TORNARE
A
BERLINO
I personaggi della
saga di BERLIN sono di proprietà di Fabio Geda e Marco
Magnone e l’opera, di
mia invenzione, è stata scritta senza scopo di lucro.
PROLOGO
9
agosto 1981
Wolfrun danzava
sulla spiaggia e Jakob la osservava da lontano. Lo faceva tutte le sere
d’estate. Poi lei si sarebbe spogliata dal vestito leggero e
si sarebbe tuffata
nell’acqua. Lui sospirò. La caletta era
praticamente nascosta e la si poteva
vedere solo dalla collina dove si trovava il ragazzo.
Gli piaceva andare
lassù, dove non si avventurava mai nessuno, quando aveva
voglia di pensare. E
l’anno prima aveva scoperto Wolfrun su quella spiaggia, a
ballare. Ormai erano quasi
tre anni che abitavano lì, sull’isola greca. Con
suo padre ed Eleni. Con Anneke
e Clara, la loro bambina, sua sorella.
Anche se, ogni
tanto, a Jakob mancava Berlino. Ci tornava quando Alexis partiva col
Pegaso e
lo lasciava nella sua vecchia città per qualche giorno,
riportandolo a casa
quando tornava indietro.
Il giorno dopo Jakob
avrebbe compiuto diciotto anni. Quando era arrivato
sull’isola con suo padre,
Wolfrun e Anneke, i ricercatori erano riusciti a sintetizzare
l’antidoto per il
virus creato da Andreas e avevano iniziato a distribuirlo. Erano
tornati a
Berlino e avevano iniziato anche lì la vaccinazione. Nessuno
si era più
ammalato.
Poi lo avevano
distribuito anche in altri luoghi. Presto il virus non fu
più un problema, ma
la ripresa di tutto il resto era stata lenta.
Sull’isola loro
erano fortunati, non mancava niente. Ma a Berlino avevano dovuto
ricostruire
tutto. Qualche adulto era tornato: qualcuno di Atlantis, qualcuno che
si era nascosto;
ma era stato l’impegno dei ragazzi a salvare la
città.
Poi erano arrivati
gli altri: i militari. Gli inglesi, gli americani, i russi.
Quando il vestito di
Wolfrun volò sulla spiaggia e lei si tuffò nel
mare, Jakob riprese il sentiero
e tornò indietro. Era troppo lontano per vedere qualsiasi
cosa, ma la sua mente
riusciva benissimo a riempire quei vuoti. La pelle della ragazza era
appena
dorata in quanto, essendo di carnagione chiara, il sole non la faceva
diventare
scura come succedeva alle altre ragazze dell’isola e lui lo
sapeva bene.
Sospirò ancora. Il
suo corpo non era più spigoloso come quando erano scesi dal
Pegaso, ma si era
riempito nei punti giusti. Le sue gambe si erano allungate e lei era
cresciuta
anche se era comunque più bassa di lui. E sorrideva. Wolfrun
sorrideva.
A Jakob piaceva
quando lo faceva. La guardava di nascosto e fingeva che sorridesse per
lui. Il
suo primo sorriso, Jakob lo ricordava ancora, era comparso sul suo viso
quando
suo padre le aveva chiesto se volesse vivere con loro.
Avevano costruito
una casa vicino alla spiaggia e una stanza era stata dedicata a lei e
Anneke.
Sembrava che Wolfrun
avesse fatto pace con il mondo, e iniziato a vivere davvero.
Rientrò in casa con
il buio. “Sei da solo?” Eleni, con sguardo stanco,
stava sistemando la cucina.
Annuì. La donna guardò verso la porta
d’ingresso, come se aspettasse qualcuno.
Suo padre entrò nel salottino mettendosi un dito sulle labbra.
“Le bambine dormono”
sussurrò, come se fosse un segreto.
“Anche Anneke?”
chiese Eleni. Sebastian annuì, si avvicinò a lei
e le accarezzò la pancia,
appena accentuata.
“Ti serve una mano?”
Eleni scosse la testa e gli fece cenno di sedersi.
