Sposami
Watson
Sono
passati diversi giorni da
quando io e il mio amico Sherlock Holmes abbiamo risolto il caso del
segno dei
quattro, un mese per essere preciso. Nell’arco di tutto
questo tempo, io e Mary,
abbiamo continuato a frequentarci, giungendo alla felice conclusione di
unirci
in matrimonio. Conscio della mia decisione e delle conseguenze che
avrebbe
comportato, mi reco a Baker Street, con il preciso intento di
comunicare la
notizia a Sherlock Holmes. Durante la passeggiata che mi separa dalla
quasi mia
ex casa, penso alle giuste parole da usare, conscio
dell’avversione del mio
amico per il genere femminile. Nella mia testa le parole sono chiare,
ma è il
cuore che mi spinge a cambiarle di volta in volta. Voglio davvero che
comprenda
la mia decisione, che la capisca, per questo banale motivo torturo il
mio
cervello fino al portone del 221B. Con la mano sulla maniglia esito per
un
istante, mi volto a guardare la strada, una carrozza passa veloce e le
persone
continuano il loro trasandato cammino. Tutto normale in questa via,
come al
solito, così preso da un moto di coraggio entro, saluto la
nostra padrona di
casa e salgo gli scalini che mi separano dal nostro -ormai famoso-
alloggio.
Uno per uno, li calpesto con una lentezza esasperante, quasi fossi un
cliente
timoroso, venuto a chiedere aiuto al famigerato consulente. Superati
tutti
entro nella stanza, senza titubanze ma una volta dentro rimango
folgorato
nuovamente, da quella sensazione di profondo disagio. Fermo sulla
soglia
osservo la figura longilinea del mio amico, seduto sulla poltrona con
le gambe
stese in tutta la loro lunghezza, le mani sotto il mento e gli occhi
chiusi,
perso in chissà quale elucubrazione. Penso, con una vena di
sollievo che è
impegnato alla soluzione di un caso, e che per questo motivo non
può darmi
ascolto. Ma i miei sfarfallii mentali vengono interrotti dalla sua voce
“Watson, su coraggio non rimanga lì in
piedi” sussulto e con titubanza tolgo
cappello e soprabito, posandoli sull’appendi abiti. Tiene gli
occhi ancora
chiusi mentre lentamente mi avvicino a lui, prendo posto sulla mia
poltrona e
vengo avvolto dal calore del camino acceso. Questa sensazione mi
rassicura,
sorrido lievemente poi prendo parola, deciso a richiamare
l’attenzione del mio
compagno “Holmes”, apre gli occhi grigi e
penetranti si posano su di me, e
ancora una volta il coraggio viene meno. Ripiega le gambe ora,
mettendosi in
una posizione più composta “cosa la turba mio caro
amico?” Sposto la schiena
all’indietro, facendola aderire perfettamente allo schienale
della poltrona
“come sa che sono turbato?” chiedo, ma solo per
prendere tempo “Watson il suo
atteggiamento parla da solo, non ha bisogno di alcuna
spiegazione” mi liquida
freddo. Il suo desiderio di sapere e conoscere, alle volte ha la meglio
sull’umana
comprensione di chi si trova in una situazione di
difficoltà. Molte persone lo
etichettano come insensibile e dopo un’uscita simile, se non
lo conoscessi bene
come lo conosco, avrei fatto anche io lo stesso errore. Arrivare ai
fatti,
senza troppi giri di parole, è per lui il modo migliore di
aiutare qualcuno che
si trova in difficoltà. Lo sguardo duro, la mascella serrata
denotano quanto
sia desideroso di penetrare i miei pensieri, sono certo che se non si
trattasse
di me lo avrebbe già fatto. Ma una sorta di rispetto nei
miei confronti, lo
spinge a rimanere in silenzio, lasciando a me il compito di esprimere
il
turbinio di parole che ho in testa. Il ceppo di legno nel camino
continua a
scoppiettare, e tra tutte le parole decido di usare le più
semplici “Holmes, io
e Mary abbiamo deciso di sposarci.” Nessuna reazione da parte
sua, tranne un
velo di delusione che ha adombrato, per un istante, i suoi occhi
“era ciò che
temevo*”, dice. “Non posso davvero congratularmi
con lei*.” La sua voce atona
mi ha colpito in un modo che non credevo possibile, eppure ero conscio
che la
sua reazione non sarebbe stata di gioia e felicità.
“Suvvia Watson, non ci
rimanga male, sa bene cosa penso dei matrimoni e
dell’amore” dice riacquisendo
un po’ di tono, “tra noi due è lei il
genio, quale danno potrebbe causare a me
il matrimonio?”, chiedo senza celare l’amarezza che
provo. Si alza dalla
poltrona, con l’espressione più triste che gli
abbia mai visto in volto, “non
ho mai detto che il danno sarebbe stato suo.” Lo seguo,
raggiungendolo al
centro della stanza, “cosa vuole dire con questo Holmes?
Pensa forse che io sia
indegno di Mary, che lei abbia commesso un errore ad accettare di
sposarmi?” non
so cosa mi ha spinto a domandargli questo, ma la sua opinione conta per
me, più
di tutte le altre. Sorride tirando un angolo della bocca, un sorriso
che più
che felicità esprime compassione, mi posa una mano sulla
spalla ed io sussulto,
“mio caro Watson, lei è troppo duro con se stesso.
La signorina Morstan è la
donna più fortunata che mi sia capitato di conoscere, non
avrebbe potuto
scegliere marito migliore di lei, Watson mi creda.” Questa
sua improvvisa
esternazione di tenerezza, che mai gli ho visto usare nei miei
confronti, mi
riempie il cuore di un sentimento unico, difficile da spiegare a parole
“mio
caro Holmes, io, io la ringrazio.” Non ho mai creduto che di
me, avesse una
così alta considerazione. Ma il sipario di questa tenera
conversazione si
chiude presto, sposto lo sguardo sulla mano che tiene lungo il fianco,
e lo
vedo. Il mio compagno nota il cambiamento di espressione sul mio volto,
si allontana
da me dandomi le spalle “Watson lei ha guadagnato una moglie,
e a me resta la
cocaina, lo trovo un giusto compromesso”, dice ridacchiando.
La mascella mi si
contrae talmente tanto, che quasi ho timore che mi saltino via tutti i
denti,
stringo i pugni e le nocche mi si sbiancano tanta è la forza
che sto usando. Ho
creduto fino a questo momento che quell’orribile vizio lo
avesse accantonato,
ma mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo. “Holmes ha voglia di
scherzare!”,
esclamo irato “perché non si trova un altro hobby?
La cocaina finirà per
ucciderla” spero di convincerlo con queste parole severe, con
il tempo ho
creduto di avere stimolato un certo ascendente sul mio compagno, ma
forse anche
questo era solo un desiderio, prodotto dalla mia mente a detta di
Holmes fin
troppo romantica. Rimane voltato verso la finestra, come se la mia
frase non
gli fosse giunta alle orecchie “non sarà la
cocaina ad uccidermi”, il suo è un
mormorio talmente basso, che fatico quasi a comprendere. Ma rimbomba
talmente
forte nella mia cassa toracica, che tutto il mio corpo ne subisce le
conseguenze, sento la bile salire quasi fino alla gola e il mio volto
viene
deformato da una smorfia di rabbia. “Per una volta,
può essere serio quando
parla della sua vita?” sibilo con la voce arrochita
dall’emozione, “non tema
Watson, io sono serissimo”, dice voltandosi, con dipinto sul
volto quel sorriso
ironico che in questo momento fatico a non detestare. Viene verso di
me, il
pavimento cigola sotto i suoi piedi in un punto, poi cambia direzione e
torna a
sedersi sulla sua vecchia, sgualcita poltrona, “chiami la
signora Hudson e ci faccia
portare un tè” mi ordina ma questa volta non sono
disposto a dargli ascolto.
Sono tre anni che viviamo insieme, e per i primi tempi non osavo dire
nulla
circa le sue insane abitudini, perché ritenevo di non aver
alcun diritto. Con
il passare dei mesi, la nostra amicizia si è inevitabilmente
consolidata, allora
ho incominciato a fargli notare piccole cose, giusto per non irritarlo
troppo,
quando si irrita diventa più intrattabile del solito.
