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Autore: Claire DeLune    04/01/2019    0 recensioni
[Crossover DF-Eldarya-Howl's Moving Castle]
Il Q.G. aveva bisogno di cibo, le riserve iniziavano a scarseggiare e ancora ad Eldarya non si era trovato un modo per sostenere un'agricoltura stabile e autoctona. Per sopperire alle mancanze in fretta, Miiko decise di inviare nel nostro mondo due dei suoi migliori collaboratori, i capi della Guardia dell'Ombra, Nevra, e della Guardia dell'Assenzio, Ezarel. Ma in realtà era solo un pretesto, il vero motivo per cui li aveva mandati in avanscoperta sulla Terra era per ritrovare Valkyon e Leiftan, misteriosamente scomparsi durante l’ennesima missione di rifornimento.
Tuttavia, qualcosa è andato storto: il cerchio di funghi ha chiuso il passaggio da una dimensione a un'altra prima del previsto. I due, bloccati proprio in quel mondo da cui tempo addietro erano scappati, dovranno ora trovare il modo di tornare a casa, e per farlo dovranno affidarsi ad una giovane apprendista strega e a un mezzo-vampiro aberrante nei confronti della stirpe da cui discende, e dei vampiri stessi.
Non sarà affatto semplice, ma nella Boutique 'J' tutto è possibile, anche l'impossibile.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Chani, Dolcetta, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Cross-over, OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.
In cui Nilsa viene assunta in uno strano negozio
 
   Come avevi sempre temuto, non sei durata molto al Cosy Bear Cafè.
   Clémence ti ha licenziata alla prima occasione, al primo errore, tutto pur di tenermi lontana dal suo adorato Hyun.
   Lei e la sua ridicola gelosia, sintomo di una qualche strana forma di crisi di mezza età. Gelosia talmente radica e accecante che, miscelata al preoccupante istinto predatorio da MILF, le impedì di notare che non hai mai nutrito il ben che minimo interesse nel timido, altruista e amichevole coreano e che, ammesso il contrario, ha avuto l’effetto collaterale di prosciugarle via quel minimo di logica sufficiente a tenerle presente che, se volessi, avresti tutte le opportunità di questo mondo volte a tuo favore, per farlo cadere ai tuoi piedi. Cosa forse già accaduta…
   Il pretesto nello specifico sembra quasi una barzelletta, rievocandolo adesso alla memoria.
   Stavi oltrepassando la porta a vetri del bar con un vassoio straripante di bicchieri e tazze vuote che imploravano di essere messi in lavastoviglie – dannati liceali –, ma, mentre ti accingevi a raggiungere Hyun al bancone, un gatto rosso striato ti sfrecciò tra le gambe alla velocità della luce, facendoti perdere l’equilibrio. Cadesti rovinosamente a terra e con te le porcellane, che si frantumarono in mille pezzi tutt’intorno. Fu una fortuna che, tralasciando il tuo ego e il tuo tergo, tu non ti sia ferita.
   Clémence, udendo il frastuono, uscì dalla cucina come una forsennata, coi capelli raccolti in una crocchia scomposta, il grembiule macchiato qua e là di farina e confettura, le maniche della blusa aderente leopardata risvoltate sino ai gomiti, e le braccia sollevate a mezz’aria per non sporcarsi d’impasto. Se possibile, sembrava ancora più vecchia così. Più vecchia e zozza di quanto non fosse già normalmente.
   I suoi occhi nocciola, contornati dal trucco pesante, vagarono per tutta la sala, dal gatto che si leccava indifferente in un angolo, ai frammenti del servizio sparsi a terra, fino alle mani di Hyun che ti aiutavano a rimetterti in piedi ancora sconclusionata, spazzolandoti via qualche briciola.
   L’incarnato del suo volto cambiò gradatamente tonalità, in linea con la sua rabbia, da un rosa vivace a un’incandescente pervinca, e man mano che una nuance lasciava posto ad un’altra, la sua espressione si deformava sempre più con essa. Le sue iridi divennero infuocate, le orbite tonde, gonfie e sporgenti come quelli di un’oranda telescopio, mille zampe di gallina si ramificarono agli angoli esterni dove le palpebre si congiungevano, e le labbra color fango si spalancarono in una smorfia animalesca.
