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Autore: mikimac    28/11/2018    2 recensioni
L'amore colpisce tutti. Spesso, quando meno te lo aspetti. Qualche volta, per chi non dovresti amare.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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Veleno
Il sole aveva iniziato il proprio cammino nel cielo da diverse ore, quando John emerse da un sonno senza sogni. Il suo primo pensiero andò al bacio, che aveva scambiato con Sherlock la sera prima. Con gli occhi ancora chiusi, si sfiorò le labbra con un dito, percependo quasi il calore lasciato da quelle del giovane Holmes. John sapeva che quel bacio era stato solo un sotterfugio, per la spia. Un modo per innervosire Mary e non farle capire che loro due erano entrati nella cantina. Era consapevole che non ve ne sarebbero stati altri. Che non sarebbe mai successo nulla fra loro. Eppure, quel bacio era stato un regalo, una ricompensa insperata per ciò che stava facendo. Per avere sposato Mary e messo in pericolo la propria vita per aiutare l’MI6 a scoprire in che cosa fossero invischiati i Morstan. Certo, gli importava ancora riabilitare la memoria del fratello, ma non era più il suo obiettivo principale. Gli piaceva aiutare Sherlock nella sua missione. Lo avrebbe fatto per tutta la vita, se i fratelli Holmes glielo avessero permesso.
Solo in quel momento John si rese conto che Mary non era a letto. Era strano, perché non era mai accaduto fino ad allora. Quando si svegliava prima di lui, Mary attendeva che John aprisse gli occhi oppure lo destava dolcemente. Probabilmente Mary era arrabbiata con lui per l’episodio del bacio, così aveva deciso di lasciarlo dormire. Era sicuro che la moglie non avesse sospetti sull’incursione che lui e Sherlock avevano compiuto in cantina o Mary gli avrebbe chiesto spiegazioni. Tutto stava andando bene. Tutto sarebbe andato per il meglio. Tranne il suo amore per Sherlock.


