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Autore: alessandroago_94    06/11/2018    15 recensioni
Luglio 1918.
Un rivoluzionario rientrato dall’esilio, pieno di astio e deciso come pochi altri prima d’allora, lascia che il suo destino incontri quello dello Zar sconfitto e provato dalla prigionia. Per qualche tempo, la vita di un sovrano e quella di colui che sarà il suo assassino restano unite da un invisibile filo rosso… quello di una Russia pronta a tutto pur di voltare definitivamente pagina.
Pronta anche a versare il sangue degli innocenti.
Il racconto si è classificato secondo al Contest “Il mio personale modus operandi”, indetto da Not_only_fairytales sul Forum di Efp.
Racconto vincitore del premio speciale Oratore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Il Novecento
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Fine dei Romanov

FINE DEI ROMANOV

 

 

 

 

 

 

 

 

“Fine dei Romanov è l’espressione

impiegata da svariati storici per designare l’insieme

di omicidi politici compiuti dal nuovo potere sovietico

su membri della ex famiglia imperiale”.

Wikipedia.

 

 

 

 

 

 

 

Tempo fa, avevo per davvero creduto nel cambiamento. Avevo fortemente adorato l’idea di base della Rivoluzione, credendo che quella fosse una missione che, in fondo, doveva essere il fine ultimo di ogni essere umano.

Spezzare le catene, smettere di credere che le cose non possano essere cambiate. E pensare che ciò può avvenire in fretta, basta essere motivati.

Io la motivazione l’avevo; ero stato costretto ad abbandonare la mia patria, lasciandomi alle spalle le mie origini e la mia famiglia. L’esilio mi aveva logorato fino al midollo, cosicché si era formato un pericoloso vuoto dentro di me. Se ero stato allontanato per via delle mie idee, esse poi erano diventate la mia tana, il mio rifugio dal mondo. Erano diventate il mio Credo. Poiché poteva esistere un Dio, mentre i suoi figli morivano di fame?

I suoi figli più poveri, quelli che secondo i Testi avrebbe dovuto amare di più.

I figlioli più benestanti, i ricchi crapuloni che vivevano in sontuosi palazzi, erano la minoranza ma allo stesso tempo valevano molto più delle masse; essi si dedicavano ai vizi, agli ozi e alle fastose cerimonie, come se il volgo manco esistesse. Eppure, era il volgo stesso che produceva il cibo che li ingrassava, e che donava utili braccia per la cura di tali capolavori d’ingegneria.

Era venuto, quindi, il giorno in cui era stato detto basta a tutto questo.

Per la prima volta, in un Impero già dilaniato da un conflitto devastante e da una povertà estrema, il popolo aveva detto basta a tutto questo, ed io ero stato pronto a tornare a casa. Ero solo un povero rivoluzionario, all’epoca, ma mi ero dimostrato così bravo a esprimere gli ideali della Rivoluzione stessa da far carriera molto in fretta.

Avevo così visto, finalmente, cessare i soprusi; erano iniziate trattative di pace, al fine di abbandonare quel conflitto che tanto poco riguardava il popolo russo, ma non solo. Avevano tremato le chiese, fin nelle fondamenta. Quei luoghi dove per secoli erano state custodite tradizioni che non rispecchiavano più i tempi correnti e mantenevano vivo l’anacronismo di una terra resa schiava da queste memorie ormai prive di significato, per i più giovani.

Ogni tanto veniva ucciso un prete, un componente della vecchia aristocrazia, o semplicemente uno dei tanti individui che volevano mantenere tutto com’era stato finora.

Ho veramente creduto che tutto ciò fosse corretto, anzi, addirittura un punto di svolta, poiché da quelle gesta s’iniziava a gettare le basi per una società nuova, e più equa. Grazie al mio rigorosissimo Credo, sono riuscito in pochi mesi a diventare dapprima un deputato regionale, Commissario di giustizia e addirittura un prestigioso membro della polizia politica.

Infine, divenni un sicario.

Quando mi proposero di diventare comandante della Casa a destinazione speciale, accolsi con soddisfazione tale proposta.

Mi ritrovavo ad affrontare un momento in cui, nonostante lo Zar fosse odiatissimo dai bolscevichi in rivolta, nessuno ancora aveva il coraggio per fare ciò per cui ero stato incaricato. Giunsi in quel palazzo sugli Urali che faceva ancora freddo; non c’era riscaldamento, si utilizzava solo quel poco di legna che si poteva raccogliere nelle vicinanze.

