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Autore: Koa__    24/12/2018    8 recensioni
La sera della vigilia di Natale, Sherlock di malavoglia rientra a casa. È arrabbiato perché tutti sembrano preferire le feste al lavoro e si rifiuta di farsi coinvolgere dall’atmosfera natalizia. A Baker Street intanto, John e Rosie si stanno preparando per andare a cena da Mycroft e Lestrade, i quali hanno organizzato una festa per quella stessa sera. Ma Sherlock si rifiuta di seguirlo, ritenendo il Natale un stupidaggine e per questo i due litigano. Rimasto solo, Sherlock riceverà la visita del fantasma di Mary Morstan, la quale è tornata per annunciare la venuta di tre spiriti che lo porteranno a vedere i Natali passati, il Natale presente e i Natali futuri.
[Ispirato al: "Canto di Natale" di Charles Dickens]
‘Storia partecipante al ‘Mille e una fiaba contest’ indetto da Emanuela.Emy79 ”
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L’ultimo degli spiriti
 
 
 


 
Afferrò, nell'angoscia che lo straziava, la mano dello Spirito.
Questi cercò divincolarsi dalla stretta, ma Scrooge pregava e teneva forte.
Lo Spirito, più forte di lui, lo respinse.

 
 


 
Sherlock Holmes era un uomo estremamente intelligente, quasi tutti lo sapevano a Londra e i pochi che invece lo ignoravano probabilmente, Sherlock Holmes, non sapevano nemmeno chi fosse. Perciò, e nonostante la tempesta emotiva che lo agitava, non impiegò un granché per capire che era stato il terzo spirito a giocargli quel brutto tiro. Senza rendersene conto si era infatti ritrovato su una collinetta circondata da una nebbia fitta e bassa, nella quale aveva provato a farsi largo, allo stesso modo di come avrebbe fatto se si fosse trovato in una folla di gente. Non che l’agitarsi tanto servì a molto, cinque abbondanti minuti più tardi ancora non aveva la minima idea di dove stesse andando. E neppure gliene importava: doveva muoversi o sarebbe morto congelato, e poi era sicuro che lo spirito si sarebbe palesato prima o poi. Imperterrito, iniziò quindi a camminare senza preoccuparsi della neve fresca nella quale sprofondava fino alle ginocchia. Più andava avanti e meno riusciva a orientarsi, quindi e dopo essersi guardato attorno, prese la decisione d’inerpicarsi su per una salitina piuttosto ripida. Magari, se avesse raggiunto la cima di una montagnetta e pur bassa che fosse, avrebbe dominato il paesaggio. Quando però riuscì a guardare di sotto non vide un accidenti di niente. Era troppo buio, la luna era del tutto coperta da una spessa coltre di nubi, nevicava copiosamente ed era quasi impossibile tenere gli occhi aperti. Eppure, neanche questo riuscì a fermarlo. Era determinato a uscire da quella brutta situazione e stava già muovendo alcuni passi in avanti in direzione una terza collina, quando lo vide. Una strana figura, in lontananza. Era un fantasma, ne era più che sicuro, ormai poteva dirsi un esperto in materia. Questi non brillava come i precedenti, ma risplendeva comunque di una luce sufficiente a illuminare i contorni di ciò che lo circondava. Perché lo aveva portato in mezzo al nulla? Si domandò. Cosa poteva mai esserci per lui in piena campagna, o dove diavolo si trovava? Cosa serbavano i prossimi Natali a una persona come Sherlock Holmes? A un qualcuno che era vissuto rifiutando i sentimenti e allontanato tutto e tutti? Lui che aveva ucciso, sebbene per amore, che aveva fatto soffrire l’unica persona che lo avesse mai voluto accanto? Invero, Sherlock credeva di saperlo. Era certo di conoscere l’orrenda sorte che gli sarebbe toccata e sì, probabilmente se lo sarebbe anche meritato. Se ne disse sicuro mentre si avvicinava all’ultimo dei tre spiriti. La forza delle proprie convinzioni avrebbe potuto far pensare che in lui ci fosse una discreta baldanza, insomma della saccenza bella e buona. In verità era più spaventato che mai e soprattutto perché, a guardarlo, quello spirito faceva davvero paura. Costui era molto alto e aveva il viso coperto da un cappuccio nero che gli calava sulla fronte. Di sé mostrava soltanto una delle due mani, magra tanto da sembrare scheletrica, che teneva tesa in sua direzione e gli faceva cenno d’avvicinarsi. Con l’altra, invece, stringeva una lunga falce che aveva puntato al terreno. Non parlava ma non era necessario che lo facesse, né che si presentasse. Quella era la morte o, meglio, lo era nella sua rappresentazione più ovvia. Questi spiriti dovevano avere un macabro senso dell’umorismo o era così o avevano letto Dickens, non c’era altra spiegazione.