“Holmes io ho il dovere
come medico, e soprattutto come suo amico di non far passare questa
cosa”,
sbuffa fumo dalla pipa appena accesa “ah e come intende
farlo?” mi canzona. Ma
non mi lascia il tempo di rispondere, che si alza dalla poltrona e con
due
lunghe falcate già mi fronteggia,
“perché ha deciso di impuntarsi proprio
ora?”
domanda a bruciapelo. Alzo le sopracciglia sbigottito, il suo tono
severo unito
alla sua figura, mi fa sentire sovrastato “ci tengo alla sua
salute Holmes, e
tengo a lei!” esclamo stringendo i pugni. I suoi occhi
brillano per un momento,
il suo corpo cede al complimento, per poi tornare rigido, con le
sopracciglia
corrucciate e lo sguardo serio. Non temo questo suo atteggiamento e
continuo a
parlare, sperando che per una volta le mie parole facciano davvero
effetto. “Il
suo lavoro è inseguire i criminali, rischia la vita, e su
questo non ho alcun
potere. Non mi piace l’idea che qualcuno, un giorno, possa
farle del male, a
maggior ragione se è lei questo qualcuno. Quindi la prego,
almeno sulla salute
mi dia ascolto, segua i miei consigli ed abbandoni quella
roba.” Esprimo tutto
il mio sentire, la voce è morbida e rassicurante,
perché non voglio che si
senta accusato, so che in questo caso si metterebbe subito sulla
difensiva.
Apre le labbra per dire qualcosa, ma viene interrotto dalla nostra
governate,
che entra bussando, con un vassoio in mano, come se avesse letto Holmes
nel pensiero.
“Vi ho portato il tè” esclama con voce
acuta, ci giriamo entrambi verso di lei,
ma è il mio compagno a prendere malamente parola
“non lo abbiamo chiesto!” il
suo tono è altro, grave, come se la stesse accusando di
qualche cosa. La
signora sussulta turbata da quell’improvviso scatto
d’ira, Holmes sembra
rendersi conto di ciò che ha fatto, ma non dice nulla, si
limita ad abbassare
lo sguardo e stringere i pugni. Pochi istanti passano che il mio amico
si girà
verso di me, puntandomi il dito contro “per quanto riguarda
lei, non ha di che
preoccuparsi. Mi hanno già fatto del male e non se ne
è nemmeno reso conto”, mi
urla contro queste parole, per poi dirigersi a passo spedito verso
camera sua,
entra e chiude la porta sbattendola sonoramente. Rimango per un attimo
immobile, a fissare quella porta chiusa, poi mi giro, scorgo la figura
esile
della padrona di casa impalata sul posto, con ancora il vassoio tra le
mani.
“S-signora Hudson” mi affretto a dire, ma lei mi
interrompe meno sconvolta di
quanto pensassi, “oggi è di cattivo umore ancora
più del solito. Non avrete
mica litigato?”, chiede come una madre comprensiva farebbe
con i due suoi
figli. Ma non mi da il tempo di rispondere che posa il vassoio sul
tavolo, si
avvicina a me, e con la sua esile mano mi stringe il braccio,
“mi dia retta
dottore, spero che non mi riterrà inopportuna, ma dopo tre
anni spero un minimo
di confidenza di averla acquisita”, le sorrido invitandola a
proseguire il suo
discorso. “Quello che tengo a dirle, è di non
perdere troppo tempo a discutere
con quell’uomo, è testardo e quando si mette in
testa una cosa, nulla può
fargli cambiare idea.” Momenti come questo mi sono
più che di conforto, ammetto
che sapere di avere una persona come lei al mio fianco, che
più di una
governante è come una madre, infonde sollievo a un uomo come
me, vigoroso
quando serve, ma anche profondamente sensibile. Non è facile
per me fare questa
ammissione, mi sono sempre definito un uomo dalla corazza
impenetrabile, pronto
a portare il peso del mondo sulle proprie spalle, ma sarebbe sciocco da
parte
mia, nascondere quei lati della mia persona, che caratterizzano il
romanticismo
con cui scrivo i miei racconti. Sorrido ampiamente, stringo la gracile
mano della
padrona di casa nella mia, “grazie signora Hudson.
Farò tesoro del suo
consiglio” ricambia il sorriso e dandomi una pacca sulla
spalla esce dalla
stanza. Rimango solo con i miei pensieri, decido di sedermi sulla
poltrona,
accanto al camino, in modo da essere qui quando il mio amico
deciderà di
uscire. Il tempo scorre veloce, la notte fa presto ad arrivare,
così come il
giorno. Devo essermi addormentato, perché mi sveglio tutto
intorpidito, con le
ossa che fanno male, causa la posizione scomoda. Apro gli occhi,
stringendoli
immediatamente a due fessure per via della rara luce del sole, che li
punzecchia. Li sfrego con le dita, poi con una mano, massaggio il collo
dolorante in cerca di sollievo. Un sonoro sbadiglio accompagna lo
stretching
delle braccia, ed è in quell’istante che mi rendo
conto di avere una coperta
sopra, certamente ricordo di non aver adoperato nulla del genere il
giorno
prima. Mi guardo intorno un po’ spaesato, ma subito il
pensiero della coperta
viene sostituito da uno più importante, il motivo per cui mi
sono piazzato qui
senza intenzione di muovermi. Holmes, penso e di scatto mi alzo,
abbandonando
la morbida coperta sullo scomodo giaciglio, mi avvicino alla porta di
camera
sua, ora semi aperta. Busso e chiamo il nome del mio compagno, ma
nessuna
risposta mi giunge, così mi giro e noto che cappotto e
cappello sono spariti,
deduco deve essere uscito. Un sospiro di sconforto lascia le mie
labbra, devo
attendere ancora prima di poter parlare con Sherlock Holmes. Passa un
giorno
intero prima di poter ricevere sue notizie, è un pomeriggio
piovoso, sono
appena rientrato a casa con i vestiti grondanti d’acqua.
Faccio in tempo a
cambiarmi che un tipetto, basso e con il viso bitorzoluto mi recapita
un
biglietto. Se ne va presto, senza concedermi il tempo per una
spiegazione, in
me nasce un misto di paura e curiosità, apro quel
bigliettino umido e mi
affretto a leggere. Il mio compagno è il mittente, mi avvisa
che resterà
lontano da casa per qualche tempo, sta seguendo una pista e non vuole
perderla.
Sono abituato a ricevere biglietti del genere, è
già capitato in passato, che
non mi coinvolgesse in una delle sue ricerche. Ma questa volta
è diverso, sono
deluso e non so spiegarmi questa sensazione, forse speravo che ci
saremmo
seduti, l’uno di fronte all’altro per parlare,
questa volta in maniera seria. O
forse è perché una vocina nella mia testa,
continua a ripetermi che se ne è
andato proprio per non discutere con me, non mi ha coinvolto proprio
per timore
che riaprissi il discorso. Metto le mani fra i capelli, sfregandoli con
forza,
mi sta scoppiando la testa a furia di pensare, accartoccio quel
biglietto e in
un moto di rabbia lo getto nel fuoco. Mi siedo malamente sulla
poltrona, a
gambe aperte, nella posizione più disordinata che riesco a
trovare, con una
mano mi stropiccio il viso, quasi per cancellare via la frustrazione,
ma quello
che ottengo è solo un viso arrossato. Sono stanco,
emotivamente intendo, sbuffo
una boccata di fumo, sono indeciso se bere o andare a farmi un giro in
un pub.
Andare da Mary non se ne parla, si preoccuperebbe a vedermi in queste
condizioni e a dir la verità, non saprei nemmeno che
spiegazioni darle a
riguardo. Decido di andare a dormire, mi butto sul letto con ancora i
vestiti
addosso, le lenzuola profumano di pulito e danno sollievo alle mie
tempie, che
stanno battendo dolorosamente. Il mattino seguente mi alzo, prima del
solito, la
colazione non è ancora pronta e forse è meglio
così, perché non ho proprio
fame. Butto un’occhiata verso la sua
porta,
è esattamente come l’avevo lasciata il giorno
prima, quindi non è tornato.
Decido comunque di tentare, mi avvicino cautamente, porto una mano alla
maniglia e una alla fessura tra la porta e la stanza,
“Holmes” chiamo, ma
niente, appoggio la testa sulla porta, chiudo gli occhi e sospiro. Poi
mi
appoggio completamente ad essa, si chiude spinta dal mio peso, alzo lo
sguardo
in alto e sento di nuovo la delusione crescermi dentro. Ho preso una
decisione,
non è nemmeno troppo avventata, in fondo io e Mary ci
sposeremo presto, e lo
avrei fatto comunque. Inizio a radunare tutta la mia roba, i vestiti, i
libri,
soffermandomi ogni tanto su qualche oggetto che mi fa nascere un
sorriso. Sono
tutti ricordi, alcuni della mia vita prima del 221B, e altri delle
avventure
che ho condiviso con il mio amico. Sono passate diverse ore da quando
ho
iniziato a raccogliere tutto, ho chiesto alla signora Hudson di non far
salire
nessuno, e di venire su lei solo per l’ora del tè,
infatti eccola che arriva.