   La reazione fu immediata.
   Le grida della donna raggiunsero ottave che persino una soprano lirica si sognava, e parole confuse sbroccarono da quella sua bocca volgare, come una diga sfondata dall’acqua. Non una sola frase era di senso compiuto, tale era la fretta e la furia con cui passava da un argomento a un altro, finché non arrivò al fatidico verdetto, esprimendo un concetto fin troppo semplice e chiaro quanto spietato.
   «Sei licenziata!».
   Un pesante silenzio calò nella stanza.
   Hyun, dopo un minuto buono di ammutolimento, provò a difenderti. Invano.
   «Basta, Hyun!», la cougar alzò una mano all’altezza del suo viso, «L’hai già coperta troppe volte. Stavolta non posso lasciar correre».
   «Ma il gatto…».
   «Togliti l’uniforme», lapidò, «E non farti più rivedere, nemmeno come cliente. Sei una disgrazia». Con quelle parole attraversò la stanza, aprì lo sgabuzzino a muro e ne estrasse una scopa e una paletta.
   Ti levasti la divisa e il berretto, livida e a denti digrignati, e li tendesti al cameriere, al tuo ex-collega, il quale li prese con un’espressione affranta stampata in faccia, «Mi dispiace… I-io… Ho cercat–».
   «Non ti preoccupare», lo interrompesti, «Non è colpa tua. Anzi, forse è meglio così».
   Uscisti dal locale decisa a non rimettervi mai più piede e t’incamminasti stanca e afflitta in direzione del campus. Davanti al cancello incontrasti una ragazza minuta e mingherlina, coi capelli a caschetto platino, sfumati di confetto lungo le punte, tutta sorridente e pimpante, in netto contrasto con lo stile gotico dei suoi vestiti, sorriso che si dissolse non appena decifrò la delusione sul tuo volto.
   «Cos’è successo?», chiese Chani senza nemmeno salutare.
   «Clémence… Ho perso il lavoro», singhiozzasti dopo una, all’apparenza infinita, pausa.
   Subito la ragazza ti avvolse le spalle in un abbraccio – gesto inusuale da parte sua, costantemente prigioniera della sua personale bolla di sapone –, «Non abbatterti. Quella pazza non si merita le tue lacrime».
   Tirasti su col naso, alzando gli occhi a incrociare quelli glaciali dell’altra, evidenziati dallo smokey nero, che vedevi sfuocata attraverso il velo del pianto, «Come farò adesso? La retta universitaria la pagano i miei genitori, ma l’affitto della camera è una mia responsabilità».
   «A questo proposito io ho la soluzione», affermò risoluta, «Sto proprio andando adesso al negozio dove lavoro, il mio capo sta cercando un’altra commessa part-time».
   «Ma Chani, io non so nulla di esoterismo, pietre e tutta quella roba».
   La tua amica sollevò un sopracciglio stizzita, il termine roba non le piacque affatto sentirlo, ma per amor della vostra amicizia decise di lasciar correre, «Ci penserò io ad insegnarti tutto. E comunque la proprietaria del negozio è disponibile e alla mano, non si farà problemi a formare un novizio».
   «Ne sei sicura?».
   «Certo!», ti prese sottobraccio, «Mal che vada non ti assume, ma tentare non nuoce».
   Emettesti un ultimo grugnito nasale, annuendo, «Non lo sapremo mai se non provo».
   «Questo è lo spirito!», esclamò, porgendoti un fazzolettino, «Forza, andiamo».
 
   Dopo un breve tragitto a piedi, raggiungeste il centro città, passaste accanto al negozio di abbigliamento di Leigh, proseguiste appena oltre, e infine imboccaste una viuzza secondaria. Non vi era nulla a parte l’insegna malandata di un negozietto, appesa perpendicolare al muro da due asticelle in ferro battuto, e costituita da pannelli di legno intagliato a formare uno scudo a punte blu cadetto, circondato da gigli e rametti dorati, ove al centro una pomposa ‘J’ pavone coi bordi in oro dava bella mostra di sé.
