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Autore: steffirah    07/11/2018    3 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Nuova casa


 
In una regione settentrionale dell’Hokkaido, tra immense foreste di conifere che si estendevano a perdita d’occhio sulla superficie della Terra, si apriva il cuore di una piccola cittadina fino ad allora a me sconosciuta, chiamata Reiketsu. Non l’avevo mai sentita prima e l’avevo anche cercata sulle mappe per curiosità, senza tuttavia trovarla. Quasi come se non esistesse, come fosse una città fantasma – il che, di per sé, non sembrava molto confortante.
Dopo circa un’ora e mezza di volo e altre due ore in taxi finalmente giunsi all’indirizzo lasciatomi da mio padre. Dovemmo abbandonare la città, inoltrarci in zone periferiche, attraversare catene montuose e sopravvivere a curve vertiginose prima di poter intravedere il cartello che recitava “Benvenuti a Reiketsu-chou”.
Non appena ebbe parcheggiato l’auto ringraziai l’autista, il quale gentilmente mi aiutò anche a tirare fuori la grossa valigia dal bagagliaio, e attesi che si allontanasse prima di voltarmi a guardare la villa di mia cugina, restando a bocca aperta. Era incommensurabile, almeno il triplo di casa mia.
Un’ampia abitazione in legno e mattoni a due piani, costruita sullo stile di una dimora occidentale, si erigeva a ridosso del bosco, i cui abeti e ginkgo la circondavano creando un semicerchio, estendendosi fin sulla strada. Essa sembrava quasi una fusione tra le tipiche abitazioni a graticcio tedesche, una magione vittoriana e un castello medievale francese. Le pareti erano tinte in grigio, o forse si erano scolorite col passare degli anni – ma era anche plausibile che fossero le nuvole perenni a farla sembrare così scura. A quanto mi era parso di capire in questa cittadella – in cui c’erano all’incirca 1070 abitanti – sarebbero stati tutti giorni di nuvole e pioggia, mentre quelli di sole si potevano contare sulle dita… di una mano.
Sospirai affranta, ma mi consolai pensando che entro l’estate prossima sarei dovuta ritornare a casa. Magari sarei riuscita ad invitare anche mia cugina e così avremmo potuto andare al mare insieme. Ero certa che questo cielo plumbeo non faceva bene a nessuno, né al fisico né all’umore.
Allungai un dito suonando il citofono e dopo non molti secondi mi rispose una voce adulta di donna, lievemente gracchiante, chiedendomi chi fossi.
«Kinomoto Sakura» annunciai sorridente, domandandomi se ci fosse una qualche telecamera da qualche parte per vedere chi sostava dinanzi casa. In tal caso, non volevo mostrare il mio stato d’animo prostrato per la dipartita con mio padre.
Il cancello in ferro battuto si aprì automaticamente ed entrai, fermandomi un attimo a studiarne il disegno: c’erano edere rampicanti che avvolgevano dei cuori curvilinei, da cui partivano onde a spirale. Era affascinante e un po’ mi ricordava l’entrata della villa al mare del nonno, sebbene quella fosse lievemente meno appariscente.
Passai oltre, guardandomi intorno nel vasto giardino, seguendone il sentiero rettilineo. C’erano numerosi arbusti ben potati ma altissimi, tanto che quasi bloccavano la visuale di tutte le finestre. Chissà se erano lasciati crescere così per una questione di privacy oppure per motivi estetici. Poteva pur sempre trattarsi di qualche arte del giardinaggio che ancora non conoscevo.
Prima dell’ingresso c’era un portico con due colonne marmoree e il tetto a timpano, raggiungibile tramite tre scalini. Mentre li salivo notai sulla sinistra un roseto curato finemente con un rosaio rampicante che occupava molto spazio, pieno zeppo di rose rosse. Che strano che fiorissero con questo clima e in questa stagione.
Le mie riflessioni andarono in fumo nel momento in cui udii la porta scattare. Mi voltai prontamente, mettendomi sull’attenti, restando senza parole. Sulla soglia mi sorrideva cordialmente una ragazza bellissima. La sua pelle era diafana, sembrava essere fatta di porcellana, e tale impressione era accentuata dal suo aspetto delicato. Era minuta, aggraziata, con lunghi capelli fluenti che le incorniciavano il viso e le spalle, scivolandole morbidamente sulla schiena con onde leggere. Quasi fossero fatti di fili di seta che avevano rubato i colori della notte. Anche i suoi occhi avevano un che di eccezionale: erano grandi, carezzevoli, del colore della lavanda. Mi guardavano con aria amichevole e curiosa, forse perché mi ero letteralmente imbambolata.