Conto i suoi passi, prevedendo l’esatto momento in cui
poserà il piede sullo
scalino che scricchiola, sorrido a sentire quel cigolio. Me lo ha fatto
notare
il mio compagno, un giorno di particolare calma, in cui eravamo seduti
qui e
stavamo aspettando il tè, proprio come oggi. Un inaspettato
magone mi stringe
la gola, mi sfrego gli occhi e mi alzo in piedi “signora
Hudson”, lei alza il
viso su di me, prima però lo fa ruotare intorno alla stanza
in subbuglio.
“Dottore” inizia, penso vuole domandarmi del
disordine, ma sbaglio, “lei ha gli
occhi lucidi dottore, è sicuro di sentirsi bene?”,
domanda inclinando la testa
da un lato. Vengo colpito nuovamente da quella sensazione alla gola, mi
mordo
le labbra per cercare di nascondere ciò che provo, prendo il
vassoio dalle sue
mani sfiorandogliele, la guardo negli occhi, esito un momento prima di
parlare,
perché so che anche a lei dispiacerà.
“Signora Hudson io, io mi trasferisco”,
dico con voce bassa e roca, si porta una mano alla bocca “oh
cielo!”, esclama
con una vena di stupore e preoccupazione. Sono sicuro che ha
interpretato male
ciò che ho detto, pensa che il mio trasloco sia causato
dalla discussione con
Sherlock, così mi affretto a spiegare come stanno le cose.
La faccio accomodare
sul divanetto e mi siedo a fianco, le ho chiesto se le andava di
prendere il tè
insieme, e lei ha acconsentito. “Io e Mary ci uniremo in
matrimonio, è per
questo motivo che lascio questa casa”, ma nemmeno da lei
ottengo la reazione
desiderata. Un’ombra di tristezza vela i suoi occhi,
facendoli sembrare ancora
più piccoli del solito. “Povero caro”,
sussurra a bassa voce, ma dalla sua espressione
e dallo sguardo che mi rivolge, capisco che non avrebbe voluto dirlo ad
alta
voce, vedendo la mia espressione cerca di recuperare “oh non
mi stia a sentire,
sono solo una povera vecchia che a volte non sa quel che
dice.” La osservo
incuriosito, noto la sua risatina nervosa e come si tortura le mani, mi
avvicino poco più a lei, le prendo le mani e le stringo
nelle mie, “signora
Hudson so che lei è una persona rispettabile, la prego di
non nascondermi
qualcosa che dovrei sapere.” Non ho intenzione di obbligarla
a parlare, però
tentare non mi costa nulla, soprattutto se è una cosa che
riguarda me. Lei
sposta lo sguardo di lato, poi mi fissa e in uno scatto toglie le mani
dalle
mie “senta dottor Watson, cerco di tenere il naso fuori dagli
affari che non mi
riguardano, e comunque non mi riferivo nemmeno a lei” dice
quest’ultima frase
guardando altrove. Intervengo io più curioso che mai
“e allora a chi si
riferiva con quell’affermazione?”, il suo sguardo
si addolcisce “a Sherlock
Holmes”, il mio cuore sussulta a sentire quel nome, spalanco
gli occhi per la
sorpresa. “Perché dovrebbe preoccuparsi per
lui?” chiedo, lei sospira “perché
lui è” esclama di getto per poi rallentare
“lui tiene molto a lei dottore, e
ritrovarsi di nuovo solo”, lascia nuovamente la frase a
metà “Dio chissà cosa
combinerà, mi sfascerà la casa” dice
scuotendo la testa. Una risata esce
spontanea “ma no, stia serena, non farà
più danni del solito”, le mie parole
non sortiscono l’effetto sperato. Le mani congiunte tra loro,
il viso pallido
segnato da un’emozione molto forte, continua a scuotere la
testa, “la prego mi
prometta che verrà qui il più possibile, per
assicurarsi che stia bene” dice
con tono supplichevole, posando una mano sulla mia.
L’ilarità che poco prima
avevo espresso svanisce immediatamente, vedere la padrona di casa in
questo
stato mi sconvolge, così decido di rassicurarla il meglio
che posso. “Le
prometto che verrò il più possibile”,
ho compreso dalle sue parole, che a
preoccuparla non è tanto il destino dell’alloggio
ma quello del mio coinquilino.
Annuisce dopo le mie parole, ma il suo viso non è sereno,
l’attiro a me,
stringendola in un abbraccio “mi mancherà signora
Hudson” bisbiglio nel suo
orecchio, “oh dottore, mancherà tanto anche a
me” stringe più forte le sue
esili braccia intorno alle mie spalle. Mentre sciogliamo
l’abbraccio, alzo lo
sguardo verso la porta e scorgo una figura, il sorriso mi si gela
immediatamente sul volto e il cuore è in preda a una
tachicardia. Sulla soglia
della stanza, Sherlock Holmes, pallido e ancora più magro di
qualche giorno fa,
“che succe-“ ma non termina la frase, “oh
capisco” dice quasi sussurrando. L’accenno
di sorriso che aveva prima sparisce di colpo, abbassa lo sguardo che da
dietro
quelle occhiaie profonde sembra ancora più scuro.
“Holmes!” mi alzo in piedi, e
subito la padrona di casa fa lo stesso, “vi lascio
soli” dice prima di uscire
dalla stanza. Il mio compagno deve aver dedotto ciò che sta
succedendo dal
disordine della stanza, la tensione si taglia con un coltello,
“così se ne va”
è la sua voce a squarciare il silenzio, provocandomi un
sussulto, come se fino
a poco prima stessi solo dormendo, e improvvisamente venissi svegliato.
Abbasso
lo sguardo per poi rialzarlo su di lui, “ho deciso che
è meglio farlo subito,
non mi aspetto che capisca Holmes. Quello che desidero invece,
è che lei
capisca, che non smetterò mai di essere suo amico. Sempre se
lei gradisce
ancora la mia compagnia”, non mi sono mosso di un passo da
quando è arrivato, e
le labbra tremano mentre dico queste parole. Temo che voglia
allontanarmi, e
non so se posso immaginare la mia vita senza l’amicizia di
Sherlock Holmes,
naturalmente rispetterei la sua decisione ma non senza dolore nel
cuore. Si
toglie cappotto e cappello, li posa sull’appendi abiti ma
scivolano a terra,
lui nemmeno se ne ha accorge, o finge, i capelli sono umidi e attaccati
alla
fronte, anche essa madida di sudore. Mi avvicino a lui con il sospetto
che non
si senta bene, provo a posare una mano sulla fronte ma si scansa,
“sto bene
dottore. Devo iniziare a cavarmela anche senza di lei,
giusto?”, dice con voce
roca senza nemmeno guardarmi. Lo afferro per un braccio
“Holmes lei non sta
bene, deve mettersi a letto”, si scosta dalla mia presa,
sbuffa “queste mi
mancheranno”, lo guardo confuso “le sue
constatazioni di ciò che è ovvio” mi
liquida con una scrollata di spalle. Stringo i pugni ferito e offeso,
so che
non dovrei sentirmi così, ma alla vigilia della mia partenza
mi aspettavo
chissà, forse un po’ più di calore.
