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Autore: Ellie_x3    08/11/2018    5 recensioni
E sapeva, sapeva che Souji l’avrebbe seguita se lei gli avesse preso la mano per mostrargli il suo mondo. Souji l’avrebbe seguita e Miki avrebbe pianto, probabilmente, perché sotto sotto era una dalla lacrima facile, ma per una volta sarebbe stato di gioia.
Perchè Souji non l’aveva ancora lasciata andare e tutto andava bene.
Hiro, voglio venire a Kobe con te. 

Portami via da questi stronzi, da tutti questi volti.

[Follow up di Novel of a Dreamless]
Genere: Angst, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Souji Okita
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Time Dancers'
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Diciamo che prepara la strada per il seguito, che spero di finire prima del 2019 e caricare presto online.
Songfic, ispirata a QUESTA canzone dei Maneskin (non potevo, semplicemente non potevo raga, è la canzone perfetta).


Time Dancers 0.5
-
Homecoming

 

Prima di te ero solo un pazzo, ora lascia che ti racconti:
Avevo una giacca sgualcita e portavo tagli sui polsi

Oggi mi sento benedetto e non trovo niente da aggiungere
Questa città si affaccerà quando ci vedrà giungere

Ero in bilico tra l'essere vittima e essere giudice 
Era un brivido che porta la luce dentro le tenebre

 

“Un altro?” Miki scosse le spalle, le unghie già mangiucchiate fino all’osso. “Souji...” 
Il sorriso che le rivolse lui era timido, quasi docile a dispetto del tono accusatorio che gli era stato rivolto. 
“È stato un incidente.”
“Disse il lupo che si è appena sbranato un agnello.”
Aveva smesso di mangiarsi le unghie, Miki Mayfair, e aveva smesso di porre un limite alle persone che Souji poteva ferire nel giro di ventiquattro ore. La realtà era che bastava uno spruzzo di sangue schizzato sul pavimento o lavato via dall'uniforme azzurra di Souji, un’ombra sulla sua guancia ancora umida, e iniziava di nuovo con entrambi i vizi che credeva di aver perso. 
Dopotutto, il gel era andato da un pezzo.
“Scusami.” Mormorò lo Shinsengumi, abbassando il capo quando lei gli fece cenno; era alto, troppo alto per i suoi vent’anni, ma ogni giorno sembrava mangiargli un po’ di muscoli e ossa, trasformandolo pian piano in un fantasma. Miki finse di sbuffare passandogli una mano tra i capelli arruffati.
“Bah. Dio solo sa se hai bisogno di un buon parrucchiere. Sembri una scimmia che ha appena finito di fare rissa con un’altra scimmia, e poi è arrivata una terza scimmia e —”
“Miki.”
La ragazza alzò gli occhi, battendo le palpebre. La punta di divertimento nel volto di Souji, quella delicata spensieratezza nei suoi lineamenti che non vedeva da troppo tempo e che piegava le sue labbra sottili all’insù, le fece mancare il respiro per un istante.
“Sì?”
“La tua accortezza nell’arte delle parole mi lascia sempre senza fiato.” 
Miki esitó. 
Credevo ci avessi fatto l’abitudine, voleva dire.
Credevo potessimo smettere di camminare sempre sulla stessa strada, passando sopra alle stesse parole come un ritornello, come sassi di cui sappiamo la disposizione tante sono le volte che li abbiamo calpestati. 
“Dovrei portarti a casa da me, da un buon hairstylist. Dear me, saprei dove portarti.” Rispose, invece, cambiando argomento. “Millemila nomi. Guardati, farebbero la fila per te.”
E sapeva, sapeva che Souji l’avrebbe seguita, se lei gli avesse preso la mano per mostrargli il suo mondo — il caldo asfalto di Sunset Boulevard, l’assordante rollio delle ruote degli skater a Venice Beach, la maestosità del Pier, i muri colorati di Downtown e le dolci colline di Silver Lake. Souji l’avrebbe seguita e lei avrebbe pianto, probabilmente, perché sotto sotto era una dalla lacrima facile, ma per una volta sarebbe stato di gioia. 
La consapevolezza le seccava le labbra e la gola. 
Il sorriso indulgente di Souji si addolcì. 
“Lo so.” Disse. Era gentile, mentre le posava le mani umide sulle sue e le stringeva piano, indirizzandole lontano. Non lo infastidiva il contatto fisico, ma Miki era convinta che lo infastidisse il vago sentore di paura che Miki non era sicura di riuscire a nascondere e il modo in cui le dita tremavano leggermente. Forse il problema era il peso dei suoi occhi verdi che non si volevano staccare dal volto di Souji. “Lascia, faccio io.” 
“Souji...”
“No, va tutto bene. È solo che sono un po’ stanco.”
Miki si morse le labbra. 
Dovresti smetterla, fu la frase che le riecheggiò nella testa. Smettila di uccidere i tuoi soldati durante gli allenamenti. Smettila di stringermi le mani come se avessi paura di farmi vedere il sangue.
Smettila. 
Ma sarebbe sembrata odiosa, e nessuno meglio di lei sapeva quanto veloci fossero i cambi d’umore di Souji.
“Ti senti in colpa?”
La domanda lo fece ridere, un suono tagliente che sembrava aprirle ogni volta infiniti tagli invisibili sotto la pelle. Era come assistere all’arrivo dell’inverno quando, una per una, la voce dello Shinsengumi si spogliava delle sue sfumature rivelando solo acciaio e ghiaccio.
“Non dire stupidaggini, Miki-chan. Sono stanco, tutto qui.”
“Vai a riposare.” Replicó, invece, aggrottando la fronte. “Ti faccio compagnia.” 
Pizza e Netflix non erano esattamente contemplati, nella Shinsengumi, ma potevano sempre avere dolcetti e storie di fantasmi. Sayuri le stava insegnando nuovi kanji con dei libri presi in prestito; avrebbe potuto esercitarsi con Souji. 
Il ragazzo annuì. Non le aveva lasciato le mani e dovevano sembrare davvero stupidi, una ragazza in un kimono sgualcito e un lupo di Mibu che aveva appena finito di scrollarsi il sangue di dosso, fermi nel mezzo del giardino soleggiato di una casa rispettabile. Due figure fragili. 