   «È l’iniziale del cognome di famiglia», disse Chani di punto in bianco, leggendo dalla tua espressione dubbiosa cosa stessi pensando – o di ciò ti convincesti in un primo momento –, «Però non so quale sia. Non vuole rivelarlo».
   Ti voltasti stupefatta in direzione dell’eccentrica ragazza, «Non sai come si chiama la tua datrice di lavoro?».
   «Conosco soltanto il suo nome, Odette, ma tutti la chiamano Madame». Detto questo, spinse la portafinestra, facendo trillare la campanella sopra di essa e la tenne aperta per farti passare.
   Ciò che ti si parò davanti agl’occhi sapeva dell’incredibile. Il negozio non era particolarmente grande, anzi, era decisamente piccolo, e pareva ancora più ridotto a causa di tutte le cianfrusaglie ammassate l’una sull’altra quasi a casaccio, dando l’impressione che la stanza potesse esplodere da un momento all’altro. Eppure, dandovi la giusta attenzione, si poteva individuare un certo ordine nella disposizione dei vari oggetti.
   Alla tua destra un’ampia libreria ricopriva per intero la parete, straripante di antichi tomi dalle variopinte copertine in cuoio e didascalie sfarzose.
   A sinistra, suddivisi sugli scaffali per colore, vi erano dei barattoli in vetro con all’interno polveri ed oli dall’aria pregiata. Alcuni erano grandi, altri minuscoli; alcuni avevano forme regolari, altri bizzarre, tonteggianti oppure spigolose, come se il mastro vetraio che le realizzò fosse indeciso su come crearle. Sotto ad ognuno di essi, attaccate al legno delle mensole, c’erano delle etichette, e poco più sotto prendeva vita il bancone che costeggiava tutta la parte interna del negozio fino allo stipite più vicino della libreria. Era in quercia, ricoperto da una spessa lastra di cristallo volta a proteggere le pietre dure e semipreziose esposte al suo interno, anch’esse sistemate per colore e con la rispettiva didascalia.
   Al di là del mobile v’era la scansia più disordinata di tutte, quella che a primo impatto ti aveva dato l’idea che gli oggetti lì dentro fossero riposti alla ben e meglio. Infatti, c’erano ampolle, specchi, rotoli di stoffa, pendoli in quarzo, lampadari mediorientali, piume d’oca e inchiostri, cestini, quadretti, post-it attaccati alla rinfusa, fiori infilati chissà come tra i vari articoli, pergamene arrotolate.
   Quel posto era una contraddizione unica, passava dall’ordine maniacale al caos più disturbante e totale. Eppure, nonostante il senso opprimente che tutta quella minutaglia conferiva al posto, influenzato anche dalla penombra circostante, il locale ti donava una piacevole sensazione di calma e accoglienza, e, da non dare per scontato, persino quell’aura mistica tipica di un covo di maghi era palpabile, proprio come ci si aspetterebbe da una boutique esoterica.
«Madame, ho portato un’amica. Penso potrebbe essere un’ottima candidata per il lavoro part-time», Chani ti strizzò l’occhio. Sapevate entrambe che avesse calcato un po’ la mano, sei una vera maldestra.
   Udisti un movimento al di là del bancone, il rumore di qualcosa di pesante che viene spostato a fatica, e infatti, dopo qualche istante, una donna sulla trentina inoltrata emerse dagli innumerevoli scatoloni sul pavimento, uno in particolare lo poggiò sul ripiano ligneo e cominciò a svuotarne il contenuto.
   Aveva i capelli lunghi e ricci di un caldo e intenso rosso ramato, che le contornavano l’incarnato rosato e spruzzato di lentiggini, mettendo in risalto le iridi giallo limone, fisse su di te come quelle di un felino.
   Quanti anni aveva quella donna?
   Il viso era giovanile, quasi puerile, ma dagl’occhi traspariva qualcosa, una saggezza, una consapevolezza del mondo che era tutto fuorché immatura.