«S-sei» balbettò, una volta che si fu avvicinato. Provava uno strano miscuglio di sentimenti ai quali si univano pensieri contorti. Non aveva paura dello spirito, perché sapeva che non avrebbe potuto fargli alcun male. Era se stesso, che temeva. Era terrorizzato dal proprio futuro e non voleva avere la conferma di ciò che già sospettava. Al tempo stesso non vedeva l’ora di scoprire cosa fossero venuti a fare in un luogo tanto sperduto. Un controsenso dettato principalmente dall’inquietudine, dal timore reverenziale che stare al cospetto della morte gli scatenava. Lui che l’aveva sempre evitata e che aveva usato l’intelletto per beffarla, prendendola quasi in giro. Lui che ci aveva giocato e che aveva finto d’esserne caduto preda, adesso se la trovava davanti. Ora non esisteva scappatoia, né trucco che potesse utilizzare per salvarsi. Perché non era lei il vero nemico, ma quelle sue stesse orribili azioni che non gli avevano portato altro che sofferenza e solitudine.


«Sei lo spirito dei Natali futuri?» Di nuovo, però, la morte non rispose. Si limitò ad annuire con un cenno impercettibile, cosa che gli diede il coraggio di porre un’altra domanda. La stessa che gli girava in testa fin da quando aveva visto John oltre il vetro della finestra, là nella villa di Mycroft. Da allora, un tarlo gli si era insinuato dentro e non accennava  a volersene andare. Lo spirito del Natale presente non era stato in grado di rispondere adeguatamente, il che lo faceva vivere nel dubbio e lui odiava non sapere le cose.
«Spirito, ho bisogno di sapere: cosa ne sarà di John e me?» A quel punto la morte sollevò un braccio, indicando un punto poco distante. Là, oltre un’ormai rada schiera di alberi spogli e dai rami innevati, sorgeva un minuscolo cimitero. Non era uno dei tanti di Londra e di questo poteva dirsene sicuro, dato che li avrebbe riconosciuti persino al buio. No, questo era differente e non aveva bisogno di arrovellarsi il cervello in cerca di riposte, si trattava di Musgrave. Se ne era ricordato immediatamente attraverso i racconti di Mycroft su quelle strane lapidi dalle date sbagliate. Si trattava di un cimitero davvero molto piccolo, posto in un angolo del giardino posteriore alla casa. L’erba estiva e non curata dei racconti di suo fratello era adesso sparita, seppellita sotto a un manto bianco che copriva ogni cosa. Uno spettacolo in egual misura tetro e affascinante. Mentre osservava le lapidi spuntare dalla neve fresca, Sherlock non poté non domandarsi perché lo avesse portato in un luogo del genere. Ma immediatamente dopo aver formulato il pensiero, già si stava dando dell’idiota. Era evidente che qualcuno fosse morto e che, successivamente, fosse stato seppellito lì e non ne avrebbe cavato niente da astruse deduzioni o tentativi d’indovinare, doveva soltanto avvicinarsi. Deciso conoscere tutta la verità, riprese quindi a camminare. Aveva smesso di nevicare e la nebbia si era dissolta, il che gli permetteva di vedere dove metteva i piedi. Il freddo restava però intenso e i suoi movimenti sempre più maldestri. In effetti non si preoccupava granché del clima troppo rigido o del gelo che gli penetrava fin dentro le ossa, il suo cervello era impegnato a elaborare possibili scenari, uno più nefasto dell’altro. Di certo tutto quanto aveva a che vedere con la morte e più ci pensava, più si convinceva che fosse la sua. Dedurlo era stato fin troppo semplice. Ora doveva soltanto sapere come fare per evitarlo e, soprattutto, voleva capire se anche il suo John sarebbe stato o meno in pericolo. In fondo, soltanto di questo gli’importava. Voleva sapere, anzi pretendeva di saperlo perché salvare John Watson era tutto ciò che contava al mondo. E quindi procedeva deciso verso il cimitero, con una vestaglia che finiva costantemente sotto ai piedi, facendogli perdere l’equilibrio. Marciò a lungo e per così tanto che a un certo momento cominciò a pensare che la sua meta fosse irraggiungibile. Stava già per perdere le speranze quando, senza capire come, si ritrovò disteso faccia a terra.