Veleno


Seduto nell’ufficio di Mycroft, Sherlock aspettava il fratello per confrontarsi sul caso Morstan. Il giovane Holmes non aveva dormito molto, ma il suo fisico non ne risentiva. Era abituato a dormire poche ore per notte, quando stava seguendo un caso. Era decisamente meno avvezzo a quei sentimenti confusi, scatenati dal bacio scambiato con John… con il dottor Watson. Era seccante non avere la situazione sotto controllo. In quel momento dell’indagine non poteva permettersi distrazioni, perché potevano essere fatali. Eppure, la sua mente continuava a tornare a quei pochi istanti. Al calore di John, stretto a lui. Alla sensazione delle loro labbra, che si sfioravano, si toccavano, si cercavano. La porta si aprì.
“Finalmente ti sei degnato di comparire. Pensavo che avessi deciso di lasciarmi in attesa nel tuo ufficio per tutto il giorno,” ringhiò Sherlock, in tono tagliente.
“Quanto sei impaziente, fratello caro. Che cosa devi fare di così urgente da non potete attendere la fine della mia riunione?” Ribatté Mycroft, andando a sedersi alla scrivania, nel suo ufficio bunker.
“Spero che non abbiate stabilito di scatenare una nuova guerra. Sarebbe noioso.”
“No. Nulla di così banale. Siamo preoccupati per la sostanza che hai trovato nella cantina dei Morstan. Ci vorrà del tempo per capirne la reale natura e i suoi possibili utilizzi. I tecnici dei nostri laboratori di analisi sono perplessi, dopo i primi risultati preliminari. Abbiamo deciso di inviarne un campione alla base segreta di Baskerville. Probabilmente è la migliore e la più adatta a risolvere il mistero. Stiamo aspettando che arrivi l’agente incaricato per il trasporto della sostanza, che deve essere fatto in assoluta sicurezza. Non sapendo di che cosa si tratti, potremmo scatenare una epidemia mortale senza avere l’antidoto per fermarla.”
“Posso portare io il campione a Baskerville,” si offrì Sherlock.
Mycroft alzò un sopracciglio, osservando il fratello. La sua espressione neutra non esprimeva ciò che stava pensando, ma Sherlock non aveva bisogno che il fratello parlasse, per sapere a quale conclusione fosse arrivato e quanto disapprovasse quella situazione.
“Potrei anche andare in Ucraina, per indagare su quella scomparsa di materiale radioattivo che ci hanno segnalato. So che volevi mandare Carter, ma io conosco la lingua locale molto meglio di lui,” continuò, ignorando il sopracciglio di Mycroft, che si alzava sempre più.
Con un sospiro, il maggiore degli Holmes allungò le braccia sulla scrivania, con le mani intrecciate: “Fuggire lontano non è mai servito a risolvere i problemi,” sentenziò.
“Non sto scappando. Mi sto offrendo per svolgere un lavoro più consono alle mie capacità. A questo punto, qualunque tuo tirapiedi di basso livello può tenere i contatti con il dottore. Anzi. Meno mi faccio vedere con lui, più probabilità abbiamo che i Morstan non capiscano di essere sorvegliati,” ribatté Sherlock, in tono secco e deciso.
“Ieri sera avete fatto qualcosa che potrebbe insospettire i Morstan?”
“Nulla.”
“Sicuro?”
“Sicuro.”
I due fratelli si fissarono negli occhi per alcuni interminabili secondi. Mycroft sapeva che Sherlock gli stava mentendo. Sherlock sapeva che Mycroft sapeva che lui gli stava mentendo. Nessuno dei due voleva distogliere lo sguardo per primo. Nessuno dei due voleva cedere, per non dimostrarsi debole. Alla fine, fu Mycroft a parlare: “Come vuoi tu, fratello caro. In fin dei conti, sei un uomo adulto, consapevole delle proprie responsabilità e del fatto che le azioni abbiano sempre delle conseguenze.”
“Quando parto?” Chiese Sherlock, scattando in piedi.
“Il campione è in sicurezza e pronto per il trasporto. Puoi partire anche subito, se è proprio quello che vuoi.”
“Perfetto. Sarà liberatorio non vederti per qualche giorno,” salutò Sherlock, lasciando l’ufficio.
Mycroft non fece commenti, ma controllò l’agenda. Il martedì seguente non aveva impegni importanti. Sarebbe stato interessante incontrare il dottor John Watson di persona e da soli.


John aveva fatto la doccia, si era vestito ed era sceso per fare colazione. Pensava che la moglie e il suocero fossero già andati in ufficio, quindi fu sorpreso dalle parole di Edgar: “Buongiorno, dottor Watson. Il signor Morstan e la signora Watson la stanno attendendo in giardino, per fare colazione insieme.”
“Oh. Grazie, Edgar. Li raggiungo subito.”
John uscì dalla portafinestra della grande sala da pranzo posta a piano terra. Mary e Theodore erano seduti a un tavolo da giardino, coperto da una lunga tovaglia bianca. Su un vassoio c’erano delle tazze e dei piattini. Edgar arrivò, portando caffè caldo, toast, burro e marmellate.
“Buongiorno, John, vieni. Ti abbiamo aspettato,” lo salutò Theodore.
“Grazie, non avreste dovuto. Spero che non farete tardi al lavoro per colpa mia,” sorrise John.
“Non ti preoccupare. Dato che ieri sera c’è stata la festa, avevamo già deciso che saremmo andati in ufficio più tardi,” ricambiò Mary, porgendo la guancia per un bacio.
John sfiorò il volto della moglie con le labbra e si sedette. Theodore gli allungò una tazza: “Il caffè lo prendi amaro, giusto?”
“Sí, grazie,” rispose John, sorpreso dalla gentilezza del suocero. Il medico si chiese perché l’atteggiamento dell’uomo fosse cambiato. Forse Mary gli aveva raccontato che cosa fosse successo la sera prima e Theodore era felice perchè sperava in una crisi che portasse al divorzio. Il caffè aveva un gusto un po’ strano, ma John decise di non lamentasi. Bevve tutto il caffè, senza notare il piccolo sorriso soddisfatto che increspò le labbra del suocero.