Mi ridestai  d’un botto, inchinandomi profusamente, presentandomi.
«Sono Kinomoto Sakura, piacere di conoscerti.»
«Il piacere è tutto mio, Sakura-chan.» La sua voce era tenue, sottile e graziosa, suonava come uno scampanellio. «Io sono Daidouji Tomoyo.»
Mi rimisi dritta, sorridendole, e vidi anche lei fare un piccolo inchino con la testa.
«Se vuoi seguirmi…»
Fece un cenno con la mano e mi accomodai dopo di lei, chiedendo permesso.
L’interno era persino più spettacolare. Subito dopo essere entrati si apriva un largo spazio con una scalinata in marmo bianco giusto al centro, che conduceva al piano superiore. La stanza era ben illuminata da un lampadario in quello che mi sembrava cristallo che pendeva dal soffitto e mostrava contro le due pareti laterali mobili, vasi, quadri, specchi e una sfilza di antichità che mio padre avrebbe invidiato con tutto se stesso. Per la maggior parte sembravano essere originarie dell’Occidente, forse erano state importate dall’Europa.
Oltre alla meraviglia provocata dall’ambiente, ci si aggiunse la presenza di un numero esorbitante di cameriere che mi diedero il benvenuto. Mi pietrificai, non sapendo come reagire. Erano almeno il doppio di quelle che lavoravano per il nonno! E mio padre non mi aveva avvertita a riguardo!
Imperturbabile, mia cugina ordinò a una di queste di portare la mia valigia in camera, mentre mi conduceva verso una porta che dava sul retro. Aprendola mostrò un’immensa biblioteca, antichissima, e quanto più tempo trascorrevo qui tanto più mi convincevo che questo posto sarebbe piaciuto tantissimo a otou-san. Quando sarebbe atterrato avrei dovuto fargli un resoconto quanto più dettagliato possibile.
Sul lato sinistro, dinanzi ad un caminetto in mattoni spento, sostava un’alta poltrona rossa. Sentii mia cugina ridacchiare – il che suonò più come il tintinnio di tanti campanelli –, dicendo: «Starà sicuramente dormendo.»
Si pose dinanzi ad essa, avvicinandovisi con una camminata elegante e sinuosa, quasi come se fluttuasse in aria. Non potevo che rimanere colpita da ogni sua azione, ogni sua parola, ogni suo gesto.
Scrollò qualcuno che da qui non riuscivo a vedere, sussurrandovi qualcosa che non captai, ma suonava dolce, quasi… mieloso. Sorrise, seguendo con lo sguardo un’altra figura che si stiracchiò, prima di alzarsi e voltarsi. Arrossii lievemente non aspettandomi di trovare anche un ragazzo. Non sapevo di avere un cugino!
Lui mi si avvicinò con la sua stessa grazia e, mentre mi si approcciava, me lo studiai. Era pallido quanto lei, pure la sua pelle sembrava fatta di alabastro. Si somigliavano tantissimo, anche nel colore di capelli, sebbene i suoi fossero lisci e tendenti al blu. Era più alto e slanciato di lei, dal fisico asciutto, e quando mi giunse innanzi mi accorsi di arrivare appena alla sua spalla. Un gigante! Anche i suoi occhi avevano un taglio gentile e carezzevole, ma a differenza di quello di mia cugina il suo sorriso aveva un che di… ambiguo, ecco. E le sue iridi, a loro volta, erano stupefacenti. Color ghiaccio, non potevo sbagliarmi. Di un celeste chiarissimo, tendente al grigio, contornati di cobalto, trasparenti. E quella stessa trasparenza sembrava rendere così me, quasi riuscisse ad aprirmi la mente e leggervi ciò che vi celavo. Che cosa assurda.
«Piacere di conoscerti, Sakura-san.» San? Lo fissai perplessa da tutta quella cerimoniosità – era persino più formale di Tomoyo-chan, che già aveva mostrato di preferire utilizzare un linguaggio gentile.  «Il mio nome è Hiiragizawa Eriol.»
Fece un piccolo inchino e io lo imitai, dicendogli che il piacere era tutto mio. Poi mi ripetei le sue parole.