«Dannazione» imprecò mentre tentava malamente di tirarsi su, ma un qualcosa fermò con prepotenza la sua risalita, già perché fu allora che la vide. Era in cerca di un appiglio al quale aggrapparsi e nel tentativo di scorgere rami o dell’altro che potesse andar bene, lo sguardo gli cadde su una tomba in particolare. La luce era ancora troppo scarsa per leggere ciò che diceva l’inscrizione, ma grazie a quella poca che c’era aveva capito che si trattava di una piuttosto recente. Decisamente nuova rispetto alle altre che avevano invece cinquant’anni o più. Inoltre, quella era l’unica a esser decorata con fiori freschi ovvero il segno che qualcuno era appena stato a onorarla. Un viaggio scomodo, dedusse, da qualsiasi direzione giungesse il visitatore perché per arrivare fino a Musgrave occorrevano parecchie ore di macchina da Londra. [1] Quindi il morto era stato importante per qualcuno, una persona amata. I fiori erano belli, discreti, ma significativi. Il segno evidente che il visitatore doveva aver voluto bene al defunto; ma chi potevano mai essere i protagonisti di questa triste storia? Pur credendo di saperlo, non riusciva a non farsi delle domande. Era sempre stato un tipo curioso, desideroso di svelare tutti i piccoli puzzle che gli venivano sottoposti. Ma in quella notte, vuoi per il freddo o per la preoccupazione che non la smetteva di crescere, Sherlock Holmes, di giocare, proprio non ne aveva voglia. Si mise quindi a sedere a gambe incrociate, ignorando il gelo e i pantaloni che si bagnavano in maniera fastidiosa. Dopodiché incrociò le braccia al petto, era arrabbiato e stanco e non vedeva perché non potesse farsi valere. Non sapeva cosa stava succedendo e l’ignoranza lo innervosiva.


«Spirito» disse, ma questi continuava a non guardarlo nemmeno. «Spirito, chi è sepolto qui?» Questa volta aveva gridato e lo aveva fatto con una punta di disperazione nel tono della voce. Lo aveva fatto mentre, con le dita, tastava le incisioni sperando che potesse servirgli a qualcosa. Nonostante gli sforzi, però, riusciva in ben poco. Le mani tremavano e la paura gli congelava i sensi, divorandogli il cuore e impedendo al suo cervello di ragionare lucidamente.
«Ti prego, dimmi di chi è questa tomba» gridò, faticando a trattenere quel pianto che bagnava i suoi occhi. No, non erano capricci, quelli si erano infranti minuti prima davanti all’indifferenza della morte. Si erano sciolti alla stessa maniera di come avrebbe fatto quella neve sotto a un sole d’agosto. Questa, al contrario, era disperazione. Era il dolore, la paura di sapere perfettamente cosa stesse succedendo ma il non volerlo accettare.  Era il cercare di capire e il conseguente non riuscirci. Era il tentativo, malriuscito, di trovare una soluzione. E quindi tremava e intanto gli occhi pizzicavano ferocemente mentre l’angoscia iniziava a crescere. Sfiorava la lapide con frenesia, non riusciva a molto ma ancora non si era arreso. No, non l’avrebbe mai fatto. Non fino a che non avrebbe avuto la certezza che John era al sicuro.