   «Lei è Nilsa».
   Per un attimo ti sembrò che le sue pupille tremolarono al suono del tuo nome, «Nilsa».
   Facesti un passo in avanti, allungando la mano, «Piacere di conoscerla», lei la guardò ma non accennò a stringerla. Voleva qualche dimostrazione prima?
   Ansiosa, cominciasti a vaneggiare, parlando a raffica come eri solita fare nei momenti di panico. Come potevi non essere agitata, quel lavoro ti serviva.
   «Non ho molta esperienza come commessa, ho lavorato perlopiù come cameriera, ma le assicurò che lavorerò sodo, imparo molto in fretta…».
   Un sorrisetto compiaciuto le curvò le labbra carnose, mentre si portava i pugni ai fianchi, «Hai gli stessi orari di Chani in università?».
   La sua domanda improvvisa ti lasciò un attimo interdetta, «… Sì, tralasciando i corsi a scelta».
   «Molto bene. Fammi sapere le fasce orarie in cui sei disponibile, così da organizzare la rotazione dei turni dalla settimana prossima in poi», la donna vi diede le spalle, cominciando a sistemare gli articoli sulle varie mensole, «All’inizio verrai affiancata da me o da Chani e quando ti riterrò pronta ti affiderò il negozio». Si voltò di scatto a guardarvi in attesa di qualcosa.
   «Sta dicendo che sono assunta?», chiedesti dopo un bel po’ ancora più inebetita di prima, «Così? Senza una prova?».
   «Il mio intuito mi dice che te la caverai. Sei libera sabato pomeriggio?», annuisti, «Bene, ti aspetto per le 15. Sii puntuale».
   I tuoi occhi si illuminarono come due supernove, «Grazie! Grazie mille, Madame!».
   La proprietaria puntò lo sguardo sull’elegante quadrante bianco perla dell’orologio da polso, «Manca ancora un quarto d’ora all’apertura, Chani, perché non le mostri il negozio?».
   L’interpellata sorrise educata, «Certo».
Ϡɝϗ

Quel sabato ti presentasti al negozio come da accordi, ma la titolare sembrò meno amichevole rispetto alla volta precedente.
   Ti prego, fai che non sia un’altra Clémence…
   Non facesti in tempo a pensarlo che la donna si girò a guardarti colpevole, «Scusami, Nilsa, per la pessima accoglienza. C’è stato un errore con una consegna stamattina ed ora sto cercando di rimediare».
   Le sorridesti sollevata, «Non si deve scusare, comprendo la sua preoccupazione».
   Prese in mano il cellulare, «Vado un attimo sul retro, devo chiamare quegli idioti del Centro Assistenza. Se non torno in tempo, apri tu il negozio, per favore».
   «Nessun problema».
   Madame abbozzò un sorriso e sparì oltre il portone che dava sul magazzino.
   Passarono diversi minuti, ma la titolare proprio non ne voleva sapere di rientrare. Esalando un respiro profondo e ripetendoti che tutto sarebbe filato liscio, che sarebbe tornata presto, girasti il cartello appeso alla vetrata sul verso con scritto Ouvert1, e sbloccasti la serratura della maniglia.
   Non facesti in tempo ad andare dietro al bancone, che la campanella annunciò l’ingresso di un cliente. Ti voltasti di scatto verso la fonte del suono con il tuo sorriso migliore, cercando di nascondere il nervosismo, ma presto quello stesso sorriso si tramutò in una smorfia, studiando lo strano giovane incappucciato dinanzi a te.
Era piuttosto alto e longilineo, ma non riuscivi a vedere granché del suo viso celato dal cappuccio, giusto qualche ciocca corvina che gli mascherava gl’occhi e le labbra ceree contornate dal pallore dell’incarnato.
Tuttavia, sebbene fosse davvero smunto e dall’aspetto malaticcio, ciò che attirò maggiormente la tua attenzione fu il suo abbigliamento, tutto fuorché comune.
