Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    19/02/2019    0 recensioni
Dopo la sconfitta di Gargoyle, i superstiti del Nuovo Nautilus cercano lentamente di far tornare alla normalità le proprie esistenze. Non è semplice, quando si è vissuta un'avventura come la loro.
Electra ha visto morire l'uomo che amava e si trova da sola con un bambino da crescere. Nadia non riesce a smettere di guardare al passato nonostante abbia ormai la vita che desidera.
Presto, troppo presto, l'incubo di Atlantide torna ad addensarsi sul futuro.
E, stavolta, sembra esigere la vita dei suoi Figli.
Basteranno a salvarli l'abnegazione di una madre, il legame di una sorella e di un fratello?
Basterà il comandamento di un padre, "vivi"?
Basterà l'amore?
"Nadia, noi non siamo obbligati a dare o ricevere amore. Noi siamo amore."
Genere: Science-fiction, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Medina Ra Lugensius, Nadia Ra Arwol, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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ETIENNE
 
 
 
 
Tangeri li accolse col rumore del mare, con la schiuma delle onde che si infrangeva sulle banchine del porto. Nonostante fosse pieno inverno, la temperatura era mite.
Nadia e Jean trovarono Raoul ad aspettarli al porto.
«Ragazzi, che piacere vedervi! Come state?»
«Bene!» rispose Jean «E lei?»
Il vecchio rise.
«Dammi pure del tu, Jean. Ci conosciamo da una vita. Com’è andato il viaggio?»
«Diciamo bene. Qualche tratto di mare grosso, ma niente di insuperabile.»
«Immagino, in pieno inverno è normale anche nel Mediterraneo.»
Come la prima volta che erano sbarcati a Tangeri si incamminarono a piedi verso la Medina. Il labirinto di stradine in leggera salita li accolse con lo stesso fascino di mesi prima, e i bambini corsero davanti a loro per farsi dare caramelle e spiccioli.
«Come sta Electra?» domandò Nadia.
«Sta bene, anche se è un po’ stanca. Il bambino le dà parecchio da fare.»
«Ah sì?»
«Diciamo che ci vorrà ancora un po’ perché Etienne capisca che di notte bisogna dormire.»
Nadia sorrise. Era piuttosto allegra quel giorno. Durante il viaggio in nave non aveva pensato più di tanto a quel nuovo fratellino, ma ammetteva che adesso era curiosa di conoscerlo.
E poi era felice di avere l’opportunità di rivedere Icolina e Raoul.
Anche Electra. Sì, se qualcuno avesse detto alla se stessa del passato che sarebbe stata contenta di rivedere Electra, probabilmente non ci avrebbe creduto.
Lungo la strada si fermarono a comprare verdure e spezie per la cena. Avrebbero mangiato a casa, una cena di benvenuto. Icolina era ai fornelli dal mattino, ma col trambusto che c’era stato in casa nell’ultimo mese finiva sempre per mancare qualcosina e naturalmente se ne accorgevano all’ultimo momento. Era una vita molto diversa da quella militare su un sottomarino, una vita oziosa che il periodo della lotta contro Gargoyle aveva fatto loro dimenticare.
Quando infine aprirono il portone e si affacciarono nel cortile del palazzo, vennero accolti da un silenzio irreale.
Jean si fece avanti.
«Signorina Electra? Icolina?»
Sbucarono entrambe dai balconi del piano di sopra, una con un mestolo fra le mani, l’altra con l’indice davanti alle labbra.

«Shhhhhh!»
Raoul ridacchiò e alzò le spalle.
«Il bimbo dorme», disse.
 