Il sole illuminava Kensington Park. La panchina era ombreggiata da un grande albero. L’uomo vestito elegantemente sedeva con le gambe accavallate. In una mano stringeva un ombrello nero. Gli occhi azzurri dell’uomo si posavano pigramente sui passanti, ricostruendo mentalmente le loro noiosissime e banali storie personali. Notò subito John. Lo vide incedere verso di lui con passo lento e incerto. Come se avesse bevuto. John lo aveva visto ed era sorpreso: “No. Deluso. In che guaio ti sei cacciato, fratellino?”
“Buongiorno, signor Holmes. Non mi aspettavo di vederla qui,” lo salutò John, sedendosi accanto a lui.
“Mio fratello è impegnato in altre missioni, così sono venuto a sentire come vadano le cose a villa Morstan. Uscire dall’ufficio ogni tanto non può che fare bene.”
“Non ho nulla di nuovo da riferire. Mary e Theodore conducono una vita casa e ufficio. Non parlano mai di lavoro in mia presenza. Gli uomini sospetti non sono più venuti,” riferì John, in tono stanco.
“I Morstan sospettano qualcosa dell’incursione in cantina?”
“No, sono sicuro che non si siano accorti di niente.”
Mycroft osservò meglio John. Un uomo normale, quindi banale, se paragonato a lui e a Sherlock. Eppure, qualcosa nel dottore aveva attratto il suo fratellino tanto da distrarlo dal caso. E l’interesse era ricambiato. Forse era un bene. Se John era arrivato al cuore di Sherlock, poteva diventare il partner che gli copriva le spalle. Finalmente suo fratello avrebbe avuto qualcuno che si sarebbe preso cura di lui. Con il suo passato militare e la sua preparazione medica, John Watson era il compagno ideale per Sherlock. Dovevano solo avere l’occasione per chiarirsi. Se il suo caro fratello non si fosse deciso a confessare  propri sentimenti al dottore, lo avrebbe costretto lui stesso. Mycroft notò in quel momento che il medico era pallido e appariva molto affaticato: “Si sente bene?”
“Sì. Ho mal di testa. Ho iniziato a lavorare in una piccola clinica nella periferia di Londra. Può darsi che abbia preso un po’ di influenza,” rispose John, prendendosi la radice del naso con due dita.
“Si prenda cura di se stesso, dottore. È importante che tenga le orecchie bene aperte. Non si sa mai quando possa scoprire qualcosa di utile.”
“Lo farò. Ci vediamo la prossima settimana, sempre qui?”
“Alla prossima settimana,” confermò Mycroft, inclinando la testa, in segno di saluto.
John si alzò e si avviò verso l’uscita. Mycroft lo seguì con lo sguardo per qualche secondo, poi si alzò e si avviò con passo indolente verso l’auto nera che lo stava attendendo.


Le colazioni in giardino erano diventate un’abitudine. Theodore era sempre gentile, mentre Mary era diventata un po’ più fredda. Dalla sera della festa non avevano più avuto rapporti. John si sentiva sempre stanco e i mal di testa peggioravano di giorno in giorno. Quella mattina Thomas Raynolds li aveva raggiunti e stava facendo colazione con loro.
“Allora, come va la luna di miele? Immagino che sia difficile fare gli sposini, quando si lavora tanto,” stava dicendo Raynolds.
“Non è importante quanto tempo trascorriamo insieme, ma la sua qualità,” sorrise John, stringendo una mano a Mary.
“Decisamente parole da uomo innamorato. – sogghignò Raynolds – Anche se l’amore fa male. Mi sembra molto pallido, John. Forse dovrebbe riposare un po’. Mary mi ha detto che lavora in una clinica.”
“Mi hanno assunto in una clinica di periferia. Il lavoro mi piace, ma, in effetti, in questo periodo mi sento stanco. Purtroppo Mary è impegnata o potremmo prenderci qualche giorno di vacanza,” ribatté John.
“Potreste venire nello Yorkshire. Ho una piccola, ma accogliente casa di campagna, proprio vicino alla nostra fabbrica. Potreste venire a trascorrere lì una breve vacanza. Per Mary sarebbe un’ottima occasione per visitare la fabbrica e supervisionarne la produzione, mentre lei, dottore, potrebbe riposarsi e cambiare aria. Alcuni giorni di tranquillità saranno più salutari di tante medicine,” propose Raynolds.
“Mary ha una fabbrica nello Yorkshire? Non me ne ha mai parlato. In che parte? Che cosa producete?” Domandò John, incuriosito.
“La fabbrica si trova…” iniziò a rispondere Raynolds, ma Theodore intervenne prontamente: “Tom, il tuo tea si sta raffreddando. John, questo è il tuo caffè. Bevilo, fintanto che è caldo.”
“Certo, grazie Theodore. Quando comincio a parlare, nulla mi ferma,” sorrise Raynolds.
“Grazie per il caffè,” aggiunse John. Il dottore avrebbe voluto riprendere a parlare della fabbrica, ma aveva l’impressione che il suocero avesse interrotto Raynolds di proposito e non voleva destare sospetti, ponendo altre domande relative alla fabbrica. Era sicuro che a Holmes sarebbe bastata quella piccola informazione per approfondire le indagini.
“Devo stare più attento. Rischio di mandare tutto a monte. Se solo la testa smettesse di farmi male,” pensò John, con un sospiro.


