Appunto, la coerenza… – disse Sakon sottovoce, attirandole il volto verso il suo.
Il loro primo bacio da genitori fu un dolce balsamo sulla provata autostima di Jami. Il tocco delle labbra di Sakon fu la più convincente delle prove, su quanto ancora lui la considerasse bella e attraente.
Si abbandonò tra le sue braccia, con la felicità che le sprizzava da tutti i pori, sentendo le sue mani percorrerle la linea sinuosa della schiena. Gli accarezzò i capelli neri, e assaporò fino all’ultima stilla la dolcezza di quel bacio e la tenera sensualità che emanava dalle loro bocche incollate e morbidamente dischiuse.
Certo, ci sarebbe voluto almeno un mese, per procedere con approcci più passionali, ma Jamilah si sentì finalmente sicura che, in quell’arco di tempo, lei e suo marito avrebbero trovato più di un modo, per dimostrarsi tutta la profondità del sentimento che li legava.
− Toc toc! È permesso?
− Dottor Daimonji! – esclamò Jamilah, staccandosi imbarazzata dalle labbra di Sakon.
− Ops! Scusatemi, chiedo perdono, non pensavo di interrompere qualcosa!
− Non fa niente, Doc. Lei è sempre il benvenuto, lo sa…
L’anziano scienziato si avvicinò ai due giovani e abbracciò paternamente Jamilah, dicendole quanto la trovasse raggiante; cosa che, all’insaputa del dottore, le diede un’altra carica di sicurezza in sé stessa circa il proprio aspetto fisico.
− Non vorrei essere arrivato troppo presto, forse volevi riposare un altro po’…
− In realtà, Doc, ho scoperto di non riuscire a dormire per più di un’ora di fila: mi sembra tempo perso; tempo in cui non posso guardare il mio bambino…
Sakon non si stupì particolarmente: erano gli stessi pensieri che avevano impedito a lui di dormire più di tanto, quelle poche ore in cui era tornato al Faro.
A quel punto, Daimonji gli diede una pacca sulla spalla e una specie di schiaffetto amichevole su una guancia, riscuotendolo dai suoi pensieri.
− Che ti succede, ragazzo? Hai l’aria sciupata. Mi risulta che sia tua moglie quella che ha partorito, non tu…
− Non ne parliamo, la prego – fu la risposta stanca, ma dal tono leggero, di Sakon – venga qui, piuttosto.
Sakon si diresse alla culla e prese in braccio il suo bambino che, in fase di risveglio, aveva cominciato ad agitarsi.
− Vieni, piccolo. Vieni a conoscere nonno Yozo.
Gli era venuto spontaneo, ma per un attimo arrossì, rendendosi conto di non aver mai chiamato il dottor Daimonji per nome, prima di quel momento.
− F… forse ho esagerato un po’, mi scusi – mormorò, lievemente a disagio.
− Esagerato con cosa, di grazia? È il mio nome, no? Allora, posso prendere in braccio il mio primo nipotino? A proposito, si chiama Martin, vero? – chiese il dottore, con la massima disinvoltura.
Disinvoltura che si involò allegramente dalla finestra, quando Sakon gli pose tra le braccia il piccino.
− Ecco, accidenti! – brontolò Daimonji all’indirizzo di una lacrima che andava a perdersi nella barba scura – Adesso spiegatemelo voi, come sia possibile che io mi senta davvero nonno, senza essere mai stato padre!
− Non c’è niente da spiegare, Doc – disse Sakon, che sul dottore aveva riversato buona parte dell’affetto filiale che aveva provato per il suo defunto genitore – Lei è stato, ed è, per ognuno di noi del Drago Spaziale, molto più padre di quanto possa immaginare.
− Ti diverti proprio a far commuovere un povero vecchio, eh, Sakon?
− Scusi, di chi sta parlando? Perché mi creda, lei è tutto fuorché un povero vecchio! – concluse il giovane, soffocando una risata e uscendo in corridoio, attirato dal rumore di passi unito all’inconfondibile voce di Fabrizia che, pur sommessa − consapevole di trovarsi in un ospedale − parlava con Pete; i due avanzavano verso di lui, parlandosi a bassa voce e tenendosi per mano.