«Dimmi chi è.» Le sue urla erano mutate, non era più un grido disperato ma somigliavano a una preghiera addolorata. Lo implorava di dirglielo perché non sapere era una tortura più grande della tortura stessa. E quindi continuò ancora e ancora, a strepitare come se la sua fosse una sofferenza vera. Urlò tanto da sgolarsi e sino a che lo spirito non si decise a parlargli. Non seppe dire che cosa fu a convincerlo, se la pietà che suscitava o se finalmente si era deciso a smettere di giocare, ma finalmente accadde. E la morte scelse la maniera peggiore di farglielo sapere perché nell’istante stesso in cui decise di mostrarsi in viso, Sherlock si sentì morire. A pensarci, nemmeno avrebbe avuto bisogno di guadarlo in faccia. Chi era, lo riconobbe dalla voce. Era profonda e baritonale, fastidiosamente atona. Una voce che gli apparteneva in tutto e per tutto, ma che non era uscita dalle sue labbra. Il terzo spirito aveva assunto proprio il suo aspetto.
«Ma sei tu, mi pare ovvio» cantilenò quello Sherlock Holmes e sì, era spaventoso. Era del tutto impazzito, stava per caso parlando con se stesso. Ma perché? Per quale motivo aveva preso proprio quella forma? Perché non qualcun altro? Avrebbe saputo affrontare Moriarty o Magnussen o chiunque altro gli si fosse parato davanti, ma non se stesso. Non Sherlock Holmes. Non l’uomo che combatteva da tutta una vita.
«Perché proprio io?» domandò, esasperato. Il terzo spirito però non lo stette a sentire, al contrario gli diventava sempre più simile. Espressioni, modi di fare, quell’atteggiamento di superiorità col quale se ne andava in giro… sembrava quasi di guardarsi dentro a uno specchio. Se non fosse stato per la faccia che era sicuro di avere, e che non trasudava certamente noia, avrebbe creduto seriamente di trovarsi di fronte a un proprio riflesso.

 
La prima cosa che fece fu di spaventarsi e di farlo per davvero. Il Natale futuro lo guardava e, negli occhi, aveva una vena accentuata di disprezzo. Aveva un’espressione quasi di disgusto, in volto, come se ogni cosa lo annoiasse o desse fastidio. Era quella l’idea che il resto del mondo aveva di lui? Era così che la gente lo percepiva? Freddo, annoiato e schifato? No, non poteva essere. Sherlock sapeva di dar di sé una pessima impressione, aveva fiumi di prove dalla sua e così tanti esempi da poterci riempire un libro. Era sempre stato convinto però che fosse semplicemente insopportabile o di non piacere alla gente, non credeva che le persone lo vedessero in quel modo. Questo era ciò che invece aveva sempre mostrato e quel che ne aveva raccolto era morte e solitudine. Eppure, dentro di sé sapeva di essere capace di sentimenti profondi e adesso ne aveva anche una certezza. Non seppe spiegare il motivo, ma mentre seguitava a fissare lo spirito, gli venne in mente suo fratello. Aveva sempre creduto che non fossero troppo diversi e invece si rendeva conto che, in realtà, erano diametralmente opposti. Tutto ciò che faceva Mycroft era indossare una maschera, ne portava una per ogni occasione e con la stessa dimestichezza con cui indossava un abito gessato di sartoria. Invece dentro era un uomo maturo e conscio dei propri sentimenti. Semplicemente si limitava a nascondersi dal mondo che frequentava, una conseguenza piuttosto logica del lavorare tra le spie. Ma Sherlock, oh, lui si era convinto di non provare affatto alcun tipo di emozione. La macchina senza sentimenti che cercava la solitudine e aborriva ogni genere di contatto umano; così si era descritto per tanti e tanti anni. E, beh, non era vero. Non lo era mai stato e, da perfetto idiota qual era, aveva creduto che fossero gli altri a essere stupidi quando in realtà il problema era dentro di lui. Sì, la vide proprio in quel momento, la convinzione che gli moriva lì davanti agli occhi. La stessa che aveva iniziato a venire meno già da tempo, quando aveva conosciuto John Watson. Al suo posto nacque una consapevolezza, s’affacciò in modo timido salvo poi iniziare a crescere: non voleva più essere così.