“Mi vuole dire almeno dove è stato?”
sbotto, lui si gira verso di me e con una smorfia di rabbia dice
“da questo
momento non è più affar suo!”, una
freccia in pieno petto avrebbe fatto meno
male. Lo osservo barcollare, si mette una mano sulla fronte poi mi
guarda con
occhi lucidi, “non posso più rivelarle i dettagli
dei miei casi, non ora che ha
deciso di avere una vita normale”, deglutisco e tengo le
labbra serrate, voglio
dire qualcosa, ma quello che ho in mente è terribilmente
inopportuno. “Tornerò
domani per accertarmi che si senta meglio, ora si metta a
dormire”, le parole
escono flebili, non mi fermo nemmeno per sentire la sua risposta, a dir
la
verità non so neanche se mi ascolterà. Esco di
casa, con il cuore più pesante
di quanto dovrebbe essere, ho deciso di dormire
nell’appartamento che ho
acquistato per me e la mia futura sposa, meglio che inizio
già da ora ad
abituarmi alla nuova vita che mi attende. È una serata
ventosa, infilo la
chiave dentro la toppa ed entro, il buio mi accoglie, è
già ammobiliata,
mancano solo i nostri effetti personali. Sento le membra affaticate, mi
lascio
cadere a peso morto sul letto, fisso il muro in attesa di qualche
risposta, a
chissà quale domanda, le braccia abbandonate lungo il corpo
e il pensiero che
vola libero. L’espressione ferita del mio compagno impedisce
al sonno di
palesarsi, dopo l’ennesimo sospiro, mi volto di lato,
“deve pur esserci
qualcosa”, mormoro a voce bassa. Sì qualcosa, che
mi impedisca di sentirmi così
male, che offra una soluzione al comportamento del mio amico, e che mi
faccia
rendere conto di quanto infantile sia il suo atteggiamento.
È inutile pensare
mi dico, e dopo essermi rigirato per la quinta volta nel letto, decido
di
alzarmi per un bicchiere d’acqua, non che abbia sete,
però è l’unico modo per
distrarmi e dare pace alla mia testa. Scendo le scale e quando un lampo
squarcia l’oscurità della sala, un urlo
agghiacciante scuote le mie corde
vocali. Indietreggio inciampando sui gradini, finisco a sedere su uno
di essi,
poi con l’adrenalina in corpo, causa il tremendo spavento, mi
affretto a fare
luce. Il cuore è ha mille e la pistola non so nemmeno dove
sia, sono sicuro
essere una faccia quella che ho visto. Bianca e scavata, se non fossi
dedito
alla razionalità, quella di un fantasma non sarebbe una
cattiva ipotesi. Ma è
la luce a far chiarezza su quel mistero, la paura lascia immediatamente
il
posto alla preoccupazione. Al centro del salotto, in piedi, fradicio
dalla
punta dei capelli fino alla suola delle scarpe, gronda acqua dal
cappello e persino
i suoi lineamenti aquilini sono gocciolanti. Rimango per un istante
immobile a
fissarlo, come se mi avessero trasformato in una statua di pietra, poi
scosso
da un impeto di lucidità, mi affretto ad avvicinarmi al lui.
“Holmes per amor
del cielo!” esclamo sconvolto, gli poso una mano sulla
fronte, che come avevo
immaginato brucia quasi fosse stata scaldata da una candela. Rimane
muto,
soltanto mi fissa con quello sguardo lucido e vacuo, osserva ogni mio
movimento,
con il corpo scosso da fremiti febbrili. Mi affretto ad accendere il
fuoco,
posiziono una sedia lì di fianco, poi trascino delicatamente
il mio amico,
facendolo sedere accanto al camino. Gli poso una mano sulla spalla,
chinandomi
leggermente verso di lui, che alza debolmente lo sguardo su di me
“vado a
prenderle dei vestiti asciutti, intanto stia qui accanto al fuoco,
vedrà che si
sentirà meglio”, dico sorridendo. Cerco di
rassicurarlo, quando in realtà
vorrei solo piangere, brucia di febbre e qualcosa lo ha spinto fino a
qui nel
cuore della notte, non posso fare a meno di sentirmi in colpa, sarei
dovuto
rimanere con lui almeno per accertarmi delle sue reali condizioni.
Fortunatamente
ho portato un cambio per l’indomani, lo afferro di fretta, mi
volto per tornare
di corsa al piano di sotto, ma i vestiti mi cadono di mano per la
sorpresa.
Sherlock Holmes in piedi di fronte a me, questa volta sembra
più lucido, le
gote arrossate e la bocca semi aperta. Si avvicina e mi posa una mano
sulla guancia,
rabbrividisco al contatto con la sua pelle fredda, ma subito dopo, la
zona
sotto la sua mano diventa calda. Incatena lo sguardo al mio, io non
riesco a
fare un passo, apre le labbra per dire qualcosa e quello che esce
è come una
doccia fredda, “sposami Watson”. Queste le sue
parole, dette con voce tremante
“accetti di sposarmi, e le prometto che questa è
l’ultima follia che le
chiederò di fare” il viso mi si accende per
l’imbarazzo, “Holmes lei, lei non
sa quello che dice”, mi affretto a dire prima che la
situazione precipiti. “Mi
sposi Watson” continua a dire, spostando lo sguardo dalle mie
labbra ai miei
occhi. “Holmes!” lo afferro per le spalle,
“lei brucia per la febbre, sta delirando”
lui scuote la testa, gli occhi si fanno a due fessure, piccole gocce
d’acqua
scivolano dai suoi capelli “no, no mi creda non sono mai
stato più lucido di
così.” Sospiro rumorosamente, abbasso lo sguardo
sulle sue labbra, pallide e
umide, scuoto nervosamente la testa e stringo poco di più le
sue spalle, non
posso permettere che rimanga un attimo di più in queste
condizioni. “Adesso lei
deve cambiarsi, si metta questi vestiti asciutti o rischia di ammalarsi
gravemente” lo guardo dritto negli occhi, la voce ferma, ma
lui non sembra
convinto. Mi fa male il cuore a vederlo in queste condizioni,
così debole e
privo di difese, accenno un sorriso “vada a cambiarsi Holmes,
le prometto che
dopo parleremo.” Il mio compagno dopo un attimo di
esitazione, annuisce
debolmente e facendo scivolare la sua mano via dalla mia guancia, entra
nella
stanza che gli ho indicato, con i vestiti asciutti. Appena la porta si
chiude
alle sue spalle, mi siedo sul letto, anzi mi lascio cadere, le braccia
puntellate con i gomiti sulle gambe e il volto fra le mani, sospiro
cercando di
fare meno rumore possibile. Non voglio che si renda conto del
turbamento che le
sue parole mi hanno causato, sono confuso, perché poi mi
chiedo, lui sta solo
delirando, probabilmente dopo che la febbre sarà passata,
non si ricorderà
nemmeno più di ciò che è accaduto.
Torturo il labbro inferiore con i denti, lo
sguardo basso e il cuore che non mi dà pace, continua a
battere furiosamente,
nonostante la consapevolezza della diagnosi una parte di me, sembra
quasi
voglia che non succeda. Una parte di me, piccola ma rumorosa, si
rifiuta di
pensare che lui possa dimenticarsi di tutto, perché se
ciò dovesse accadere, io
non sarei più lo stesso, credo. Ma un filo di luce,
proveniente dalla porta che
si apre, interrompe il flusso dei miei pensieri, Holmes con i miei
abiti
addosso, barcolla e si appoggia allo stipite della porta. Mi affretto a
raggiungerlo, lui non dice nulla, si lascia guidare fino al letto, lo
faccio
stendere e gli rimbocco le coperte. Credo si sia addormentato,
così faccio per
uscire quando una mano afferra il mio polso, mi giro e vedo gli occhi
languidi
di Holmes che mi fissano. “La prego Watson, resti”
deglutisco e con le labbra
semi aperte, mi accomodo sulla sedia accanto al letto, annuisco
“d’accordo, ma
lei deve riposare” aggiungo. Per tutta la notte sono stato
sveglio, a fare
impacchi freddi ad Holmes, gli ho posato non so quante volte lo
straccio
bagnato sulla fronte. Nemmeno il tempo di posarlo sulla sua pelle, che
subito
diventava bollente, lui nemmeno si è svegliato, ma tremava e
sussultava a ogni
contatto con lo straccio bagnato. È mattino presto ora, esco
lasciando il mio
compagno ancora assopito, prendo alla svelta le medicine e faccio
ritorno a
casa. Salgo in camera, e lo trovo seduto con i cuscini dietro la
schiena,
“Holmes lei non deve per nessuna ragione prendere
freddo” prendo una coperta
dall’armadio, sotto la sua espressione febbricitante che
segue i miei
movimenti, e gliela avvolgo intorno alle spalle. Sorride il mio
compagno
“grazie dottore” il mio cuore fa una capriola,
arrossisco violentemente e mi
giro dall’altra parte per evitare che lo noti, “le
preparo le medicine e lei le
prenderà senza fare storie” dico. Preparo tutto ciò
che mi serve per visitarlo e
controllare i suoi sintomi, anche se mi sembra solo influenza,
“le ho portato
la colazione, mangi e dopo prenderà le medicine. Per
l’ora di pranzo verrà la
signora Hudson a preparare qualcosa” dico sistemandomi
accanto a lui. Stranamente
obbedisce senza fiatare, di solito quando lo intimavo di nutrirsi,
faceva
sempre un sacco di storie, ora invece sembra un bambino ubbidiente.