Indossava un’aderente lupetto nero accollato senza maniche, che evidenziava il fisico asciutto e ben costruito, nessun muscolo era lasciato all’immaginazione. Sopra ad esso portava un haori2 viola con delle gerbere rosse ricamate su tutta la parte inferiore dell’indumento, colore poi riutilizzato per delineare i bordi dello stesso. Tonalità troppo sgargianti per essere un kimono da uomo. Nessun haori-himo3 allacciava le asole poste ai lati della chiusura dell’haori, che, anzi, veniva fissato malamente in vita da una cintura arancio brillante arricchita da una moltitudine di ghirigori, che contrastava amabilmente con il capo tradizionale giapponese, ma che, allo stesso tempo, riprendeva le cuciture ricche sui pantaloni attillati, anch’essi a mettere in bella mostra le gambe toniche.
Nella parte interna del pantalone era presente il medesimo tessuto ornato di fiori dell’haori, mentre quella esterna era fatta di seta nera così lucida da confondersi con gli anfibi in pelle, alti sino a metà stinco e dal design futuristico quasi indescrivibile.
Le braccia erano velate da delle maniche posticce bianche, fissate sull’omero da un cinturino – lo sapevi perché una delle raglan dell’haori, la sinistra, era volutamente portata a penzoloni lungo il costato –, anch’esse sontuosamente decorate da fili perlacei che, in base ai movimenti, riflettevano l’argento o l’oro; si aprivano sul dorso delle mani lievemente a campana, lasciando spazio ai guanti senza dita di cuoio fosco.
Per chiudere in bellezza – si fa per dire –, appesi alla cintura portava dei cordini verde giada intrecciati tra loro, i cui nodi formavano i gancetti per dei bizzarri ciondoli acuminati e dall’aria tagliente, che vagamente ricordavano gli shuriken4 dei ninja.
Dire che eri rimasta senza parole è un eufemismo.
L’uomo sorrise a mezza bocca, ghigno tutt’altro che rassicurante, mentre tirava giù il cappuccio, che altro non era che una badiale sciarpa scura. Ti sentisti avvampare sotto al suo intenso sguardo ardesia, così acuto, scrutatore e anche un pelo malizioso, davvero simile a quello di qualcun altro, nonostante fosse allo stesso tempo completamente diverso. Ti riportò alla mente Castiel, il tuo ex del liceo con il quale da poco avevi riallacciato i rapporti, è ciò ti confuse.
Chi era l’eccentrico giovane che ti fronteggiava?
La sua bocca, già schiusa in quel vezzo flautato, si arricciò ad articolare una frase, e la voce che gli vibrò tra le labbra era limpida e bassa come il suono del vento, «Una nuova commessa», decretò squadrandoti, «Madame non c’è?».
Dovesti prendere un respiro profondo prima di rispondere, non volevi lasciar trasparire l’effetto che quel giovane uomo aveva su di te, «È impegnata al momento. Come posso esserle utile?».
«Da quanto lavori qui?», chiese a bruciapelo, cogliendoti alla sprovvista. L’agitazione era palpabile sul tuo volto.
«È il mio primo giorno».
A quell’affermazione, egli arricciò il naso, «Non vorrei sembrare scortese, ma preferisco aspettare Madame».
«Naturalmente. Posso offrirle qualcosa da bere nell’attesa?».
«Un tè, grazie. Il tuo preferito», concluse guardandoti sott’occhio, per poi piegarsi sul bancone ad ammirare le pietre.
Il mio preferito? Che richiesta bislacca.
Scombussolata, ti dirigesti al bollitore elettrico, versasti all’interno dell’acqua e lo azionasti; successivamente apristi la scatola dei tè, leggendo attentamente i nomi sulle bustine.
Non so nemmeno se Madame ce l’ha il mio preferito.
Dopo un’attenta ricerca, una bustina terracotta attirò il tuo interesse, la prendesti tra indice e pollice e la voltasti a leggerne il contenuto: Roobois cannella e arancia.
Un’inaudibile Oh scivolò tra le tue labbra, Eccolo, era pure della tua marca preferita.