«Mi pare ovvio che sia la tua tomba» proseguì il Natale futuro, aveva arcuato un sopracciglio e mostrava un’aria annoiata. Dal piccolo angolino che s’era ritagliato, seduto ancora a terra e immerso tra la neve, Sherlock si rese conto di non volerlo guardare. Perché vedersi per ciò che si era veramente era terrificante e lui odiava se stesso per ciò che era diventato. Detestava profondamente quello sguardo vuoto e senza ombra di empatia, perché non era così. Oh, non lo era mai stato. E quindi chiuse gli occhi con forza e poi nascose il volto tra le mani, ben deciso a non muoversi da lì. Era sicuro che non si sarebbe mai mosso, se non che a quel punto una luce prese a illuminare lo spazio circostante. La dicitura era adesso chiaramente leggibile ed era proprio come aveva dedotto. Su quella lapide di candido marmo bianco, inciso in caratteri dorati, c’era proprio il suo nome. Subito a fianco, invece, quello di John. Vicini, uno accanto all'altro. Erano morti entrambi, deceduti a pochi giorni di distanza.

 
Sherlock sentì l’orrore crescergli dentro e un senso d’impotenza allargarsi. Un conato di vomito gli salì in gola, sconquassandogli lo stomaco e facendolo tremare in modo vistoso. Con il cuore che batteva all’impazzata e la paura a torcergli le viscere, si avvicinò alla scritta. In cuor suo sperava ancora di sbagliarsi, ma razionalmente sapeva d’aver letto giusto. La sua morte era avvenuta proprio in quel ventiquattro di dicembre. Alla vigilia di Natale mentre tutti erano intenti a festeggiare a casa di Mycroft, Sherlock Holmes moriva da una qualche parte a Londra. Cosa poteva essere successo? Era tornato a casa con l’intenzione di rimanerci e non di uscire a indagare su qualcosa, ed era anche sicuro di stare bene fisicamente. Quindi cosa poteva essergli accaduto? Immediatamente, però, accantonò il pensiero. Aveva dimenticato un dettaglio in tutto quello: John Watson. John che lo aveva seguito soltanto qualche giorno più tardi. Come poteva essere possibile? Forse un rapitore? Un assassino seriale? Un maniaco che ce l’aveva con entrambi? Non poteva saperlo.
«Dimmi com’è successo» urlò, preda di una disperazione che saliva e montava dentro sino a diventare incontrollata. Era caduto in ginocchio e intanto sfiorava il nome di John con le punte delle dita. Tremava e il freddo lo intirizziva, si sentiva preda della disperazione e non gliene importava di farlo capire. Che lo spirito lo giudicasse pure, lui era stanco di nascondersi. E celare il dolore non sarebbe comunque servito a niente, quindi preferiva evitare lo sforzo.
«Dimmi chi è stato.» Il suo grido non si spense subito tra le lapidi del cimitero di Musgrave, ma riverberò ancora e ancora nella gelida campagna inglese. Non era possibile, continuava a ripetere quasi fosse stata una preghiera. Aveva fatto ogni cosa pur di salvargli la vita. Perché? Dove aveva sbagliato? Com’era potuto succedere?
«Sei stato tu a uccidere John Watson, e chi altri se no?» lo prese in giro lo spirito, divertendosi ancora a giocare con le sue fattezze. Si trovava orribile e aveva schifo di ciò che scorgeva attraverso il volto del fantasma. Odiava persino sentirlo parlare, quella voce gli dava fastidio. Se fosse stato più lucido avrebbe capito di essere ben diverso dal modo in cui lo dipingeva. Sherlock sapeva di essere anche dolce e divertente, timido in molte delle cose che diceva e molto più insicuro di quanto non sembrasse. Mycroft, in questo, era