 
Electra li fece accomodare in uno splendido salotto in stile marocchino, adorno di cuscini e tappeti, e servì loro un tè alla menta.
«Resto io a controllare Etienne», aveva detto Icolina «Se si sveglia ti chiamo.»
«Se si sveglia lo sentirò», era stato il commento di Electra.
Era impossibile non sentire un neonato che piangeva, decisamente.
«Più tardi ve lo farò conoscere. Ora è meglio approfittare del fatto che dorma. Si sveglia per un niente.»
Nadia la osservava, stupefatta. Non era abituata a vederla in vesti casalinghe. Indossava una semplice djellaba azzurra con ornamenti dorati e aveva uno sguardo un po’ stanco ma sereno.
«Icolina ha voluto cucinare per tutti, il menù è a sorpresa.»
S’accorse che Nadia la osservava.
«Che c’è?» le chiese.
Nadia sobbalzò.
«No, niente, è che… ti trovo bene.»
Electra sorrise.
«Grazie. In realtà ho più l’impressione di essere un disastro, non dormo decentemente da quando è nato Etí.»
Bevve un sorso di tè.
«Anzi, non vi sorprendete se di notte mi troverete a vagare per casa con Etienne in braccio. Tutto normale.»
Raoul rise.
«È fortunata ad avere Icolina che è brava con i bambini.»
Electra annuì.
«Già. A dire il vero non so cos’avrei fatto senza di lei. Senza voi tutti accanto.»
I suoi occhi limpidi s’incupirono per un istante. Fu solo un attimo, però, poi tornò a sorridere.
 
 
Raoul parla a Nadia mentre stanno salendo per le stradine della Medina.
«È sempre indaffarata», dice «ma è meglio così. La vedrai, la troverai tranquilla.»
Perfino raggiante, talvolta, quando il bambino ride.
«Meglio che sia così. Meglio che abbia da fare, che si svegli ogni notte, che tenga Etienne in braccio. È stanca, è vero. Ma così non pensa a lui
O non riuscirebbe a respirare.
Etienne è stato il più prezioso dei doni.
 
 
Icolina aveva preparato una serie di piatti vegetariani apposta per Nadia. Frittelle di melanzane, cuscus di verdure e taktouka accompagnavano il tajine e i dolci, e l’aria profumava di tè alla menta e spezie. Icolina non aveva voluto rivelare la mistura di spezie che aveva usato nel tajine di montone, ma Jean assicurò che era strepitosa e che la carne, più che di pecora, profumava di fiori.
Cenarono al piano di sopra, seduti attorno a un bel tavolo di legno.
Parlarono di come andavano le cose in Francia, ora che le loro vite erano tornate più o meno alla normalità. Jean aveva ricominciato a inventare velivoli, Nadia osservava e gli dava una mano per quel che poteva. Aiutava anche la zia a tenere in ordine la casa, visto che almeno quello glielo lasciava fare.
Parlarono di Marie, che si trovava bene a casa dei suoi parenti anche se sentiva la mancanza di King e degli altri.
Fu più o meno al momento del dolce che sentirono Etienne piangere.
Electra si alzò.
«Lo vado a prendere.»
Tornò poco dopo, cullando il bambino fra le braccia.
Il piccolo piagnucolava ancora, ma il peggio sembrava passato.
«Si spaventa quando si sveglia ed è da solo», disse Electra «però gli passa presto.»
Era vestito con un caftano da neonato color avorio, adornato da decorazioni dorate. Aveva delle babbucce ai piedi e dalle larghe maniche della vestina spuntava un braccio dalla pelle scura.
«Su, Etienne. Saluta Nadia e Jean.»
Il bambino, straordinariamente, mosse la testa. Si girò, li guardò, come se avesse davvero capito quello che gli aveva detto la madre. Era ancora presto per dire a chi somigliasse, aveva gli occhi del grigio indefinito dei primi mesi e la testa tonda da neonato, ma i sottili capelli che aveva erano scuri come quelli del padre. Era un bimbo grazioso, apparentemente sano e robusto, e guardava quegli estranei come se stesse davvero cercando di capire chi fossero.
Nadia, inaspettatamente, fu la prima a fare un passo avanti.
Sentiva un nodo alla gola che non riusciva a spiegarsi.
Capì, come in una folgorazione, che provava affetto.
Gli voleva bene. Gli voleva bene e non capiva perché, se l’aveva appena incontrato.
Si era sempre chiesta se fosse ovvio voler bene ai propri parenti. Non avendoli mai conosciuti non sapeva quale fosse la risposta.
Allungò una mano, lo prese in braccio.
Non aveva idea di come si tenesse un neonato, ma Electra le mostrò come reggere la testa in modo corretto.
Lo guardò.
Aveva gli occhi un po’ gonfi per le lacrime, ma curiosi.
Così si osservarono, a lungo.
Si riconobbero.
Nadia quasi pianse per la gioia, senza sapere perché. Un’emozione improvvisa, quale non aveva mai provato prima. Etienne allungò una delle piccole braccia come se volesse salutarla, Nadia gli diede un dito da stringere.
«Ciao…» gli disse.
Sorrideva, visibilmente commossa.
Lo cullò un poco ed Etienne sorrise, a sua volta.
 