Ero giovane e sicuro di me, convinto che la mia fosse una missione di un’importanza vitale per la Rivoluzione in corso. Fu con questo atteggiamento austero e superbo che conobbi colui che progettavo di uccidere da tanto, troppo tempo.

Il despota deposto mi era apparso come un uomo fragilissimo, piegato dalla pressoché recente rigidità dello stile di vita che era stato imposto a lui e a tutta la sua famiglia. Gongolavo, anche se non lo davo a vedere; egli mi aveva esiliato, ora invece le parti si erano invertite. Io ero a casa, lui lontano da ciò che aveva ricevuto in eredità dai suoi antenati.

Privato di tutto e di ogni onore, le guardie rosse presenti nella Casa lo prendevano in giro e lo insultavano. Sui muri, erano stati realizzati diversi disegnini stilizzati in cui appariva una figura femminile mentre copulava con un’altra maschile. Tali opere d’arte erano state impresse ovunque, persino negli ambienti dedicati ai più giovani e allo zarevic.

I nomi scritti sopra le figure erano molto chiari, quando i tratti disegnati non lo erano affatto; Alessandra e il Santone, che a detta dei rossi era stata la coppia che aveva fatto vergognare la Russia intera, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Su di lei, venivano ripetuti continuamente i peggiori epiteti.

Il mio ingresso nella Casa, però, aveva destabilizzato gli equilibri che di recente si erano instaurati, poiché con la mia folle freddezza avevo subito ordinato che tutto quello scempio avesse fine. Infatti, se da una parte mi era stata commissionata la missione preparare l’eliminazione del problema più spinoso per i rossi, dall’altra non volevo farlo senza una certa classe.

Lo zar doveva sapere, persino riconoscere, che uno come me, considerato da lui alla stregua di un malfattore da esiliare e perseguitare, poteva essere capace di portare più rispetto di uno dei tanti aristocratici di cui si era sempre circondato.

Feci tacere le guardie e feci in modo che non ridessero più né turbassero la nobile famiglia. Mi premurai di scarabocchiare uno dei disegni più osceni, finché non divenne una macchia nera e informe, priva di senso.

“La ringrazio”, aveva mormorato un giorno il timido sovrano deposto, “con Lei è giunto un po’ di rispetto”.

L’avevo osservato con interesse per la prima volta, l’avevo detestato in tutta la sua essenza. Naturalmente, mi ero dimostrato glaciale nei suoi confronti, limitandomi a rispondere con un cenno rapido e deciso del capo.

Nei giorni successivi, mi ero dimostrato permissivo e bonario; avevo permesso l’ingresso di cibo esterno alla Casa, consegnato da alcune suore coraggiose, e avevo addirittura lasciato inviare alcune richieste d’aiuto.

Al solo pensiero di ciò, mi veniva da ridere; la famiglia imperiale era stata ripudiata anche dalla sua nobile parentela, e tutti si erano dimenticati di quegli sventurati.

Quando era stata diffusa la voce che lo zar era morto, nessuno aveva fatto una piega, neppure all’estero. Quella era stata solo una prova, al fine di saggiare la possibile reazione del mondo, ed era andata a buon fine.

Il resto era in mano mia, poiché mentre loro si davano tanto inutilmente da fare per cercare aiuto, io stavo preparando con meticolosità la loro morte.

Alcune volte, mi spinsi ad andare ad accertarmi di persona che le future vittime stessero bene; mi premurai per il fragile Alessio, presso il padre, e sempre con egli domandai come stava la moglie, da lungo tempo sofferente di sciatica. Lo zar era sempre umile e accorto, nelle risposte, sintetico e bonario.

A un certo punto mi ritrovai a chiedermi se quello che avevo cominciato a preparare nella stanza del pianterreno era qualcosa di corretto.

 

A dissipare i miei pochi e minuziosi dubbi fu la successiva seduta del Soviet, dove a quel punto fu deciso con precisione chi sarebbe morto e chi no.