sempre stato il suo occhio vigile. L’unico ad aver capito del suo coinvolgimento con John Watson, la sola persona ad aver compreso davvero quanto quel matrimonio l’avesse distrutto. Ma Sherlock, di tutto quello, non capiva niente di niente. Gli sembrava di non esser mai stato davvero un umano, di essere un mostro senza un cuore. E si era convinto che la sua punizione a un simile comportamento fosse proprio la morte di John. Sì, se fosse stato più ragionevole e non ottenebrato dal dolore, avrebbe certamente capito che lo spirito si stava divertendo a mostrargli il lato peggiore. Ma in quei momenti non riusciva in nulla. Nemmeno a pensare. E quindi si ritrovò a darsi la colpa di tutto, a maledire il suo non esser stato capace di sopravvivere alla scomparsa di Victor Trevor. Il suo aver imitato Eurus in tutto e per tutto. Magari, se avesse agito diversamente, sarebbe stata una persona diversa. Migliore, forse.
«Non posso essere stato io» gridò «io lo amo, l’ho sempre amato.»
«Tu non hai voluto ricambiare il suo amore» iniziò il Natale futuro, aveva cambiato modo di parlare, mostrava una certa dolcezza e una punta di comprensione e al punto che non somigliava più allo Sherlock Holmes che si era divertito a impersonare fino a quel momento. Dal canto proprio e pur senza riuscire a smettere di disperarsi, Sherlock scelse invece il silenzio. Lì, come stava, inginocchiato davanti alla più bruciante sconfitta della sua vita, decise che era più saggio tacere. Le lacrime ancora gli solcavano le guance, strozzandogli quel poco di voce rimasta. Le mani, giunte come in una preghiera, davano l’impressione che lo stesse implorando e che stesse chiedendo allo spirito di fare qualcosa per salvarlo. Tutto ciò che fece, però, fu di starlo a sentire.
«Non sei andato a quella festa e così facendo hai scelto la solitudine, hai scelto un’esistenza senza amore e quella notte hai trovato ciò che cercavi.»
«Che cosa mi è successo?»
«Sei morto, Sherlock. Un tuo nemico è entrato in casa, non importa chi fosse o cosa volesse. Non te ne sei accorto e le difese di tuo fratello erano abbassate, dato che si trattava della vigilia di Natale. Tu eri nel tuo palazzo mentale e, beh, fai due più due su. Non sei forse tu il genio? Questo caso è tanto semplice, che il famoso detective col cappello lo avrebbe risolto in meno di un minuto. È entrato e ti ha ucciso e sì, mi rendo conto che è una maniera molto stupida di morire e soprattutto per un qualcuno di così brillante e intelligente.» In silenzio era rimasto ad ascoltare il racconto orrendo di quella morte ingiusta. Era già successo? Era morto? Oppure era ancora in tempo per salvarsi?
«Perché anche John si trova qui? Cosa gli è successo?»
«Ah, già, c’è anche quel tuo cane da guardia con cui te ne andavi in giro, il tuo personalissimo bodyguard» disse lo spirito, facendo roteare la falce quasi si fosse trattato di un giocattolo. «Per farla breve, il tuo animaletto da compagnia non ha retto senza di te. Era talmente innamorato che non ha sopportato di perderti per una seconda volta e così si è suicidato. Bam!» urlò «un colpo in testa, sai stringeva una tua fotografia mentre lo faceva. Poi tuo fratello vi ha seppelliti qui insieme. Non trovi sia tristemente romantico? Ah e lui e Lestrade hanno deciso di occuparsi di Rosie. Povera bambina, ha perso ben tre genitori e sai cos’è ancora più patetico? Mary, John, tu stesso… siete morti tutti quanti per colpa tua.»