“Dov’è Wolfrun?” chiese
suo padre. Jakob scosse le spalle, nessuno sapeva che lei fosse alla
caletta.
Né che lui lo sapesse. Sebastian lanciò uno
sguardo alla moglie e lei fece
un’espressione strana. Il ragazzo seguì tutto.
“Cosa c’è? È successo
qualcosa?” Jakob era più curioso che preoccupato:
in fin dei conti l’aveva
appena vista.
Eleni alzò le spalle
e suo padre sospirò. “Hai presente Georgos? Del
nord di Lemnos?” Jakob annuì
distrattamente alle parole del padre, con un brutto presentimento.
Sebastian
sospirò.
“Sembra abbia
intenzioni serie.”
Qualcosa si incrinò
dentro di lui.
***
Wolfrun si sentiva
benissimo. Era buio e si stava incamminando verso casa. Casa. Non
sapeva
l’ultima volta che aveva definito casa
un luogo. Di sicuro non Tegel e probabilmente neanche Charlottenburg.
Casa era quella
costruzione poco più in là della spiaggia dove
viveva con Anneke e gli altri, dove
si addormentava felice, dove dava da mangiare alle galline, dove
spazzava il
pavimento e lavava i piatti. Oh, se lo avessero saputo i ragazzi di
Tegel! O i
suoi genitori…
Senza accorgersene
alzò gli occhi al cielo. Mamma e papà...
Dorothea… Sospirò.
Non lo avrebbe mai
detto, ma non avrebbe lasciato quel posto per nessuna promessa di
felicità. E, forse,
per nessuna certezza.
E poi lì c’era
Jakob, Jakob che l’aveva salvata. Tutte le volte.
La prima volta
fisicamente, dal lago ghiacciato, insieme a Ziggy. Poi quando
l’aveva convinta
ad andare con Anneke dai ricercatori per studiare l’antidoto.
Aveva salvato
tutti, non solo lei. E quando le aveva detto che non poteva stare da
sola. Che
sarebbe diventata secca e vuota. Lui non poteva saperlo ma era stata la
volta
che l’aveva salvata davvero. Perché lei si sentiva
proprio così: secca e vuota
e da tanto tempo. Da quando era morta Dorothea, forse.
Aveva giocato contro
la morte in quella assurda battaglia contro se stessa, mettendo in
pericolo
anche gli altri.
Finché non aveva
rischiato davvero di morire, morire senza che potesse fare niente. E
perdere
un’altra cosa preziosa. Pensò ad Anneke. Se lei
fosse morta, quel Natale, chi
si sarebbe occupato di lei?
In soggiorno le luci
erano accese. Entrò in casa silenziosamente. Jakob e suo
padre stavano giocando
a carte ed Eleni, che le sorrise quando aprì la porta, era
seduta sul divano a
lavorare a maglia.
“Wolfrun, hai i
capelli bagnati?” Sebastian, il padre di Jakob, era
protettivo nei suoi
confronti come avrebbe dovuto esserlo suo padre. Lei sorrise e si
passò una
mano sui capelli.
“Appena un po’. Non
preoccuparti”. Salutò Eleni toccandole una spalla
affettuosamente e augurò la
buonanotte a tutti.
Passò
silenziosamente in camera dalle bambine e baciò Anneke sulla
testa. Si avvicinò
anche a Clara. Piccola, tenera e paffutella Clara. Si chinò
anche su di lei e
le baciò una guancia. Che bella sensazione i baci.
Quando si chiuse la
porta della sua stanza alle spalle, sospirò e si sedette sul
letto. Anneke le
mancava fisicamente, da due notti dormiva in camera con la piccola
Clara e a
lei sembrava di essere priva di un arto. Prima o poi doveva succedere,
lo
sapeva. Ma dopo tutto quel tempo che dormivano insieme…
Sospirò ancora e andò
alla finestra. Il cielo era limpido, scuro e bellissimo.
Qualcuno bussò alla
porta. Magari Eleni aveva bisogno di qualcosa. Ma quando
l'aprì si trovò
di fronte Jakob.