Devo fare tesoro
di questo momento perché non appena sarà guarito,
tornerà il petulante
consulente investigativo di sempre, irritante e pronto ad avere sempre
l’ultima
parola. Lo guardo mangiare e un sorriso compare sul mio volto, finisce
in
fretta ed io gli do subito le medicine, anche quelle vengono buttate
giù senza
discussione. Lo libero dal piatto che è posto sul suo
grembo, mi siedo
nuovamente sul letto accanto a lui, poso una mano sulla fronte che
ancora
scotta, “come si sente Holmes?” domando. Ho bisogno
che mi dica tutto,
qualsiasi cosa fuori posto, è già capitato che
qualcosa di peggio venisse
scambiato per banale influenza, e non voglio che accada al mio amico.
Incatena
i suoi occhi ai miei, sono così lucidi che mi ritrovo a
pensare quanto siano
belli, due pozze nere nelle quali lasciarsi affondare. “Ho
freddo dottore”
tossisce “e sento un dolore così forte, che quasi
mi manca il respiro”, sgrano
gli occhi a queste parole “dove le fa male Holmes? Me lo
dica” esclamo,
cercando di non fagli capire il panico che mi ha colto, ma la voce mi
tradisce.
Lui sposta il braccio che era appoggiato sulle coperte, si posa la mano
sul
petto, proprio nel lato del cuore, “qui mi fa male”
dice con voce roca. Ed è il
mio di cuore, a perdere un battito “il cuore
Holmes?”, annuisce e socchiude le
labbra per dire qualcosa, ma un altro colpo di tosse lo scuote.
Recupera presto
e riprende ciò che voleva dire, “è da
quando lei se ne è andato, che non smette
di dolermi” impallidisco di botto, dischiudo le labbra e le
mie pupille si
fanno a due puntini. Poso entrambe le mani sulle spalle del mio
compagno,
“Holmes non si preoccupi risolveremo tutto, dobbiamo chiamare
un esperto. Perché
non è andato subito da un dottore!” esclamo. Lui
mi guarda confuso “lei è un
dottore”, io scuoto la testa “intendo un
cardiologo”, faccio per alzarmi “vado
a…” ma sento afferrarmi per la manica,
“è lei il mio dottore John l’unico che
può guarirmi”, mi dice con voce arrochita e
debole. Vengo scosso da un fremito,
e gli occhi mi si riempiono di lacrime “fino a qualche giorno
fa sosteneva il
contrario” mormoro con voce commossa e tremante. Mi riscuoto
velocemente da
quel momento di debolezza, “comunque dobbiamo chiamare
qualcuno, il cuore non è
il mio campo” abbassa lo sguardo il mio compagno, un respiro
di sconforto
lascia le sue labbra. “Devo dissentire, questo è
esattamente il suo campo” mi
dice alzando lo sguardo su di me, poi lascia la mia manica e prova ad
alzarsi
“Holmes” cerco di fermarlo, ma lui scansa le mie
braccia e debolmente si mette
in piedi. “Voglio solo dimostrarle che ho ragione”,
abbasso lo sguardo
accigliato, “come al solito” borbotto con
l’amaro in bocca e stringendo i
pugni. In due passi, si posiziona di fronte a me, prende la mia mano e
la
posiziona sul suo petto, io sussulto e alzo la testa di scatto, guardo
la mano,
poi lui, in attesa di sapere quali sono le sue intenzioni.
“Sente come batte?”,
mi domanda con voce profonda, effettivamente la velocità
delle pulsazioni è
fuori dal normale, deglutisco “davvero molto veloce Holmes,
troppo direi”,
sorride tirando un angolo della bocca. Continuiamo a guardarci, le
orecchie mi
fischiano terribilmente, mi sento disorientato, “ora vediamo
cosa succede se
faccio questo” dice dolcemente, avvicinando il suo viso al
mio. Il fiato mi si
blocca in gola, lo vedo dischiudere leggermente le labbra e avvicinarsi
a me,
sono paralizzato, e la verità è che non ho alcuna
intenzione di muovermi.
Socchiudo gli occhi, lascio che posi le labbra sulle mie, sono calde e
la lieve
barba di qualche giorno, mi punzecchia e nello stesso tempo fa
contrasto con i
miei baffi. Le nostre labbra si muovono delicatamente, piano, in un
movimento
impercettibile, il mio cuore accelera, porto attenzione alla mia mano,
ancora
appoggiata al petto di Holmes, sento il suo cuore moderare i battiti,
lentamente rallentare. È strano penso, abbiamo avuto due
reazioni completamente
diverse, ci stacchiamo dal bacio, le palpebre mi tremano mentre apro
gli occhi,
osservo i suoi ancora chiusi. Un sorriso nasce sul suo volto,
“ha sentito
dottore? Come dicevo, lei è la mia unica cura”
sussurra aprendo piano gli
occhi. Mi schiarisco la voce, sposto lo sguardo imbarazzato, le guance
sembra
stiano andando a fuoco “p-perché il suo cuore ha
rallentato, mentre il mio…” mi
fermo per riprendere fiato. Con un cenno del capo lui mi invita a
proseguire,
ma non ci riesco, mi tremano le mani e la testa è in preda a
una tale
confusione. Mi sento un idiota, un totale incompetente che pone domande
stupide
e senza senso, tolgo la mano dal suo petto, e la lascio cadere al mio
fianco.
Alzo poco lo sguardo su di lui, lo vedo barcollare per un istante, poi
posa
entrambe le mani sul mio petto, “sa benissimo il motivo qual
è, ma si rifiuta
di accettarlo Watson” mi dice pacato, io gonfio il petto e
lascio andare l’aria
con un sospiro. “Il mio cuore si è sentito a casa,
mentre il suo ha capito quello
che desidera davvero” dice ed io sbuffo in un sorriso
“è un po’ presuntuoso da
parte sua dire questo” esclamo con vena ironica, nel
tentativo di mascherare
l’agitazione. Il mio compagno si siede sul letto
“lei dimentica con chi sta
parlando, mio caro Watson” porto una mano alla nuca,
passandola fra i capelli
“comunque non possiamo ignorare la situazione in cui si
trova” gli dico
chiaramente. Il mio compagno non si scompone, punta lo sguardo verso di
me “è
questa la sua paura dottore? Che passata la febbre io mi dimentichi di
tutto?”
non rispondo ma il mio sguardo turbato parla da solo. “Io, io
non lo so! Non so
cosa di questa situazione mi turba di più!” dico
questo, mentre mi muovo
nervosamente avanti e indietro per la stanza. Mi sento così
frustrato, i pensieri
scalpitano nella mente e non riesco a fare ordine, poi
c’è lui, che mi squadra
con quei suo occhi magnetici facendomi sentire debole. Non oso
avvicinarmi,
perché ho voglia di baciare ancora le sue labbra, passare le
dita fra i suoi
capelli, fare tutto ciò che non ho fatto prima
perché preso alla sprovvista. So
che lo farei, senza esitazione, se mi avvicinassi troppo. Cerco di
trovare una
scappatoia, almeno per rimandare l’evolversi di quella
situazione, che avanza
come un treno in corsa. “Lei adesso deve riposare”
provo a dire sperando che mi
dia retta, annuisce ed io sospiro di sollievo “ah!
Un’ ultima cosa Watson”
ferma il mio cammino verso la porta. Lo stomaco si stringe in una
morsa, mi
giro verso di lui “prenda il mio orologio” lo
guardo perplesso da quella strana
richiesta, “avanti dottore, non si faccia pregare”,
tossisce. Prima che si
prenda una bronchite, mi affretto a fare ciò che mi ha
chiesto, lo ha lasciato
nella tasca dei pantaloni, in bagno. Sono ancora umidi, scavo dentro la
tasca e
lo prendo, rientro in camera e punto lo sguardo verso il mio compagno,
mi
avvicino di poco, allungo il braccio “tenga” dico.
Allontana la mia mano scuotendo
la testa, “lo tenga lei” dice sorridendomi, mi
gratto il capo in segno di
confusione, “e che cosa dovrei farci?” domando.