Mettesti la bustina in infusione, preparando un piccolo vassoietto rettangolare beige con dei tovagliolini, delle bustine di zucchero e una tazza di vetro liscio. Una volta pronto, versasti il liquido rossastro nel recipiente e poggiasti un cucchiaino sul piattino, infine servisti il cliente che osservava superbo ogni tuo singolo movimento. Se c’era una cosa che Clémence ti aveva insegnato, era a disporre con eleganza ogni cosa difronte al commensale. L’unica cosa che ti rimarrà di quel postaccio.
Il giovane raccolse la tazza per il manico, catturato dal colore vermiglio della bevanda e poi dall’aroma degli agrumi. Ne bevve un sorso, che trattene un poco sulla lingua prima di ingoiare, «Sapore interessante, lievemente dolciastro».
«È l’assenza di caffeina a renderlo tale».
«Graziosa, aggraziata e pure attenta ai dettagli. Sono cosa rara da trovare al giorno d’oggi in una ragazza». Lo disse con un’aria contrita che ben non si sposava con l’espressione rilassata e gioviale, che, però, non ti impedì di notare il tono pensoso, formale e la scelta accurata di parole che adottò. Erano termini che un tuo coetaneo, per quanto quel ragazzo lo potesse sembrare, non avrebbe usato.
«Non tutti servono il Roobois nelle tazze di vetro, come farebbero i popoli del Sudafrica», alzò la tazza a metà strada tra il tuo viso e il proprio, «Un vero peccato, non trovi? Sprecare alla vista un colore così bello», la riappoggiò sul piattino, «Si possono capire molte cose attraverso i gusti delle persone».
«Suppongo di sì».
«Un mio amico apprezzerebbe particolarmente questa fragranza. Molto più di me che amo i sapori decisi».
All’istante la tua mimica s’irrigidì, rendendoti conto della gaffe, e in quel preciso momento lui scoppiò a ridere, tornando a fissare le pietre, «Adorabile», bofonchiò, bagnandosi le labbra. Con quel gesto, il lungo ciuffo corvino, che fino a quel momento gli aveva celato gran parte del viso, si sollevò quel tanto da far intravedere una benda nera a coprire l’occhio sinistro.
Ingoiasti un groppone di saliva, domandandoti perché la indossasse, «C’è qualche pietra che ha attirato il suo interesse?».
Il suo unico occhio visibile ti fulminò con lo sguardo, pietrificandoti sul posto, ma non facesti in tempo a ricomporti, che il campanello della porta trillò di nuovo.
«Eccoti qui, Punte Corte!», sbottò il nuovo arrivato. Un ragazzo allampanato, con lunghissimi lisci capelli indaco, raccolti in un’ordinata coda bassa.
Portava una giacca tal taglio militare bianca con le cuciture acquamarina – come le sue iridi irriverenti – e le spalle dello stesso blu della parte inferiore di essa, lunga sino al ginocchio e chiusa dalla cintura steampunk e dal cordone ametista tipico dei monaci buddhisti. La parte superiore era ulteriormente fissata da delle asole dorate, cucite all’orlo in filigrana d’oro che delineava tutta la giubba, e che lasciavano intravedere la maglia modellante a collo alto a V blue navy, la quale proseguiva fin sotto la cinta e si apriva ai lati come due candide ali rovesciate di piume bianche.
Appena sotto, un paio di pantaloni morbidi nivei si perdevano gonfi negli stivali pomposamente decorati, in coppia con le protezioni che portava agli avambracci. La base era blu scuro con delle rifiniture dorate e la punta era verde-acqua, proprio come la fascia satinata che ricadeva dal lato destro del petto fin dentro la cintura, così come una seconda fascia, più grande e particolareggiata della precedente, posizionata davanti al cavallo dei pantaloni e lunga fino a raggiungere gli stinchi. Era bianca, tonalità base dell’abbigliamento del ragazzo – ti sembrava più giovane dell’altro –, con un’onda ukiyo-e5 stampata in basso, che tanto assomigliava a La Grande Onda di Kanagawa6, e delle frange blu elettrico a chiudere l’estremità verticale.