“Jakob! È
successo
qualcosa?” Il ragazzo dovette fare uno sforzo per parlare.
“No… Pensavo di
aspettare con te il nuovo giorno. Io…”
incominciò, ma lei non lo fece andare
avanti in quella brutta imitazione di conversazione.
“Vieni dentro”. Lei,
per fortuna, aprì di più la porta e si
spostò per farlo passare, comprensiva.
Il giorno dopo avrebbe
compiuto diciotto anni. Il compleanno del miracolo. Nessuno di loro
pensava di
raggiungere i diciotto anni e avevano iniziato a chiamare
così quel compleanno,
a Berlino. Lo avevano fatto per ogni diciottesimo: quello di Nora, di
Louis e degli
altri.
Sentirono Sebastian
ed Eleni andare a letto. Jakob voleva aspettare il nuovo giorno con
lei. La
stanza non era tanto ampia e il letto occupava quasi tutto lo spazio
essendo
così grande. Un piccolo armadio e una parte di specchio
sulla parete opposta -Eleni
aveva detto che una ragazza non poteva stare senza uno specchio,
mah...-, per
terra un tappeto colorato e vicino al letto un comodino, su cui
c’era un libro,
la torcia e una spazzola.
Jakob la guardò
passarsi una salvietta sui capelli umidi e allungarsi a prendere la
spazzola.
“Alexis passa da
Berlino, la settimana prossima” dichiarò Jakob,
notando distintamente quando
lei si irrigidì. La spazzola si fermò
nell’aria e lei sospirò silenziosamente.
Ma lui la conosceva bene e quando riprese a pettinarsi, notò
che lo fece con un
po’ troppo vigore.
Wolfrun non voleva
tornare a Berlino. Non ne aveva bisogno e non ci era più
andata. Non aveva
lasciato niente per cui valesse la pena tornare. Ma Wolfrun sapeva che
Jakob,
invece, aveva una questione in sospeso e ogni volta che Alexis passava
da Berlino,
lui tornava in Germania. Per lei. Per Christa.
Jakob aveva parlato
di Christa per tutti e tre i giorni del viaggio verso
l’isola, quando erano
arrivati. E poi ancora il giorno dopo e la settimana successiva. Era
stata una
mazzata, ascoltarlo. Noioso e borioso, come tutti i ragazzi di Gropius,
aveva
raccontato di come Christa avesse ucciso la pantera. O di come avesse
camminato
sui carboni ardenti -e Wolfrun c’era quando era successo, non
aveva bisogno di
sentirlo raccontare ancora!-
Christa, che li
aveva aiutati a cercare Andreas, che era coraggiosa, altruista e tutto
il resto…
All’inizio era stato
solo seccante, ma poi, quando Wolfrun aveva iniziato a guardare Jakob
con occhi
diversi, come lo guardavano le ragazze dell’isola, anche solo
sentirla nominare e
sapere che lui pensava ancora a lei, era diventato un veleno iniettato
in vena.
Ma Wolfrun se n’era
fatta una ragione. Davvero. Anche se, ogni volta che lui nominava
Berlino sentiva
morire un pezzo di sé, sapeva che le cose stavano
così e non poteva farci
niente. Però non riusciva a capire perché non
fossero tutti tornati là, a
Berlino, da Christa. Jakob, suo padre ed Eleni. Forse Eleni aveva
insistito per
tornare a casa sua, ma la ragazza ne dubitava. Eleni era una persona
molto
comprensiva.
“Quanto starai via?”
gli chiese alla fine, ma non riuscì a guardarlo e lo
spiò dallo specchio.
Jakob non era sicuro
che fosse il momento giusto. Ma se avesse aspettato il momento giusto,
non
l’avrebbe mai fatto.
“Perché… non vieni
anche tu?” propose. Lei si irrigidì ancora. Ma
questa volta fu molto più brava
a nasconderlo e a riprendersi.
”Non voglio tornare
a Berlino.”
Lui sospirò e chiese
ancora: “Non ti piacerebbe vedere com’è
adesso? Come sono sistemati gli altri?