“Lo osservi, con attenzione mi
raccomando. Segua i miei metodi”, si accuccia sotto le
coperte, girandosi di
spalle, lasciando me, impalato a fissare quell’oggetto, con
dalla mia parte
solo le sue ambigue istruzioni. Esco dalla stanza, scendo i gradini uno
ad uno,
silenziosamente, non voglio disturbare uno dei pochi momenti in cui si
riposa.
Mi siedo sul divano, ma un improvviso giramento di testa mi coglie,
forse
dovuto alla mancanza di sonno a cui non sono abituato. Decido di
chiudere gli occhi,
almeno per qualche ora, prima di dedicarmi alle istruzioni che il mio
compagno
mi ha dato. Quando mi sveglio, sento la bocca secca e il corpo
intorpidito, mi
stiro per bene poi, salgo a controllare Holmes che dorme ancora,
così decido di
dedicarmi a quel benedetto orologio. Non ho idea di cosa voglia che
trovi, mi
siedo con un sbuffo, prendo in mano quel piccolo oggetto, dorato e
freddo, uno
strano calore mi avvolge il centro del petto, a sapere che appartiene a
lui.
Scuoto la testa, cercando di scacciare questo pensiero, lo apro e sento
come se
una lama appuntita mi si infilzasse dritta nel cuore. Spalanco gli
occhi, mi
pizzicano e sono umidi, serro la mascella e deglutisco, per non
lasciare andare
le lacrime. Lo stomaco, stretto in una morsa ferrea, mi si contrae da
farmi
quasi gemere per il dolore, la mano trema, ed io sento una rabbia
salirmi fin
sopra la punta delle orecchie. In vita mia, non ho mai sperimentato
nulla di
simile, fatico a capirne il motivo o forse, è talmente
chiaro che la mia mente
si rifiuta di crederlo. Tutto questo per una foto, la sua foto, di
quella donna,
proprio all’interno del coperchio, è questo che
voleva che vedessi, non capisco
a che gioco stia giocando. Non faccio altro che chiedermi,
perché dopo tutto
ciò che ha fatto e che mi ha detto, ha voluto che vedessi
questa foto. Cosa
vuole che capisca? Chiudo con forza l’orologio, salgo di
fretta le scale, spalanco
la porta “Holmes”, lo chiamo e non mi importa se
dorme. Lui si gira, con il
viso stropicciato dal sonno, si sfrega gli occhi, si tira su mettendosi
seduto,
con la schiena poggiata sui cuscini. “Watson, qualcosa non
va?” domanda con
voce arrochita dal sonno, getto l’orologio sul suo grembo,
“che diamine
significa?” domando freddo. Sherlock Holmes sposta lo sguardo
sull’oggetto, un
velo di luce illumina i suoi occhi “è riuscito ad
aprirlo!”, esclama con voce
ilare ma debole. Poi però si volta verso di me, legge
l’emozione sul mio volto
e anche il suo si incupisce, “sembra scontento
Watson” stringo i pugni e
digrigno i denti per la rabbia. Mi avvicino di qualche passo
“come fa anche
solo a pensare, che io potrei essere contento dopo aver visto quella
foto?”,
sussulta e le sue iridi tremano mentre mi guarda. “Mi
dispiace Watson” mormora
stringendo i lembi del lenzuolo, perdo un battito a quelle parole, i
muscoli si
rilassano e per un momento dimentico tutta la rabbia che avevo.
Continua il suo
discorso, tenendo lo sguardo basso “ho creduto, dopo quello
che è successo, di
aver fornito una speranza. Per noi due” deglutisce. Sembra
quasi di vedere una
lacrima, piccola e lucente, nell’angolo del suo occhio
destro, crollano tutte
le mie difese, la voce diventa morbida “per noi due? Holmes
la febbre deve
averla fatta sragionare” scuote piano la testa
“sono stato inopportuno”,
incrocio le braccia al petto “terribilmente” dico
con fermezza. Guardo la sua
espressione e mi sento in colpa, ed è ridicolo
perché dovrei essere io quello
ferito, non lui. Decido di intervenire “senta Holmes, capisco
che i sentimenti
non sono il suo campo. Ma per il suo scopo, non crede che mostrarmi la
foto
della donna, sia da stupidi?” domando, lui alza lo sguardo su
di me, “donna?”
chiede. Ora penso davvero che sta cercando di prendermi in giro, lo
guardo con
l’espressione che usa lui, quando sono io a dire
un’ovvietà. “Ma certo, la
donna!” esclama aprendo l’orologio, ed io sono
certo che se non fosse per la
febbre, lo prenderei volentieri a pugni. Scuote la testa ridendo,
“oh Watson!
Mio caro, vecchio, ingenuo Watson. Le avevo detto di guardare bene,
come ha
fatto a sfuggirle?” ridacchia guardando nella mia direzione.
Stringo i pugni e
digrigno i denti, “Holmes” sibilo, “ora
mi prende anche in giro?” esclamo con voce
stridula, “venga qui dottore” mi ordina dolcemente,
“non ci penso nemmeno”
esclamo. Si morde le labbra “lei ha aperto
l’orologio in due”, sospiro
rassegnato guardando verso l’alto, “certo
è così che si aprono i dannati
orologi” rispondo, con più rabbia di quanto
volessi. Il mio compagno piega la
testa da un lato, sorride sornione “ha ragione, ma questo non
è un orologio
normale”, lo guardo confuso e anche abbastanza seccato
“che vuole dire?” domando.
“Il mio orologio, si apre in tre parti. È un
po’ difficile capire il
meccanismo, lo ammetto. Ma in mia difesa, credevo che lei ci sarebbe
arrivato”
dice queste parole, ma nella sua voce, non c’è
traccia di quella vena di
superiorità che contraddistingue sempre le sue spiegazioni. Provo a fare una deduzione,
abbastanza banale,
ma decido di farla comunque “quindi la cosa che voleva che
vedessi, è nella
terza parte, suppongo” lui annuisce soltanto, allungandomi
l’orologio, da cui
ora vedo benissimo la sua peculiarità. Lo prendo in mano,
sfiorando le sue dita
che mi procurano un brivido, guardo i primi due quadranti, poi il mio
sguardo
si posa sul terzo. L’orologio mi scivola di mano, finendo
inevitabilmente a
terra, rimbalza due volte, poi si ferma sul pavimento, come le mie
braccia,
rimaste ferme a mezz’aria. “Holmes”
riesco soltanto a dire, ed il suono esce
così flebile, che quasi credo di non aver pronunciato
parola. “Spero non le
dispiaccia Watson”, dice con un’espressione tra il
sollevato e il preoccupato,
io non riesco a trovare la forza di dire niente. Rimango nella stessa
posizione
di prima, le sopracciglia leggermente corrucciate, le labbra semi
aperte e le
mani a mezz’aria, il cuore che furiosamente rimbomba nella
cassa toracica. È
lui a prendere nuovamente parola, “capisce che non potevo
mostrarla a nessuno.
Senta se ha voglia di tirarmi un pugno, capisco benissimo, lo faccia e
basta.
Non avrei dovuto farlo senza il suo permesso, ma come facevo a
domandarle una
cosa del genere” parla senza sosta, come un treno. Io
finalmente mi riscuoto,
schiarisco la voce, deglutisco prima di prendere parola
“veramente c’è una cosa
che voglio fare. Se me lo concede” dico prima di prendere un
bel respiro. Holmes
abbassa la testa, rassegnato “faccia pure, mi
colpisca” dice mostrandomi lo
zigomo, io lo prendo come un invito e mi avvicino. Prendo posto accanto
a lui,
il materasso si abbassa sotto il mio peso, noto che trattiene il fiato,
ed il
mio orgoglio per un attimo si riempie. Alzo entrambe le mani verso
l’alto, le
avvicino al suo viso e delicatamente lo afferro tirandolo verso di me.
Nello
stesso istante avvicino anche il mio di viso, rimango fermo, osservo i
suoi
occhi che rimangono fissi su di me, i miei invece si spostano sulle sue
labbra.
Lascio che i nostri nasi si sfiorino, voglio bearmi di questa
sensazione ancora
un po’, la sua pelle accaldata sotto le mie mani, sorrido
tirando un angolo
della bocca, poi abbasso le palpebre e chiudo la distanza tra noi, con
un
bacio. Rimaniamo fermi questa volta, i nostri respiri che si fondono,
il volto
del mio compagno si rilassa. Sposto le mani fra i suoi capelli, lascio
che le
dita vengano accarezzate da quei sottili fili neri, morbidi, una scossa
attraversa il mio corpo, ed io spingo il volto in avanti, per aumentare
il
contatto tra le nostre labbra. Provoco involontariamente, un mugolio
sommesso
al mio compagno, che afferra le mie spalle e stringe la stoffa della
camicia.