«Hoe? Non siete fratelli?» domandai confusa.
«No» rispose pacata mia cugina, appoggiando delicatamente una mano sul suo braccio. Vedendoli così, sembravano usciti da un romanzo d’amore. Mi si strinse il cuore, trovandoli toccanti. «Eriol-kun è il mio ragazzo» spiegò.
Annuii, comprendendo, rallegrandomi per loro, trovandoli una coppia bellissima. Dopo non molto, tuttavia, feci due più due.
«E vivete insieme?»
Confermarono col capo, il che mi lasciò ancora più perplessa.
«M-ma… E tua madre, Tomoyo-chan?»
«È una lunga storia, ne parleremo con calma a cena. Per ora c’è solo una cosa che dobbiamo dirti, prima di farti riposare.» Si rivolsero un’occhiata per poi tornare a guardarmi, augurandomi in coro, una in tono acuto, l’altro con voce sottile: «Benvenuta nella tua nuova casa.»
Li ringraziai di cuore e ascoltai il loro suggerimento, convenendo con loro che fosse meglio che riposassi un po’ per recuperare le energie perdute col viaggio; seguii quindi una cameriera, la quale mi condusse nella mia stanza e si offrì di mettere a posto tutto col mio consenso, mentre mi rinfrescavo. Assentii non trovando le forze di negarglielo, sebbene avessi potuto occuparmene tranquillamente da sola in seguito, e mi andai a fare una rapida doccia, cambiandomi in abiti puliti prima di gettarmi sul letto a due piazze, cedendo alla stanchezza.
 
 
 
Quella sera, dopo che mi fui risvegliata, la prima cosa che feci fu scrivere immediatamente una lunga e-mail a mio padre per raccontargli del viaggio e di ciò che avevo visto finora. Non appena gliela inviai telefonai a mio fratello, certa che fosse in apprensione per me, per assicurargli che fossi arrivata sana e salva.
«Mostriciattolo, ce ne hai messo di tempo» mi attaccò immediatamente.
«Oh, scusami se ero stanchissima e ho finito con l’addormentarmi» sbuffai risentita.
«Ma adesso sembri stare bene» ridacchiò perfidamente. Cielo, se soltanto fosse stato ancora a portata di mano lo avrei strozzato. «Com’è andata?»
«A parte la fiacchezza, bene. La casa di Tomoyo-chan è grandissima, dovresti vederla.»
«Mandami delle foto.»
«Lo farò senz’altro, devo condividere tutto questo anche con papà, ne sarà entusiasta. È un luogo pieno di meraviglie» descrissi eccitata.
«Sembri felice.»
«Lo sono!» confermai, alzandomi in piedi, scostando le pesanti tende scure dalla finestra. «Peccato per il grigiore del cielo» mi rammaricai.
«C’è cattivo tempo?»
«A quanto ho capito è meglio che mi ci faccio l’abitudine, saranno rari i giorni di sole.»
«Per una come te che ama l’estate deve essere un inferno» rise, per niente dispiaciuto.
«Affatto! È il paradiso, e sai perché?»
«Perché?»
«Perché a differenza di te che sei un oni, Tomoyo-chan ed Eriol-kun sono due angeli» cantilenai dispettosa.
«Chi è questo “Eriol-kun”?»
«Il suo fidanzato.»
Fece una breve pausa, indagando poi in tono infastidito: «E vive con voi?»
«Così mi è parso di capire.»
Non sentii la sua risposta perché proprio allora bussarono alla porta. Aprii rapidamente e una cameriera mi informò che la cena era servita. Lo riferii a mio fratello, salutandolo rapidamente, ignorando le sue proteste. Non concepiva proprio l’idea che un ragazzo e una ragazza vivessero insieme, se non imparentati. Ma se si amavano che problema c’era?
Mi sciacquai rapidamente il viso prima di scendere le scale, affondando i piedi nel tappeto rosso, sentendomi quasi una principessa.
Giunta nel salone al primo piano rimasi nuovamente abbagliata dalla quantità di candelabri con candele accese posti in fila sulla tavola, nonché dalla lunghezza di quest’ultima, le cui portate erano intervallate da vasi pieni di rose rosse. Sembrava di stare ad una cerimonia nuziale in stile occidentale.