L’ingegnere si prese un bacione sulla guancia dall’esuberante amica italiana e un breve e amichevole abbraccio dal compagno di avventure, i quali gli dissero che, nel giro di un’oretta, anche Sanshiro e Midori sarebbero venuti a vedere il bimbo e a salutarli, e che anche gli altri compagni di equipaggio si sarebbero fatti vivi entro sera, ma un po’ alla spicciolata per non creare troppo caos. Era vero che il reparto maternità di un ospedale era sicuramente il più allegro, ma a tutto c’era un limite.
Quando Sakon vide Fabrizia dirigersi spedita nella stanza di Jami, la fermò prontamente.
− Briz, ascoltami, devo dirvi una cosa: Jami ha patito le pene dell’inferno, durante il travaglio e il parto e… ecco, non fateci troppo caso se vi dirà certe cose, okay?
− Tipo…? – si informò la ragazza.
− Beh, cercherà sicuramente di dissuadervi dal fare bambini. Pete, vi dirà cose strane! Del genere: “Stai lontano da Briz se non hai prima preso provvedimenti” oppure “Briz, non concederti se non sei protetta!” Potrebbe persino dirvi di… non so… darvi all’astinenza. Insomma, sorvolate e capitela, in questo momento il discorso fare figli è un po’ faticoso per lei. Okay? Insomma, si sta facendo paranoie inesistenti e dice cose incoerenti, ma credo sia abbastanza normale, dopo quello che ha passato.
− Va bene, tranquillo, fratellone – lo rassicurò Briz comprensiva, battendogli amichevolmente una mano sulla spalla e andando dall’amica.
La voce di una Briz entusiasta si fece sentire dopo pochi secondi:
− Oh, mio Dio, ma la meraviglia! Martin, amore bello, vieni dalla zia!
Pete non riuscì a resistere e si affacciò alla stanza, affiancato da Sakon, per poter vedere la sua fidanzata con il nipotino in braccio.
Quella piccola folle aveva risvegliato in lui istinti che non avrebbe mai creduto di avere; era vero che voleva averla tutta per sé ancora per un po’, dopotutto lui aveva solo ventisette anni e Briz non aveva ancora compiuto i ventitré, avevano tempo… ma sapeva che nel giro di altri tre o quattro anni al massimo, ci sarebbero cascati anche loro.
L’immagine di Fabrizia con Martin fra le braccia gli smosse qualcosa dentro, che gli fece battere forte il cuore. Sorrise, guardando Sakon che si avvicinava all’amica e accarezzava teneramente il figlio sui sottili capelli dritti e scuri e pensò che la vita sapesse essere davvero bellissima, quando ci si metteva.
Fabrizia lo raggiunse e gli mise il bambino in braccio: Pete si stupì della naturalezza con cui accolse quel gesto.
− Ehi, piccoletto… Sai che sei davvero stupendo, per avere solo poche ore di vita?
− Devo dire che abbiamo lavorato bene – disse la voce orgogliosa di Jamilah, che si avvicinò − Ti dona, un bimbo fra le braccia, Capitano Richardson… oh, pardon, volevo dire Maggiore… E allora? Quando ne fate uno anche voi due?
Jamilah si guadagnò una manciata di occhiate che definire allibite sarebbe stato riduttivo.
− Beh? Che ho detto? – chiese la ragazza candidamente, avvicinandosi a Fabrizia e prendendola sottobraccio, aggiungendo poi, ignorando tutti gli altri − Briz, tesoro, è una delle cose più belle che noi donne possiamo fare! Non rinunciare mai al tuo sogno di diventare mamma!
Pete sollevò un sopracciglio e guardò ironico il suo amico ingegnere.
− Dunque... sull’incoerenza… Dicevi?
 
 
> Continua…
 

1 L'indice di Apgar prende il nome da Virginia  Apgar, un’anestesista statunitense che lo ideò nel 1952, ed è il risultato derivante da alcuni controlli effettuati immediatamente dopo il parto e finalizzati, in modo molto rapido, a valutare l'adattamento del neonato alla vita extrauterina, ovvero la vitalità e l'efficienza delle funzioni vitali primarie.

2 Lo so che i bambini appena nati hanno praticamente, sempre, gli occhi chiari. Ma qui avevo bisogno che apparisse palese, da subito, che Martin ha gli occhi di sua madre… come le Nemophile blu, dette anche Baby blue eyes.
  
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