Non era un uomo naturalmente bello come si sarebbe potuto dire dell’altro cliente, anzi, se non fosse per l’aspetto strampalato e per quella che sperasti fosse una parrucca, sarebbe stato alquanto ordinario, ma era indubbio che possedesse un fascino tangibile. Ad ogni modo non furono le sue scelte stilistiche a stordirti, quanto le sporgenti orecchie a punta che facevano capolino tra i capelli.
Un cosplayer…? Punte corte?
Ti voltasti a studiare il corvino, accorgendoti allora della forma appuntita dei suoi padiglioni auricolari, sebbene più contenuta rispetto a quelli dell’altro giovane.
Ma dove diavolo sono finita?
«Ah, Ez! Stavamo proprio parlando di te», gli occhi chiarissimi di quest’ultimo si posarono annoiati su di te, «Stavamo giusto dicendo che questo tè sarebbe di tuo gradimento».
L’interpellato s’appropinquò al tavolo sbuffando, «Hai quel che ci serve?».
«No, Madame non è ancora arrivata».
«Non potevi chiedere a Chani?».
«La vedi forse?».
«E questa qui?», chiese il cosplayer, che mai aveva distolto lo sguardo dal tuo.
Questa qui?! Che razza di maleducato.
«È una novellina. Madame non le ancora insegnato nulla».
«Mi sembra al quanto persa, in effetti…», dopo un paio di secondi le labbra gli si scucirono in un disteso sogghigno che non presagiva nulla di buono, «Che buio qui dentro!», esclamò di punto in bianco guardandosi attorno come se fosse appena entrato in negozio, e non come se fosse lì già da almeno dieci minuti abbondanti.
Preoccupata a soddisfare gli acquirenti, accorresti alla pesante tenda cardinale che copriva l’unica vetrina, tirandone un lembo per far entrare la luce naturale a rischiarare l’ambiente circostante, ma, come i raggi del sole bagnarono la stanza, delle atroci urla di dolore ti inondarono i timpani.
Allarmata, ti girasti in direzione dell'agghiacciante rumore e davanti a te si parò la più straziante e sconvolgente delle immagini.
Il giovane uomo dai capelli neri si era gettato a terra, ai piedi del bancone, dove questo raggiungeva la libreria, il viso storpiato da fitte lancinanti, la sua voce squarciava l’aria come se fosse stato gettato nelle fiamme dell’inferno, l’epidermide scoperta dai vestiti fumava e tu lo fissavi terrorizzata, impietrita dalla paura.
«Chiudi la tenta!», sbraitò in preda alle convulsioni, tuttavia non accennasti a muoverti, paralizzata sul posto con gli occhi spiritati, puntati sull’occhio iniettato di sangue e sui canini fuori misura che gli si conficcavano nel labbro inferiore, puntinato di morsi.
In tutto quel marasma di grida, fumo, puzza di bruciato, l’altro ragazzo, quello che aveva definito un suo amico, rideva soddisfatto a braccia incrociate.
«La prego, faccia qualcosa!».
«Io?», chiese stralunato, come se non stesse capendo il motivo della tua implorazione.
«Che cosa devo fare?», corresti verso il moribondo.
«Schifoso bastardo!», tossicchiò, per poi allungare un palmo guantato verso di te, «Chiudi la tenda, ti scongiuro, chiudi la tenda o morirò!».
«Dannato elfo!», proruppe una terza voce alle tue spalle, così forte e acuta da sovrastare il campanello d’ingresso, ma non gli strilli dilanianti dell’uomo, che si placarono solo dopo che l’intruso, un ragazzo che ti dava la schiena ma di cui riconosceresti il timbro anche da sorda, non fece tornare la penombra nella stanza.
«…Castiel?!». L’interpellato incrociò il tuo sguardo solo per un secondo e quello bastò a inchiodarti seduta stante. Le sue iridi, dello stesso colore del corvino, erano furenti. Benzina lavata via col fuoco. Però il contatto visivo s’interruppe con la stessa velocità con cui si posò su di te, perché fulmineo si gettò sul giovane ferito, cosparso da terribili ustioni. La chioma cadmio gli scivolò in avanti, celandogli gli occhi intenti ad esaminare le bruciature sul conoscente.