Era un’altra bella giornata estiva. Il sole splendente e il caldo piacevole riempivano i parchi di Londra con un’umanità variopinta. Sherlock era seduto su una panchina, all’ombra di un grande albero, in attesa di John. Era irritato dall’allegria e dalla felicità mostrate dalla gente presente nel parco. Il fratello lo aveva costretto ad andare all’incontro settimanale con John, malgrado le sue logiche e sensate rimostranze. Se l’idea di Mycroft nei panni di Cupido non fosse stata assolutamente ridicola, Sherlock avrebbe pensato che il fratello stesse tentando di trovargli l’anima gemella. Il giovane Holmes era rientrato da Baskerville il giorno prima. Le analisi effettuate sulla sostanza misteriosa procedevano a rilento. Non capendo di che cosa si trattasse, gli scienziati andavano per tentativi, prestando attenzione a non attivare la sostanza, se non in condizioni di massima sicurezza. Questa lentezza, però, esasperava Sherlock, che sperava in una rapida conclusione del caso per chiudere ogni rapporto con John Watson. Come materializzato da quel pensiero, John apparve sul sentiero che conduceva alla panchina. Il sole illuminava il suo viso pallidissimo, mentre l’incedere era incerto, quasi barcollante. Sherlock sentì una rabbia irrazionale crescere dentro di lui. Doveva esserci stata un’altra festa, durante la quale John aveva ecceduto con il bere: “Le vecchie abitudini sono dure a morire.”
Il medico notò la spia e il suo cuore ebbe una fitta fortissima. John non poté fare a meno di ammirare l’algida bellezza di Sherlock. Il desiderio di baciare le sue labbra rosse era quasi irresistibile, ma John sapeva che lo avrebbe solo indispettito, non conquistato. La stanchezza era diventata la compagna fedele e inseparabile del medico, che sentiva di non avere la forza di sopportare il disprezzo di Sherlock. Rassegnato a non essere ricambiato, John arrivò alla panchina e si lasciò quasi cadere sopra: “Buongiorno, signor Holmes. Bentornato dal suo viaggio. Mi era sembrato di capire che non si sarebbe più occupato di questo caso,” esordì John, con voce un po’ impastata.
“Infatti. Questa sarà l’ultima volta, in cui ci vedremo. Noto che ha fatto baldoria. È divertente vivere a villa Morstan. Ha tante occasioni per potersi ubriacare, senza che nessuno glielo possa impedire. Immagino che le mancheranno tutte queste feste, quando arresteremo sua moglie e suo suocero per complotto contro la Corona. Nel frattempo, cerchi di non lasciarsi scappare che lavora per noi, quando ubriaco. Penso che i Morstan non ne sarebbero contenti,” sibilò Sherlock, in tono tagliente.
“Ha ragione, non c’è nulla di più entusiasmante del vivere con Mary e Theodore. La loro cantina è ben fornita,” ribatté John, in tono stanco. Il dottore si sentiva svuotato di ogni energia e non aveva né la forza né il desiderio di litigare con Sherlock.
“Oltre a divertirsi, ha scoperto qualcosa di interessante?”
“Thomas Raynolds mi ha parlato di una casa nella campagna dello Yorkshire, vicina a una fabbrica di cui condivide la proprietà con Mary. Purtroppo Theodore è intervenuto prima che Raynolds rispondesse ad alcune domande che gli ho posto per avere più notizie. Non ho insistito, per non destare sospetti.”
“Mmmm. Ci faremo bastare questo. Non chieda informazioni. Siamo a un punto delicato dell’indagine. Una mossa sbagliata da parte nostra potrebbe rovinare irreparabilmente il lavoro di mesi.”
“Starò attento. – sospirò John, alzandosi faticosamente e dirigendosi verso l’uscita del parco – Non sia mai che con il mio comportamento sconsiderato io comprometta tutto.”
Sherlock osservò John fare alcuni passi incerti. Una parte di lui urlava che qualcosa non andava, ma la rabbia e la gelosia ebbero il sopravvento sulla sua parte razionale. John si fermò dopo pochi passi. Non si voltò indietro. Ogni movimento era troppo faticoso: “Allora addio, signor Holmes. È stato un piacere conoscerla e lavorare con lei. Almeno per me. Spero che il prossimo caso le porti più soddisfazione di questo,” salutò e riprese a camminare. Gli occhi bruciavano a causa delle lacrime di rabbia, che avrebbero voluto scivolare lungo le guance, ma non riuscivano. John non aveva le forze nemmeno per piangere per un amore mai nato.