Notandomi, Eriol-kun e Tomoyo-chan mi vennero incontro, chiedendo come mi sentissi e come avessi riposato, attendendo che fossi la prima ad accomodarmi. Mia cugina si sedette a capotavola e il suo ragazzo alla sua destra, di fronte a me. Sembravamo vicini, ma in realtà tra di noi intercorrevano almeno una cinquantina di centimetri di spazio, se non di più – non ero mai stata brava coi calcoli. Spostai poi gli occhi sulle portate, restando senza fiato. Non saremmo mai riusciti a mangiare tutto quel ben di dio! C’erano patate al forno, tacchino, bistecche, insalate russe e numerosi piatti che non riuscivo a distinguere, con tanto di pudding come dessert.
Cominciai a prendere un po’ di tacchino e patate, mostrandomi curiosa dopo aver risposto alle loro domande. «Come mai siete così… tendenti alle usanze occidentali?»
Li guardai di sottecchi, sperando di non averli offesi in alcun modo.
Eriol-kun rispose con la sua voce fine, quasi le sue more uscissero dai fori di un flauto traverso. «Perché io ho origini inglesi. Ti dispiace?»
Sembrò sinceramente preoccupato alla possibilità, per cui scossi la testa con vigore.
«No anzi, mi piace questo cibo!» lo rassicurai, mangiando con gusto.
Tomoyo-chan prese un po’ di insalata, versandosi in un calice del liquido rosso scuro, facendo altrettanto con Eriol-kun che continuava a sorridermi in maniera furba.
Abbassai lo sguardo, chiedendomi se si trattasse di succo di mirtilli. Ma c’erano altre cose ben più importanti da analizzare: i piatti erano in porcellana, le posate d’argento, i calici al posto dei bicchieri molto verosimilmente di cristallo con base e stelo decorati….  Sul serio, quanto poteva essere ricca la cugina di mia madre?
Vidi Eriol-kun mettersi nel piatto una bistecca al sangue – ragione per cui l’avevo evitata, preferendola ben cotta – e tossicchiai, riprendendo la conversazione che quel pomeriggio non avevamo portato a termine.
«Tomoyo-chan, quindi zia…?» la incalzai.
Lei finì di bere a piccoli sorsi, pulendosi con eleganza le labbra con un fazzoletto di seta ricamato sui bordi.
«Mia madre è in viaggio di affari in America, tornerà a dicembre, nel periodo natalizio.»
Ecco, stavo cominciando a farci l’orecchio con la perfezione della sua voce da soprano.
«Capisco.»
Assaggiai anche io l’insalata, assimilando l’informazione. Per un attimo avevo pensato che avesse lasciato la casa in eredità a loro due e lei si fosse trasferita altrove. Se però era come diceva, presto avrei potuto incontrarla! Ed essendo cresciuta con mia madre sicuramente mi avrebbe potuto raccontare tanto di lei!
Sorrisi lieta a quel pensiero, formulandone intanto un altro: ciò significava anche che fino a dicembre avremmo vissuto soltanto noi tre – insieme alla servitù, naturalmente. Un sogno adolescenziale!
Contenta, presi un altro po’ d’insalata e misi il tacchino in un altro piatto, complimentandomi con lo chef chiunque fosse.
Quando giungemmo alla fine del pasto – purtroppo lasciando tantissimi avanzi – Eriol-kun ci invitò a spostarci sui divani nel salone.
Qui non mi sorpresi più nel vedere l’enorme lampadario con gocce pendenti e angeli con le trombe d’argento come portacandele, piuttosto rimasi stupita nel ritrovarmi innanzi un vero e proprio arsenale al di là di una teca. C’erano armi di tutti i tipi e le epoche, naturalmente da collezionisti: spade, sciabole, lance, pugnali, fucili, pistole…. E in un angolo accanto ad una delle tende di broccato purpureo alla finestra c’era un’armatura completa di un cavaliere medievale. All’angolo opposto, invece, quella di un samurai. Fantastico, era come trovarsi in un museo!
Sulle pareti scure erano affissi due orologi a pendolo, elmi e maschere del teatro noh. Restai un attimo a fissare l’hannya, rabbrividendo dalla testa ai piedi. Ecco come una notte al museo diveniva una notte nella casa infestata. Oh no, no. Non dovevo assolutamente lasciarmi sopraffare da pensieri del genere.
«Sakura-san, vieni pure a sederti.»