Fui irremovibile nel proporre la morte di tutti i componenti della famiglia, compreso il suo scarno seguito. Nessuno dei rossi, però, neppure quelli presenti da tempo nella Casa, avevano intenzione di sparare sui figli. La puttana tedesca, come la chiamavano loro, poteva morire, così come l’inutile e imbelle marito; ma i ragazzi erano così innocenti e fragili… ancora una volta, fui costretto a prendere in mano la situazione e a cercare una soluzione, a qualunque costo.

Lo zar non aveva forse fatto morire i figli del suo popolo, mandandoli in guerra e facendoli morire di fame o trivellati dagli spari nemici? E allora, perché avrei dovuto aver pietà dei suoi figli?

 

Cercai di informare il meno possibile le guardie, a riguardo di ogni mia mossa. A quel punto, era necessario che nessuno facesse la spia, neanche per sbaglio.

Ero riuscito ad avere dalla mia parte il supporto di alcuni reietti austriaci, che avevano aderito alla Rivoluzione scegliendo in primis di odiare la famiglia imperiale. L’effetto a sorpresa mi avrebbe garantito, infatti, l’unica cosa di cui necessitavo, ovvero una momentanea calma surreale prima della rapida tempesta finale.

L’obiettivo principale, il provato Nicola, non doveva mettere in agitazione la sua famiglia né cercare di compiere una minima mossa in loro favore. Se lui lo odiavano tutti, in tanti ancora volevano salvare il fragile figlio e le innocenti ragazzine.

Avevo preparato personalmente la stanza al pianterreno proprio come serviva a me; avevo impiegato giorni interi per togliere tutta la mobilia, con la scusa che ero un appassionato di fotografia e in quell’ambiente spoglio avrei potuto esercitarmi nella mia passione. Alla fine, non era rimasto altro che un ambiente sgombro.

A quel punto, provavo un senso di onnipotenza che mi era difficile da interpretare persino all’epoca.

 

Lo zar e la sua famiglia. Colui che aveva regnato su un quinto della superficie terrestre in quel momento era la mia marionetta.

Giunse una sera in cui, pressato dagli eventi recenti, decisi che era giunta l’ora di chiudere con quella farsa; il sedici luglio, ricordo la data. Era caldo, un tepore avvolgeva le mie membra abituate ai rigidissimi inverni che parevano infiniti.

Mi sentivo ancora più forte e risoluto.

La forza me la offriva la notte, poiché alle ventitré esatte ero come ebbro di vendetta, avvertendo che il fatidico momento era giunto. I bianchi erano giunti in città, non potevo aspettare.

Chiamai il mio assistente e gli ordinai di preparare delle armi, poi mi recai personalmente al piano superiore della Casa, ove Nicola dormiva assieme alla sua famiglia. Li svegliai parlando con voce tonante.

“Signori, dobbiamo muoverci verso un posto più sicuro”, avevo annunciato, la voce roca che risuonava ovunque nell’ambiente circostante, “i bianchi sono giunti fin qui, e temo che possano scoppiare gravi disordini. Dovete scendere al più presto al piano inferiore della Casa”.

Avvertii i sospiri profondi dello zarevic, nel buio, mentre le sorelle borbottavano e la loro madre gemeva di dolore. Mi ritrassi.

Tornai al piano inferiore, e con il fiato corto ordinai alle guardie rosse di posizionarsi tutt’attorno a quella che ormai era diventata a tutti gli effetti una prigione, avvisandole di non turbarsi se avessero udito degli spari. Il mio assistente già mi attendeva nella camera sgombra, con la mia arma tra le mani e un’aria confusa.

“Sveglia i reietti austriaci e armali a dovere. Poi, falli sistemare nella camera attigua a questa, in silenzio e in attesa di altri miei ordini”. A quel punto, Medvedev aveva capito tutto; ricordo perfettamente il suo sguardo stralunato, come se si fosse aspettato che quel fatidico momento non potesse mai giungere.

“Obbedisci immediatamente!”, sbraitai, notando che non si muoveva. Obbedì subito. Aveva sempre avuto paura del mio aspetto severo, taciturno, cupo.

In meno di un quarto d’ora, gli austriaci erano già posizionati dove avevo ordinato, nascosti da una porta chiusa, mentre dello zar manco l’ombra.

Nervoso, temendo che qualcosa potesse andare storto, cominciai a passeggiare avanti e indietro nella stanza vuota, decidendo che avrei dovuto richiamarli se non avessero obbedito. Ma il sovrano deposto obbedì; giunse al piano inferiore con il figlioletto tra le braccia, mentre il resto della famiglia li seguiva, assieme ai pochi fedelissimi che avevano scelto di non abbandonarli neppure nella rovina.