«No» urlò e lo fece con quanto fiato aveva in corpo. Non poteva crederci. Non era vero, non poteva. Doveva essere tutto quanto un sogno, non c’era altra spiegazione. Sì, Mary era morta per un suo errore perché aveva infranto una promessa e questo ormai l’aveva accettato. Ma John suicida, non lo avrebbe mai permesso e a costo d’invertire il tempo e mandare all’aria l’ordine naturale delle cose. La sua era una promessa, una…
«Ne hai già fatti di voti e guarda a cosa ti hanno portato» lo canzonò la morte con la voce di Sherlock Holmes. Indicava la tomba e rideva di gusto. Rideva in modo sinistro e spaventoso. Aveva ragione, la morte aveva ragione: le sue promesse giurate valevano meno di niente. I voti che aveva fatto non erano serviti a nulla. Aveva già fallito in passato, cosa gli avrebbe fatto pensare che sarebbe riuscito adesso? E a combattere contro la morte, poi. Il suo era un incubo, ecco cos’era. E lo spirito aveva ragione, era colpa sua. Da quando aveva conosciuto John e persino da ben prima d’aver capito d’esserne innamorato, aveva fatto di tutto pur di tenerlo in vita. Aveva ucciso, si era finto morto e aveva girato il mondo soltanto per stanare i complici di Moriarty e fare in modo che l’uomo che amava potesse essere al sicuro. Aveva poi accettato sua moglie, voluto bene a sua figlia e al punto da pensare a Rosie, sebbene in maniera segreta e mai dicendolo a qualcuno, quasi fosse stata anche un po’ sua. Avrebbe sacrificato se stesso mille volte se soltanto si fosse rivelato necessario. Di certo aveva compiuto azioni orribili, ma non si era pentito di niente. E tutto questo lo aveva portato dove? A nulla. Perdersi in quel modo e dopo non essersi amati affatto, no, non lo poteva sopportare. Doveva fare qualcosa per salvarlo, per salvare entrambi. Per dare a Rosie la famiglia che meritava d’avere. Gli altri spiriti avevano detto che non era troppo tardi e anche Mary aveva farfugliato qualcosa del genere, quindi era ancora in tempo per sistemare le cose e accettare i sentimenti nella sua vita. Perché era questo il punto, doveva far entrare l’amore e non essere più solo. E questa non era una promessa, era un impegno per la vita. Niente: “farò” o “dovrò” perché da qualche parte ci doveva essere anche un futuro felice, un Natale di gioia e risate invece che di morte e disperazione. Doveva esistere un futuro in cui lui e John litigavano per delle sciocchezze e nel quale si amavano alla luce del sole, vivendo tra casi e una figlia da crescere. Era possibile, doveva soltanto crederci. Credere d’essere ancora in tempo per poterlo realizzare. Credere di poter cambiare e di farlo per davvero.