«Nevra?», echeggiò, «Svegliati, Nevra!».
Lo raggiungesti di tutta fretta, «Castiel, cos’è successo? Non capisco… Ho aperto la tenda e…».
«Che cosa ti è saltato in mente di esporre alla luce del sole un vampiro senza amuleto protettivo?!», tuonò costringendoti a indietreggiare, non tanto per la frase urlata a squarciagola in sé, quanto per le iridi tintesi di rosso scarlatto e le fauci sguainate.
Ti accucciasti contro il legno del bancone, tremante e impaurita, «C-castiel… I tuoi…». Udendo quel balbettio il colore brillante negl’occhi del ventitreenne lasciò lentamente il posto al grigio nuvola di sempre, mentre si portava una mano a coprire la bocca, lo sentisti serrare la mandibola.
  Distolse lo sguardo, ordinandoti di prendere l’unguento sulla seconda mensola alla tua destra, «Quello con scritto adolebitque7».
La mano di Nevra si poggiò sul polso del rosso, «Usi ancora la pozione per tingerti i capelli di quel colore così volgare», sussurrò distrutto.
L’altro sbuffò una risata sollevata, «Sei già in vena di scherzare, vedo».
«Sempre, fratello. Io morirò ridendo, quando la mia ora sarà giunta».
«Fai in modo che non giunga».
Fratello?!
«Sei stato tu, non è vero?», l’occhiataccia furibonda di Castiel si schiantò sull’unico rimasto in disparte a godersi la scena, il quale rispose alzando le spalle indifferente, «Ti sei approfittato di Nilsa per il tuo sadico divertimento. Sapevi fosse all’oscuro di tutto. Sapevi cosa sarebbe successo e, tu – lo disse come se fosse un insulto –, lo hai fatto comunque». Con quelle parole, il musicista balzò in piedi e si scagliò sull’altro che, per quanto Castiel fosse alto, lo superava di molto in altezza; nonostante ciò, la sua prestanza fisica era ineguagliabile. Lo afferrò per il colletto, strattonandolo a raggiungere il suo livello, mentre con la mano libera stretta a pugno caricava un montante.
«Niente risse nel mio negozio!», inveii con voce stridula Madame, girando il cartello all’ingresso su Fermé8, serrando a chiave la porta a vetri e ruotando una manopola mai notata prima. L’ingranaggio era montato sul cilindro della serratura; attorno alla maniglia v’era un disco metallico con un piccolo forellino al centro della metà superiore, collegato a sua volta a un altro disco appeso allo stipite destro della porta, diviso in quattro spicchi di diverso colore. Con quel semplice movimento il disco ruotò di centottanta gradi in senso orario dal settore nero a quello verde.
Non comprendesti cosa fosse successo, ma ciò bastò a sedare gli animi, prima che il pugno del leader dei Crowstorm si scaraventasse sul viso ossuto e soave di colui che aveva soprannominato elfo.
Elfo, vampiro, amuleto protettivo. Queste parole ti vorticarono in testa con tale impeto da farti girare la testa. Ti sentisti crollare sul pavimento, ma non percepisti il tonfo né tantomeno la botta della caduta. Il capo ti si era fatto improvvisamente pesante, così tanto da non avvertire più il resto del corpo, come se la tua mente si fosse espansa al di fuori di te stessa e ti fossi ridotta ad essere solo quello. L’ultima cosa che vedesti fu l’immagine sfuocata di un’ombra che t’inghiottiva, un’ombra rubiconda.
 
[1] Francese ‘aperto’
[2] Capo d’abbigliamento tradizionale giapponese, generalmente maschile
[3] Cordone tipico con cui chiudere l’haori
[4] Frecce, punte, coltellini e dischi a forma di stelle taglienti, armi tipiche dei ninja.
[5] Corrente artistica di stampe giapponesi del periodo Edo (XVII-XX)
[6] Rinomato artista Ukiyo-e
[7] Latino ‘bruciatura’
[8] Francese ‘chiuso’
   
 
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