“Scusate il ritardo…”, mormorò, con quel suo solito tono di voce demoralizzato.

Avevo sorriso, soddisfatto.

Si avvicinava la mezzanotte, e se tutto fosse andato per il verso giusto già il giorno successivo sarebbe stato quello in cui la Madre Russia si sarebbe svegliata libera per sempre. I bianchi? Per chi avrebbero combattuto, se il loro ultimo baluardo era stato eliminato per sempre? A quel pensiero, ghignai involontariamente, mentre facevo cenno ai nuovi arrivati di accomodarsi nella stanza che avevo preparato.

Non appena varcò la soglia, la zarina però rimase molto stupita, forse più di tutti gli altri.

“Ma come, non c’è neppure una sedia? Non ci si può neppure sedere?”, domandò, infatti.

Il mio assistente, che seguiva la scena dalle spalle dei prigionieri, fu lesto a portarne due, quando gli feci cenno di eseguire quella richiesta.

“Una per la signora e una per suo figlio”, precisò, poi.

Alessio, magrissimo e fragile, incapace pure di stare in piedi da solo, fu appoggiato dal genitore su una delle due sedie che furono portate, mentre sua madre si sedette a suo fianco. Sembravano tutti così tranquilli… o era la forza dell’abitudine ad averli resi così mansueti? Nessuno pose domande scomode, niente di niente.

“Signori, per favore…”, richiamai la loro attenzione con gentilezza, ma senza mai accennare ai titoli che erano stati loro prima della Rivoluzione, “… dovete ascoltarmi, intesi? Ora facciamo una foto, sapete che mi piace immortalare i momenti importanti. Una foto soltanto, quindi vi chiedo un attimo di pazienza, va bene?”. La mia era solo una domanda retorica.

“Una foto…?”, borbottò la granduchessa Anastasia, l’unica che disse qualcosa. Le sue parole dubbiose non ebbero alcun particolare effetto.

Ricordo che gestii le undici persone presenti grazie ad ampi gesti delle mani, posizionandole nel modo in cui sarebbe stato più agevole… sparare. Sparare; avevo la mia pistola in tasca, nascosta e carica. Alle spalle del nemico, solo una fragile e spoglia parete di legno, che avrebbe attutito il rimbalzo delle pallottole.

Infine, in prima fila posizionai la famiglia del deposto zar, e nella seconda il suo seguito. Col fiato corto, mi resi contro che era tutto pronto.

Con un altro cenno della mano destra, il mio assistente si premunì di far entrare nella camera gli austroungarici; solo allora l’ambiente parve raggelarsi. Io avevo semplicemente sorriso, poi con freddezza ero tornato a parlare con voce ferma.

“Poiché i vostri illustri parenti continuano a recare danno alla Russia sovietica, il comitato esecutivo degli Urali ha deciso di giustiziarvi tutti”. Fui di pochissime parole.

Lo zar mi osservò per un istante, prima di borbottare qualche parola sconnessa.

“Come…? Come?”. Tutto quello che riuscì a dire.

“Sarete giustiziati ora, per ordine del comitato esecutivo degli Urali”, ripetei, mentre alle mie spalle alzavano e puntavano le armi… io feci altrettanto.

Mentre i prigionieri cominciavano a borbottare, colti dal panico, estrassi il mio revolver e lo puntai chiaramente verso Nicola II. Un solo secondo, anche meno; una frazione di secondo.

L’uomo che avevo sempre odiato con tutto me stesso… era lì, impotente, senza parole; un imperatore, uno zar, un padre di famiglia. Ma io lo odiavo.

Sapevo che avrei ucciso solo lui, così ero d’accordo con gli altri tiratori. Socchiusi gli occhi, prima che la mia vittima potesse spostarsi, e feci fuoco.

 

Il resto fu solo sangue, urla, gemiti e una lunghissima agonia, che parve infinita. Non volevano morire… pareva una maledizione.

Ricordo che ho vomitato, quando fu tutto finito… il resto, oramai si perde nei meandri della mia fragile memoria.

 

Un tempo ho quindi creduto nei miei ideali; sono stato il rivoluzionario più ferreo e deciso, tra i bolscevichi.