La mattina seguente, stavano facendo colazione tutti insieme. Raynolds si era fermato alla villa per alcuni giorni, ma John non aveva scoperto nulla di nuovo. La stanchezza e il mal di testa erano così peggiorati, che il dottore aveva telefonato in clinica, avvisando che non vi sarebbe andato. Erano in giardino, come al solito. John aveva bevuto un goccio del proprio caffè e appoggiato la tazzina sul tavolo. Raynolds, accanto a lui, parlava in modo infervorato dei benefici della vita in campagna, rispetto a quella di città. L’uomo aveva finito una frase e si allungò per prendere una tazzina sul tavolo. Con un urlo quasi spaventato, Mary e Theodore bloccarono Raynolds, prima che bevesse il contenuto della tazzina.
“Quella è la tazza di John,” spiegò Theodore, con un sorriso imbarazzato.
Raynolds non fece caso all’episodio e riprese a parlare come se nulla fosse accaduto. John, invece, era stato sorpreso dalla reazione della moglie e del suocero. Alzò gli occhi su Mary e Theodore. Un brivido freddo gli percorse la schiena. Mary lo stava osservando in modo indifferente, come se tutto fosse normale. Theodore aveva uno sguardo gelido e feroce, pieno di soddisfazione. John guardò la tazzina di caffè e ricordò che negli ultimi giorni Theodore gliela aveva sempre servita piena. Sempre. Fu in quel momento che John capì. I suoi occhi si spalancarono, passando dalla moglie al suocero diverse volte. Incredulo. Inorridito. Mary e Theodore compresero che John aveva capito e lo sfidarono a reagire. A fuggire. A chiedere aiuto. John sapeva di non potere contare su Raynolds o Edgar o chiunque fosse presente a villa Morstan. Era solo. Debole. Indifeso. Era stato scoperto. Smascherato. Mary e Theodore lo stavano avvelenando. Uccidendo. Lentamente. Aveva detto addio a Sherlock Holmes senza sapere che quella sarebbe stata veramente l’ultima volta in cui lo avrebbe visto. Sopraffatto dal rimpianto e dalla disperazione, John scattò in piedi, sperando di potere fuggire. Le gambe lo tradirono, rifiutandosi di reggere il suo peso. La fitta alla testa fu insopportabile. E l’oblio avvolse John Watson.



Angolo dell’autrice

Preoccupati per John? Come darvi torto? Soprattutto visti certi miei trascorsi.
Grazie per essere arrivati fino a qui. Il prossimo capitolo sarà quello conclusivo.

Grazie a emerenziano e a meiousetsuna per la recensione allo scorso capitolo.

Alla prossima e ultima settimana .
Ciao!
   
 
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