Ciò che è stato ricostruito? Sai, al posto
di…”
Lei lo interruppe,
girandosi a guardarlo. “Non mi interessa sapere
com’è. O cosa fanno gli altri.
Sono amici tuoi, non miei”. Gli lanciò
un’occhiata delle sue e si rigirò verso
lo specchio.
Wolfrun non era il
tipo che si guardasse indietro. Lei andava avanti per la sua strada,
sempre.
Non aveva bisogno di confrontarsi continuamente con le cose vecchie. Un
po’,
Jakob, la invidiò.
Ma questa volta non
poteva lasciarla lì da sola. Da sola con Georgos. E se fosse
vero quello che
aveva detto suo padre? Se lui volesse davvero… Non riusciva
a crederci. Se lei
avesse scelto di sposare Georgos mentre lui non c’era?
Avrebbe potuto non
andare a Berlino, certo, ma si sentiva in colpa verso gli altri. Lui
lì con suo
padre e la sua famiglia e loro là, a ricostruire tutto.
Certo, non che loro ce
l’avessero con lui o qualcosa di simile, probabilmente era
solo un suo problema.
Jakob si sentiva fra due fuochi e non sapeva quale scegliere: Wolfrun,
la
ragazza che si era buttata nel fiume gelido per salvare Anneke o i suoi
amici a
Berlino?
Beh, ormai stavano
tutti bene. Tutto era tornato quasi alla normalità, sia a
Berlino che lì
sull’isola. Jakob si sentiva fortunatissimo, l’aver
scoperto che suo padre
fosse vivo, aver trovato l’antidoto al virus e vivere quella
nuova vita
sull’isola. Quella sua vita così felice.
Senza scordare lei:
Wolfrun. Quella Wolfrun così uguale e diversa da quella
conosciuta a Berlino.
Quella Wolfrun di cui gli altri ignoravano l’esistenza e che
lui invece
conosceva così bene. E la vedeva tutti i giorni, viveva con
lui, lì nella
stanza accanto alla sua.
All’inizio era stato
difficile, vivevano nell’albergo di Eleni e la ragazza era
sempre con i
ricercatori che studiavano Anneke. Era tornata cattiva, come a Berlino
durante
la battaglia di Natale. Riusciva sempre a criticare qualcosa o a
detestare
qualcos’altro. Jakob non capiva come facessero gli altri a
sopportarla. Erano
arrivati alle mani, più volte, nonostante lui cercasse
sempre di non infierire
su di lei, visto che era pur sempre una ragazza.
Poi, un giorno, uno
dei ricercatori spiegò a Jakob che Wolfrun non era cattiva,
era solo
spaventata; lui aveva iniziato a interpretare i suoi atteggiamenti
diversamente
e a comportarsi in maniera diversa. E lei era cambiata. Ai suoi occhi
aveva
iniziato a diventare maledettamente affascinante. Continuava a
chiedersi perché
non se ne fosse accorto prima.
Poi, piano piano,
man mano che i problemi si erano rimpiccioliti, lei si era riempita di
vita e
aveva iniziato a sorridere e non solo con Anneke. E ora era bellissima.
E non
era l’unico a essersene accorto, notò Jakob,
pensando a Georgos.
Ora aveva paura che
nel momento in cui fosse tornato, lei non ci sarebbe stata
più, magari si
sarebbe trasferita insieme all’idiota del nord e lui non se
lo sarebbe mai
perdonato. Doveva convincerla ad andare con lui.
“Quanto starai
via?”
richiese Wolfrun, prima di sedersi sul letto. Jakob si
avvicinò e le si sedette
di fianco.
“Non lo so…” La
ragazza annuì, pensierosa e lui continuò:
“Ascolta…”
“No. Non parliamo di
Berlino” lo liquidò lei. Non era pronta ad
affrontare l’argomento con lui. Il
ragazzo annuì e non disse niente. Wolfrun gli diede qualche
pacca sul
ginocchio, dicendo: “Bravo”, e Jakob le prese la
mano quando lei la tirò via.
Incuriosita, si voltò verso di lui.