Con il cuore ormai in gola, le mani ancorate al viso di Sherlock, mi
siedo
sopra di lui, con una spinta in avanti faccio aderire il corpo del mio
compagno
al materasso. Sdraiato sopra di lui, i nostri corpi aderiscono
completamente, le
sue mani accarezzano piacevolmente i miei fianchi, è un
tocco delicato il suo,
non rude come me lo sarei aspettato. Dal canto mio continuo a premere
le labbra
sulle sue, fino a quando lui dischiude leggermente la bocca, lo prendo
come un
invito e approfondisco il bacio. Non appena le nostre lingue si
sfiorano, un
brivido di piacere pervade il mio corpo, muovo il bacino contro il suo,
in una calda
carezza. Non importa che a separarci ci sono vestiti e coperte, quel
contatto
ha provocato piacere ad entrambi, lo faccio altre due o tre volte,
provocando
continui mugolii ad Holmes, che mi fanno perdere la testa. Quando
è l’aria a
mancarmi, interrompo il bacio lentamente, rimaniamo in quella
posizione, con i
visi a pochi centimetri l’uno dall’altro.
“Perché si è fermato Watson?”
domanda
con voce roca, io sorrido “dobbiamo riprendere
fiato”, lui mi rimprovera con
una smorfia di disappunto “a che ci serve respirare? Quando
possiamo occupare
il tempo in modo più interessante” dice
provocandomi una risata. “Holmes, lei
trattenga pure il fiato se vuole, ma io ne ho bisogno”,
rispondo ancora
ansimando piano, beandomi di quelle gote arrossate e occhi lucidi di
piacere. “Io
invece” prende parola lui, “ho bisogno di
qualcos’altro” dice alzando le sopracciglia,
“oh lo sento!” esclamo sorridendo,
poi mi rendo conto della mia allusione e divento viola in volto. Mi
tiro a
sedere restando comunque sopra di lui, cerco di riparare ma escono solo
balbettii sconnessi “Holmes i-io, n-non” lui
scoppia a ridere “oh Watson non la
facevo così malizioso”, abbasso lo sguardo rosso
per la vergogna. Lo scavalco
mettendomi sdraiato, nella parte di materasso libera accanto a lui,
“la finisca
di ridere” lo rimprovero, si gira d’un fianco verso
di me “altrimenti?” mi
domanda con voce maliziosa. Dal canto mio, mi limito ad arrossire, poi
lo spingo
giù premendogli la spalla “lei ha la febbre. Per
il momento si limiti a farsela
passare.” Il mio compagno mette il broncio e si rigira,
tuffando la faccia sul
cuscino. Io mi metto a sedere, portando i cuscini dietro la schiena,
“ovevo
opio ami ottoe” biascica qualcosa, ma essendo con il volto
premuto contro il
cuscino, non riesco a comprenderne il significato. Mi gratto la testa,
sorrido
anche se so che non può vedermi, “che cosa ha
detto Holmes?” si tira su di
scatto, e con il volto a poca distanza dal mio, sputa fuori
“dovevo proprio
innamorarmi di un dottore!” Il mio cuore perde un battito, il
viso mi si
colora, come quello di Holmes che diventa rosso di colpo, quasi si
fosse reso
conto, solo in questo momento di ciò che ha detto. Rimaniamo
così per un po’,
poi io sorrido sornione, “non la facevo così
romantico Holmes” ridacchio. Il
mio compagno, volta la testa dall’altra parte “l-lo
ha detto anche lei, che
deliro per la febbre”, balbetta provocandomi un sorriso, non
si è mai esposto
così tanto. Da quando lo conosco, quasi mai gli ho visto
ammettere una
debolezza, esprimere completamente i suoi sentimenti, e ora si
è trovato ad
esternali, sono sicuro che non è stato facile. Ha sempre
cercato di mantenere
la facciata di macchina pensante, ma io con il tempo, ho capito che lui
è molto
più di quello. Ha un cuore, lo usa in maniera diversa dagli
altri, ma questo
non significa che non funziona, anzi il contrario, forse funziona molto
più
velocemente, rispetto a quello di tutti noi. Gli poso una mano sulla
spalla “va
tutto bene Sherlock” lui sussulta, si gira verso di me e
serio mi dice “non so
se sarò in grado dottore.” Lo guardo confuso, con
le sopracciglia inarcate, “di
cosa parla?” domando curioso, piega le gambe verso il grembo
e le circonda con
le braccia, “di fare questo.” La sua frase mi
lascia spiazzato, continua a
guardare verso il muro e come se avesse letto nel mio pensiero,
risponde alla
tacita domanda “i sentimenti John, io non so se
riuscirò ad essere, quello che
vuole che io sia”, mentre parla il suo sguardo diventa
triste. “Lei è abituato
a corteggiare le donne, a stare insieme con qualcuno, e queste persone
ricambiano il suo affetto. Lei porta fiori e in cambio riceve
complimenti o
carezze, ed io, i-io” interrompe il suo discorso con un
sospiro, non l’ho mai
visto così in difficolta, e non so come aiutarlo. Dopo
qualche istante di
silenzio, gli prendo il volto e lo giro verso di me, “Holmes!
Io desidero solo
che lei sia se stesso, non voglio nessun altro. Proprio ora che ho
compreso i
miei sentimenti e gli ho accettati, crede che voglia trasformarla in
qualcuno
che non è?”, lo guardo fisso negli occhi e i suoi
diventano lucidi. “Al
massimo, invece di portarle dei fiori, le porterò qualche
oggetto da
ispezionare” dico con ilarità, facendo scoppiare a
ridere il mio compagno “oh
Watson lei sa sempre cosa dire, al momento giusto!” esclama.
Passano alcuni
giorni, prima che il mio caro Sherlock si riprenda definitivamente
dalla febbre,
giorni in cui abbiamo passato tempo a parlare di noi due, e altri
momenti in
cui, Sherlock Holmes si scusava di essere arrivato a brucia pelo. Mi ha
detto
che non aveva intenzione di distruggere la mia felicità, ma
quando ha saputo
che lo avrei lasciato per sempre, se non avesse almeno provato a fare
qualcosa,
lo avrebbe rimpianto per tutta la vita. Ho lasciato Mary naturalmente,
non
avrei mai potuto mentirle, ha pianto ma ha compreso la mia decisione,
le ho
detto che la voglia di avventura sarebbe sempre rimasta attiva in me.
Ho come
la sensazione però, che lei abbia capito che
c’è qualcos’altro, ma non importa
ora, so che lei non farebbe nulla per farmi del male, né a
me né a nessun altro.
Finalmente, una volta ristabilito, possiamo tornare a casa nostra, la
padrona
di casa sarà felice di riaverci fra i piedi. È
una tranquilla sera e dopo aver
mangiato una deliziosa cena, io ed Holmes, ce ne stiamo seduti sulle
rispettive
poltrone, a fumare. Io mi alzo per prendere qualcosa da bere,
“da quanto è
innamorato di me Watson?”, il liquido che sto ingerendo mi va
di traverso,
facendomi tossire nervosamente. “C-come?” domando,
lui sorride “ha sentito”
sospiro rassegnato e mi torturo le mani, “davvero vuole
saperlo?” gli domando,
lui si gira verso di me “perché no?”
risponde. Faccio qualche passo titubante
verso la poltrona, poi mi siedo, sotto lo sguardo acuto del mio
compagno, lo
guardo negli occhi, sento subito le gote scaldarsi e il cuore
accelerare, per
via di ciò che sto per rivelargli. “Sa Holmes, io
l’ho sempre ammirata, per la
sua intelligenza, per la capacità di vedere dettagli
nascosti, e tutte le altre
qualità che lei possiede. Questo non gliel’ho mai
nascosto, credevo che il mio
interesse verso di lei, fosse per la semplice curiosità di
penetrare un essere
così fuori dal comune”, mi fermo un istante per
vedere la sua reazione. Le sue
guance rosate e il lieve sorriso, mi spingono a proseguire
“però man mano che
il tempo passava, mi sentivo legato e attratto da lei, in un modo che
con un
uomo non mi era mai capitato. Ho sempre saputo che ciò che
sentivo, andava
oltre l’amicizia, e l’ho capito in maniera
definitiva durante il caso di
Milverton” dico, alzando d’istino gli occhi verso
di lui. Sussulta e sgrana gli
occhi in segno di sorpresa, ma non dice nulla, rimane in quella
posizione, con
il busto inclinato in avanti, le mani sotto il mento e lo sguardo fisso
su di
me. È sempre stato lui, quello a cui toccavano le lunghe
spiegazioni, le
delucidazioni, lui parlava ed io, o chi altro ascoltavamo. Ho sempre
desiderato
poter essere al suo posto, conoscere gran quantità di
materiale, da poter
mettere al proprio posto tutti i tasselli esistenti. Ora che quel
momento è
arrivato, non mi sento all’altezza, come se tutte le parole
che uso fossero
sbagliate. Ho il timore di dire qualcosa di stupido, ed è
già capitato in
passato, ma non in una situazione così personale ed intima.