Sono stato l’unico ad aver premuto il grilletto contro il despota, continuando poi a visionare il lungo massacro che aveva portato alla mattanza della sua intera famiglia e di ciò che restava del suo seguito. Mi sono sporcato le mani di sangue perché credevo in queste idee. Ma ora che sono anziano e sono molto malato, mi sono dovuto piegare all’evidenza.

Col mio gesto ho messo fine alla speranza dei bianchi, sorridendo poi quando le chiese venivano distrutte, quando i campanili crollavano, quando i sacerdoti, i medici, i più ricchi, gli insegnanti e le persone istruite venivano tutti quanti massacrati impunemente. La società doveva essere paritaria, senza più alcuna distinzione tra i suoi componenti.

Adesso ho tanto male; non solo al cuore malato, bensì anche con l’ulcera che strazia le mie membra. All’ospedale del Cremlino non c’è nulla che possa farmi stare bene… non so neanche se questa si possa considerare una clinica.

Ricordo che, durante l’esilio, ma anche prima, c’erano dottori molto bravi in grado di curare molti malanni. Ora ci sono solo strutture sovraffollate, manca l’igiene e il personale. Tutto è rimasto vittima della Rivoluzione.

Quando poi è finita la mattanza contro le persone di maggior spicco all’interno della società, sono iniziate le persecuzioni verso chiunque… anche mia figlia, il bene più prezioso che la vita mi ha donato, è stata portata via. Questo ha fatto peggiorare i miei mali.

Mentre rantolo su una brandina lercia, circondato da malati di ogni sorta e ormai pronto alla morte più atroce, non posso non avvicinarmi a Dio. Io che ho fatto di tutto per abbatterlo… mi ritrovo a pregarlo.

Per decenni ho sfogliato gli scritti più privati della mia vittima, e lì, tra quelle righe, ho trovato tanto di ciò che poi ho provato; l’amore paterno, la paura, la speranza in un futuro migliore. E se io non avessi mai ucciso il deposto zar? E se io, quella sera, l’avessi consegnato ai bianchi, invece di assassinarlo con foga, accecato dalle mie idee sempre più pressanti e fanatiche? Mi sarebbe rimasto Dio e la consolazione della preghiera, prima di un trapasso che mi avrebbe presto condannato all’inferno? Mi sarebbe rimasta mia figlia accanto?

Ho ucciso un tiranno e ho fatto in modo che nessun suo discendente diretto potesse sopravvivere, ma col mio gesto ho spianato la strada ad altri tiranni ancor più assetati di sangue, e di questo adesso mi vergogno, ma solo ora, che la mia carne è debole e so che sto per spirare.

Non invoco neanche più aiuto… so che nessuno mi starà a fianco, nel momento del trapasso.

Mi manca mia figlia, mi manca la vita di prima… di prima di tutto questo.

Consapevole di aver distrutto anche l’esistenza della mia famiglia e di quelle di altri milioni di miei compatrioti, mi accingo a lasciare questa terra con il sapore del sangue sulle mie labbra screpolate, ascoltando i gemiti del mio popolo morente e sofferente come se fossero la mia nenia funebre… l’ultimo saluto che la Russia mi ha donato.

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Con questo racconto chiudo la mia breve parentesi dedicata alle rivoluzioni del passato e agli ideali. Con la storia Venezia è lontana, ho voluto rappresentare alcuni di essi, altri in questo testo.

Il protagonista del racconto è Jurovskij, colui che organizzò il massacro dello Zar e della sua famiglia.

Anche qui, forse, ho azzardato troppo, soprattutto nella parte finale del testo, ove appare un discreto pentimento per l’accaduto. Tuttavia mi è sembrato verosimile; Jurovskij dopo aver assassinato la famiglia imperiale rimase a lungo a curare ciò che di loro era rimasto, frugando tra lettere, corrispondenze… mi pare inverosimile che alla fine di tutto non si fosse creato una sorta di strano legame tra il carnefice e le vittime. Comunque questo non lo so, e non ci è concesso saperlo.

Spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno con questo mio racconto, che, per l’appunto, resta un umilissimo testo senza pretese.

Molti dei dialoghi presenti nel raccontino sono storici, sono stati veramente pronunciati così come li ho riportati.

Grazie come sempre per l’attenzione e per aver letto, carissimi amici ^^

   
 
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