«No, niente di questo si avvererà, spirito» enunciò con fare solenne. Si era alzato in piedi e lo guardava negli occhi con aria di sfida. «Io lo giuro solennemente, spirito e lo faccio qui davanti a te: cambierò. E non è una promessa la mia, ma un fatto. Io cambierò e lo farò per l’uomo che amo, mi hai capito?» Urlava, Sherlock Holmes. Lo faceva con tutto il fiato che aveva in corpo. Urlava in quella maniera  furiosa di chi ormai non ha più niente da perdere e tutto da salvare. Gridava anche con l’anima e al punto da perdere la voce, ma questa volta le sue urla si spensero nell’ormai rada nebbia di quella notte. Lo spirito dei Natali futuri era scomparso, svanito nel nulla. Lui era di nuovo solo.


«Mi avete sentito? Cambierò, fosse anche l’ultima cosa che faccio.» Ma di nuovo gli parve che le sue grida finissero in niente, inascoltate. Dovevano starlo a sentire, dovevano sapere che ci credeva per davvero, pensò lasciandosi cadere contro la lapide. Cambierò, sussurrò di nuovo, sconfitto e dilaniato dal dolore.
«John» mormorò, baciandone nome inciso sulla lapide tra lacrime salate e marmo freddo. Fu allora che pianse e che lo fece davvero, pianse con tutta l’anima che si piegava sotto a un dolore senza confini.
«Ti amavo così tanto» diceva e intanto il male diventava insopportabile, fisico nel modo che aveva di manifestarsi. La nausea lo tormentava, il mal di testa lo fiaccava e le membra parevano voler cedere sotto al peso dell’impotenza. Piangeva e intanto anche i sensi si spegnevano. Poco a poco, Sherlock desiderò seppellirsi per davvero là sotto. Voleva chiudere gli occhi e sparire. Scomparire per sempre.
«Cambierò» sussurrò per un’ultima volta e si sarebbe lasciato morire lì, ormai aveva deciso e niente lo avrebbe fatto desistere da quel proposito.

 
Successe a quel punto, tutto a un tratto la terra iniziò a tremare sotto ai suoi piedi. Istintivamente pensò a un terremoto, ma poi fece caso al fatto che la terra pareva vibrare soltanto in corrispondenza della sua tomba. Fu allora che si aprì un’enorme voragine e che ogni cosa parve dissolversi, da Musgrave al cimitero. Dalla neve agli alberi radi, dai rami appesantiti e cadenti. E un istante più tardi, Sherlock era franato giù di sotto. Scomparso dentro una buca enorme, tra fiamme infernali che bruciavano tentando di afferrarlo. Lo volevano inghiottire, si rese conto. Era come se avessero sentito i suoi pensieri, avverando quella che era la sua volontà. Ma lui lo desiderava davvero? Fino a un attimo prima si era detto di voler morire ed essere seppellito lì. Ora però che il suo desiderio si stava avverando, era sicuro di non volerlo più. Lui doveva vivere e amare. E doveva farlo per John e per Rosie, per suo fratello e Lestrade e per tutti quanti i suoi amici. Quindi non si arrese, al contrario e aggrappandosi all’amore che provava per John e alla volontà di non lasciare che la morte vincesse, afferrò una radice e la strinse con forza. Aveva paura, ammise. Sì, aveva paura di morire perché era un essere umano e non una macchina senza sentimenti. E, di paura, ne ebbe così tanta che chiuse gli occhi, rifiutandosi di guardare. Il suo ultimo pensiero non fu nient’altri che John.
 
 
 
 
Continua
 
 
 
 
 

[1]Non mi è chiaro dove si trovi Musgrave (un’altra delle cose non chiare di quell’episodio) quindi ho ipotizzato che potesse trovarsi a una distanza ragguardevole da Londra, ma è una mia supposizione.

Note: Avrei dovuto postarlo domani, ma mi sono resa conto che potrei non avere il tempo materiale per mettermi al computer, e quindi ho preferito farlo in questa giornata di libertà. La storia è quasi finita, manca soltanto la parte finale che metterò il 26. Ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito fino a questo momento, auguro un Buon Natale a tutti.
Koa
   
 
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