Comunque prendo un
respiro di coraggio, e incentivato anche dalla serenità che
il mio compagno
dimostra, vado avanti. La voce mi trema leggermente “quando,
dietro quella
tenda, ho sentito le sue dita, infilarsi nella mia mano e stringerla,
tutto il
panico e la paura, che albergava nel mio cuore, si è
dissolta” mi fermo un
istante, tiro su col naso poi continuo, non voglio che mi interrompa
ora. “Saremmo
potuti morire sul serio quella notte, eppure sarei morto felice, mano
nella
mano con lei”, alzo lo sguardo titubante e lo vedo sorridere,
“non è facile per
me confessarle questo, Holmes” dico accarezzandomi un
ginocchio. “Oh Watson” mi
chiama con voce tremante, io lo guardo, ha gli occhi che brillano e le
gote
arrossate, “perché non me lo ha detto
prima?” domanda. Scuoto piano la testa
“come potevo Holmes, la situazione era difficile, sotto ogni
punto di vista.
Poi non avevo idea, che lei provasse qualcosa per me”,
confesso imbarazzato. Il
mio compagno sorride, ma prima che dica qualcosa aggiungo “in
verità…credevo
che con le sue capacità deduttive, lo avrebbe
capito” si alza in piedi e mi
tende la mano, io l’afferro e mi alzo. Siamo uno di fronte
all’altro, senza
lasciare la mia mano riprende parola, “lei dimentica che io
ho qualche
difficoltà, con i sentimenti. Ci ho messo un po’
ad allineare tutti i punti”,
sorride tirando un angolo della bocca. Io deglutisco a vuoto, sorpreso
da
quelle parole, “q-quindi lei, lo aveva capito?”
chiedo tremando, lo guardo con
gli occhi ben aperti e le labbra dischiuse. Il suo odore, insieme alla
sua
vicinanza mi fanno sempre uno strano effetto, mi inebriano le meningi,
lui
sorride “altrimenti perché, sarei venuto nel cuore
della notte, a farle quella
folle richiesta” ridacchia e a me, sembra quasi di
sciogliermi sul pavimento.
Le ginocchia mi tremano, e muoio dalla voglia di chiedergli una cosa,
ma temo
di rovinare questo momento, è anche vero che stiamo
confessando l’un l’altro
delle cose, quindi quale momento migliore di adesso. Sfilo la mano
dalla sua,
per poi posare entrambe sul suo petto, coperto dalla vestaglia, stringo
leggermente i lembi della stoffa, guardo in basso, poi di nuovo verso
di lui,
“le ho fatto male quando ho deciso di sposare
Mary?” chiedo goffamente. Il mio
compagno deglutisce, alza lo sguardo verso l’alto, poi lo
punta su di me, è
lucido ed io, sento già il senso di colpa farsi strada fra
le mie viscere. Sospira,
posa le mani sulle mie, ancora appoggiate sul suo petto
“Watson, mi ha fatto
male dal primo momento, da quando i suoi occhi si sono posati su quella
ragazza. Ogni sguardo che le donne le concedevano e che lei ricambiava,
ogni
sorriso che donava a loro e sottraeva a me, faceva male e ha sempre
fatto male.
Non lo davo a vedere, lo ammetto; Tutte le volte che la sapevo in
qualche
squallido pub, lontano da me, e le volte che rivolgeva parole dolci, a
qualche
dama o gentil uomo da consolare, oh Watson ho creduto di
impazzire.” Finisce
così la sua confessione, con la voce più sottile,
ma pregna di sentimenti
trattenuti per troppo tempo, tremante appoggio la testa sul suo petto
“mio caro
Holmes, non sa quanto mi dispiace”, dico con voce commossa.
In risposta lui,
posa una mano sul mio collo, e con il pollice sfiora delicatamente i
capelli,
l’altra mano aperta fra le scapole, la sua guancia sopra la
mia testa “è tutto
passato adesso, Watson” sussurra fra i miei capelli. Un
brivido percorre la mia
spina dorsale, mi stringo un po’ di più a lui, poi
tiro su piano il viso,
inevitabilmente anche Sherlock sposta il suo, ci guardiamo ed io, mi
rendo
conto solo ora, di quanto mi piaccia il fatto che lui sia
più alto di me. Il
suoi centimetri in più, mi permettono di alzare il viso,
guardare i suoi occhi
che mi osservano dall’alto, mi da un senso di conforto. Mi
spingo poco sulle
punte dei piedi, in modo da raggiungere le sue labbra, avvolgo le
braccia
intorno alla sua vita e anche lui mi stringe, carezzando delicatamente
tutta la
mia schiena. Un bacio che sa di casa, di desiderio fin troppo a lungo
trattenuto, un bacio al sapore di senso di colpa e perdono, un bacio
che se non
ci fosse stato, avrei rimpianto per tutta la vita. Quando ci
stacchiamo, sposto
una mano sul suo petto, e sussurro sulle sue labbra “come sta
il suo cuore
Holmes?”, sorride solleticando il mio naso con il suo
“una meraviglia dottore,
ha fatto proprio un ottimo lavoro” dice accarezzandomi una
guancia. Il nostro
momento di affetto viene interrotto dal bussare della porta, entra la
padrona
di casa per consegnare un biglietto ad Holmes
“grazie
signora Hudson”, diciamo
in coro io e il mio compagno, lei sorride, annuisce e prima di uscire,
mi
lancia un occhiolino di chi la sa lunga. “Holmes”
lo chiamo, interrompendo la
sua lettura “mmm?” risponde, io mi sistemo meglio
“era serio quando mi ha
detto, che quella di sposarla sarebbe stata l’ultima follia
che mi avrebbe
chiesto di fare?” domando con fare titubante. Non appena
finito di porre la
domanda, mi rendo conto che ciò che ho chiesto è
infinitamente stupido, in
verità da quando io e Holmes stiamo insieme, me ne sono
venute di domande
stupide. Credo che in me sia nata una sorta di insicurezza, che non
sapevo nemmeno
di avere, almeno non in campo sentimentale, anche se sono abbastanza
sicuro che
non dipende solo dai sentimenti, ma da chi ho davanti. Sherlock Holmes,
l’unico
in grado di farmi perdere la ragione, in mille modi possibili, sorrido
tra me e
me, dimenticandomi quasi di aver posto una domanda al mio compagno.
Porto lo
sguardo su di lui, sorride -lo fa spesso da quando siamo tornati a
casa- poi
piega la testa da un lato, posando il pugno chiuso sulla guancia,
“lei vorrebbe
che lo fosse?” domanda. Troppo comodo rispondere con una
domanda a un’altra
domanda, sbuffo scuotendo la testa, “cielo no!”
esclamo, Sherlock batte
entrambe le mani sulle ginocchia, si alza in piedi di scatto e con voce
acuta
dice “benissimo Watson! Perché abbiamo un nuovo
caso che ci aspetta. Prenda
cappello e cappotto, usciamo.” Io sorrido ampiamente, felice
di avergli sentito
dire queste parole, “pronto a infrangere la legge?”
mi domanda, “come sempre!”
rispondo dandogli una pacca sulla spalla. Chiudo la porta di casa,
sapendo che
non sarà l’ultima volta che lo farò,
che finché avrò vita, il 221B di Baker
Street, sarà sempre casa mia. Il luogo che condivido con
l’uomo migliore che mi
sia capitato di conoscere, l’uomo che amo, Sherlock Holmes.
NOTE:
I
racconti casi citati non sono in
ordine.
·
Dove
c’è l’asterisco è una frase
presa direttamente dal racconto
di Doyle, i cui personaggi non mi appartengono
·
Spero
vi piaccia
·
L’abbraccio
verso la fine, è stato ispirato da quello che si sono
dati Sherlock e John di BBC