Risposi immediatamente all’invito di Eriol-kun, scivolando sul morbido divano imbottito. Wow, era più morbido del mio letto a Tomoeda! Naturalmente lo era anche quello della stanza che mi avevano assegnato di sopra, oltre che essere più alto e largo, con tanto di baldacchino e tendaggi velati semitrasparenti.
Dopo che mi fui seduta di fronte a lui Tomoyo-chan si accomodò al suo fianco, appoggiandosi alla sua spalla. Un dipinto. Ecco, sembravano essere usciti fuori da un dipinto.
«Tomoyo mi ha detto che hai sedici anni.»
Mi ridestai dai miei sogni ad occhi aperti, confermando.
«Esatto, li ho compiuti il primo aprile.»
«Quindi frequenti il secondo anno» osservò, pensieroso.
«Noi stiamo al terzo» mi informò mia cugina.
«Lo so.» Sorrisi, facendo capire che tale differenza d’età non rappresentava alcun problema. «Papà mi aveva detto che eri più grande di un anno di me.»
Annuì, aggiungendo: «Proprio pochi giorni fa è stato il mio compleanno.»
«Sul serio?»
«Il tre settembre.»
«Hoe!! Non ne avevo idea! Auguri!»
Sorrise rallegrata, ringraziandomi, ma non aggiunsi altro perché vidi Eriol-kun carezzarle i capelli con una delicatezza disumana. Arrossii io al posto loro, sviando lo sguardo. Non ero esattamente abituata a tutte quelle dimostrazioni palesi di affetto.
«Comunque stai tranquilla, andremo a scuola tutti insieme» mi rincuorò Tomoyo-chan. Bene, anche perché non avevo alcuna idea del dove fosse ubicata. «E a tal proposito» Si alzò in un unico movimento che avrebbe fatto invidia ad una ballerina, avvicinandomisi esaltata. «Mi servono le tue misure.»
«Le mie misure?» ripetei spaesata.
«Per assicurarmi che quelle della divisa siano giuste» ammiccò.
Mi illuminai, alzandomi intrepida. Salutai Eriol-kun e la seguii verso la mia camera, entrando prima nella sua per prendere un metro da sarta e un blocchetto con una matita che portò con sé. Cominciò a girarmi attorno, dandomi indicazioni sul come posizionarmi, e fece tutto ad una rapidità impressionante, soprattutto quando doveva segnare i numeri sulla carta, lasciandomi basita.
Quando finì mi guardò elettrizzata.
«È perfetta!» decretò, senza neppure farmela misurare. Se lo diceva lei mi fidavo, io poco mi intendevo di sartoria. «Te la porto domattina.» Stava per congedarsi, quando si voltò un’ultima volta, carezzandomi con uno sguardo. «Ah, e davvero Sakura-chan, stai tranquilla. Ti ambienterai subito e riuscirai sicuramente a stringere nuove amicizie.»
Sospirai, buttandomi supina sul letto dopo che si chiuse la porta alle spalle senza fare il minimo rumore, fissando gli occhi su quella cupa notte che si intravedeva al di là della finestra.
«Lo spero davvero…» soffiai sottovoce, sentendo un po’ d’ansia salire a galla. Decisi tuttavia di mettere da parte ogni insicurezza, filando a cambiarmi per indossare il pigiama e mettermi a letto, preparandomi psicologicamente alla giornata che mi aspettava.
Strinsi al petto Kero-chan assorbendo il suo coraggio da leone, augurando la buonanotte sia a lui che alla foto della mamma che avevo sul comodino. Chiusi gli occhi, abbandonandomi presto al sonno.
Aveva fine così il mio primo giorno nella mia nuova casa.










 
Angolino autrice:
Salve! Aggiorno prima del previsto avendo un po' di tempo a disposizione (yay!).
Il nome della città l'ho inventato io (più avanti scoprirete il significato) e "chou" nel cartello si scrive col kanji di "città".
Riguardo agli onorifici, il -san come immagino saprete è piuttosto formale/gentile, mentre tra coetanei/amici vengono usati il -chan per le ragazze dalle ragazze e il -kun per i ragazzi dalle ragazze.
Il teatro noh nasce nel XIV secolo ed è considerato una forma d'arte caratterizzata da lentezza, grazia e maschere, tra le quali l'hannya è quella della donna gelosa divenuta demone.  
Otou-san = papà, oni = demone
Grazie sempre a chi legge :3
  
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