Ma Souji non l’aveva ancora lasciata andare e tutto andava bene.

 

Quindi Marlena torna a casa
Che il freddo qua si fa sentire

 

Quindi Marlena torna a casa
Che non voglio più aspettare

 

“Hiro?” 

Hiroaki sobbalzó. C’era il fantasma di una ragazza, una voce portata dal vento che lo aveva fatto voltare, ma dietro di lui c’era solo il muro bianco e l'asettica intelaiatura in metallo delle librerie, cariche di volumi disordinati. Design, design e ancora design. Aveva creduto che l’arte l’avrebbe reso libero, ma non c’era niente che potesse liberare le persone come lui. 
Quanti Rasetsu hai visto, Hiroaki, nella tua vita?
Quanti mostri, quanti fantasmi?

Yamaguchi Hiroaki si affondò le mani nei capelli neri, che aveva lasciato crescere nei mesi in cui la Leggenda aveva reclamato l’unica parte non marcia della sua famiglia. 

Hiro, Hiro, Hiro...

“Torna a casa.” Mormorò a se stesso. In quei mesi in cui sua nonna non riusciva più a guardare in viso nè lui nè la sua stessa figlia, Hiroaki aveva fatto pace con la propria voce spezzata e si era arreso al fatto che implorare il nulla fosse una necessità, una concessione che doveva fare a sè stesso se non voleva impazzire.
Ci sarebbe dovuto essere lui; avrebbe dovuto proteggere quella cosina piccola, fragile, sciocca che un giorno gli aveva sorriso ad un funerale. Vestita di bianco come una sposa. Come una principessa.
Hiro, voglio venire a Kobe con te.
Portami via da questi stronzi, da tutti questi volti.
E che luogo maledetto era Kobe, quando l’aveva negato a Miki. Freddo e senza nulla da offrire, senza nessuna distrazione che l’università potesse dargli senza che si ritrovasse puntualmente di fronte ad un vecchio libro sulla nascita del loro Paese. Nato dal sole, dall’Unione degli dei, dalla speranza; ma che speranza c’era, quando lo spirito della loro stessa storia si rivoltava contro i propri figli? 

Hiro, Hiro, Hiro…

“Torna a casa, stupida. Perchè ci metti così tanto? Torna a casa, qualunque cosa tu stia facendo.”
Stava impazzendo; e Yamaguchi Murasaki continuava a chiamarlo, sotto la voce spettrale di una Miki che poteva anche essere persa per sempre.

Hiroaki? Hiro. 
Hiro.

 

Quindi Marlena torna a casa
Che ho paura di sparire.

 
   
 
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