Poteva chiederle di
non andare via con Georgos? Poteva chiederle di aspettarlo? Poteva
dirle quello
che sentiva? Poi il suo sguardo divenne triste, sussurrò:
“Non voglio parlarne…”,
e guardò verso la finestra. Ok. Non avrebbe parlato di
Berlino.
Sorrise al buio e le
raccontò di quello che aveva sentito al molo quella mattina.
Wolfrun ascoltava il
ragazzo rapita dalle sue parole, come al solito. Cercò di
non sembrare troppo
stupida, ma non riusciva a togliere gli occhi da lui, nonostante il
buio. Anzi,
per fortuna, che c’era buio! Così non se ne
sarebbe accorto. Ma il suo viso
nella penombra era affascinante, con quel misto di mistero e assoluto
carisma.
Oh, santo cielo.
Iniziava a essere come le altre. Quelle stupide oche che ronzavano
intorno ai
ragazzi. Pensava di essere fuori da quelle questioni, immune agli
ormoni, e
invece… Guardò verso la finestra per darsi un
po’ di contegno e Jakob seguì il
suo sguardo.
“Penso che sia
passata la mezzanotte. Come si dice? Tanti auguri?” disse e
gli diede un pugno
affettuoso sul braccio.
“Grazie. Ho una cosa
per te” rispose il ragazzo e le allungò qualcosa
che lei non riusciva a vedere
bene, nel buio della stanza. Le loro mani si toccarono quando lo prese.
Poi lui
si avvicinò al comodino e afferrò la torcia,
l’accese e lei riuscì a vedere
cosa le avesse dato: un cavallo. Un pezzo di legno, rettangolare,
scolpito a bassorilievo
con la testa di un cavallo. Ci passò le dita,
accarezzandolo.
“Cos’è?”
Oh che domanda
idiota!
Jakob sorrise
imbarazzato.
“Dovrebbe essere un
cavallo…” Non era molto bravo: Spyros gli stava
insegnando a intagliare il
legno, ma lui era alle prime armi, più che ramoscelli e
altre cose per
necessità non aveva mai intagliato niente. Mai fatto cose
artistiche.
Probabilmente era
stata una cattiva idea. Ma lei sorrise. Non si sarebbe mai abituato a
vederlo
succedere.
“Sì, sì, è un
cavallo si vede. Perché mi hai fatto un regalo? È
il tuo compleanno non il mio”.
Il ragazzo alzò le spalle.
“Volevo farlo”
rispose imbarazzato e guardò verso la finestra.
Wolfrun corrugò la
fronte. Non si erano mai scambiati regali. Lei odiava i regali, le
ricordavano
il Natale in Germania. E poi non era neanche il suo, di compleanno!
Però non era un
regalo come gli altri che aveva ricevuto. Questo era bello. Le
ricordava Ziggy.
Ziggy, il suo fidato cavallo, che era rimasto a Berlino.
“Grazie. È…
bello…”
Faceva ancora fatica ad ammettere le cose che le facevano piacere, ma
questa
volta si sforzò perché sapeva che lui se lo
meritava. Jakob si distese sul
letto. Mah… cosa stava facendo?
“Vieni qui” disse,
battendo la mano sul copriletto al suo fianco. Lei, lentamente, si
sdraiò
vicino a lui e il suo cuore iniziò a battere fortissimo
quando le prese la
mano.
Le aveva fatto un
regalo perché non si sarebbero visti più? Per
questo? Le stava dicendo addio?
“Hai intenzione di
rimanere a Berlino… Per sempre…?”
sussurrò lei. Lui si girò, ma non si vedevano
molto, al buio.
“No. Certo che
tornerò.
Tornerò qui” disse, un po’ confuso dalla
domanda. Tornerò da te.
Wolfrun
annuì ma Jakob non poteva vederla e
nel buio allungò una mano e le accarezzò una
guancia.
“Mannaggia. Stavo
già pensando di prendermi la tua stanza”
replicò lei scherzosamente. Lui rise.
“Il tuo letto è più
grande del mio, ti conviene stare qui.”
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