 
"Te lo ricordi quel giorno?"
"Sì."
"Ero tra le tue braccia."
"Sì."
"Che cos’hai provato quando mi hai visto?"
"Ti ho amato."
 
«Sta ridendo.»
Electra annuì.
«Sì, ride spesso. Beato lui che sa ancora così poco del mondo.»
Il bambino, ipnotizzato dagli orecchini dorati di Nadia, allungò un braccio per cercare di toccarli. Nadia se ne tolse uno e glielo sventolò davanti alla faccia.
«Ti piace?»
Etienne manifestò la sua soddisfazione sbavando un po’.
«Sai», disse Electra «credo che tu gli stia simpatica. Solitamente dopo un po’ si stanca di stare in braccio a qualcuno che non sia io. Invece guardalo, sembra contento.»
Lei stessa sembrava soddisfatta, per qualche motivo. Guardò lei e Jean, lasciò che Nadia tenesse Etienne.
«Andiamo», disse «C’è una cosa che devo dare a Nadia.»
Li accompagnò lungo un corridoio, poi aprì una porta chiusa a chiave.
Jean capì subito dove si trovavano. Quel posto ricordava la cabina del capitano Nemo sul Nautilus. Non ci erano entrati quando erano stati a Tangeri la prima volta. Era pieno di libri, con un’enorme scrivania in legno scuro, numerosi strumenti e una teca piena di quelle che sembravano conchiglie. La stanza era stata pulita di recente, non c’era traccia di polvere o di segni di chiuso.
«Queste sono tutte cose di tuo padre», disse Electra rivolgendosi a Nadia «Ce n’è una che mi farebbe piacere avessi tu.»
Si chinò verso la scrivania, aprì uno dei cassetti e mise sulla scrivania quello che sembrava un foglietto di carta. Nadia le porse Etienne ed Electra se lo poggiò addosso, sussurrandogli qualcosa che Nadia non capì. Il bambino, dopo aver mugugnato per un istante, chiuse gli occhi e si addormentò.
Nadia prese il foglietto e capì che si trattava di una foto.
Una di quelle vecchia maniera, non un ologramma.
Riconobbe immediatamente i soggetti. C’era suo fratello Vinusis, un bambino di quattro o cinque anni coi capelli corti e sorridente, e poi c’era una donna china su di lui, che rideva altrettanto. Era Sana’a, sua madre.
«Non so perché Nemo non la portò con sé sul Nautilus», disse Electra «L’ho trovata in un cassetto. Tienila pure.»
«Sei sicura?»
«Certo. Sono tua madre e tuo fratello. È giusto che l’abbia tu.»
Nadia strinse la foto, se la mise sul cuore. Non aveva più l’ologramma ed era felicissima di poter avere almeno quel piccolo ricordo.
«Figurati. Ci sono tante cose sue qui. Se dovessi trovare altre fotografie te le darò volentieri.»
Era una stanza in cui trovavano posto tutto quello che non era indispensabile e tutto quello che aveva voluto conservare e proteggere. Il Nautilus era stato il luogo più sicuro del mondo, ma la vita negli abissi marini era quantomai fragile. Nemo, eccettuate poche cose, aveva lasciato quella stanza completamente arredata, come se avesse dovuto fare ritorno da un momento all’altro. Forse era il simbolo più evidente del fatto che lui non aveva mai abbandonato la speranza.
Al contempo, aveva dato a lei – a loro tutti – un luogo a cui fare ritorno.
Era strano per lei pensare che tutto quello le appartenesse.
Essendo stata formalmente adottata da Nemo come figlia, era anche l’erede di tutto quanto lui possedesse. Non aveva idea del quantitativo preciso del lascito, perché non aveva ancora avuto occasione di approfondire la questione. Era stata troppo presa da Etienne, che in quel momento sbatteva le palpebre con la testa reclinata sulla sua spalla.
Avrebbe aiutato Nadia e Jean, comunque. Almeno quello poteva farlo.
Etienne si risvegliò da un sonno di pochi minuti.
«È ora che gli dia la pappa» disse Electra «Jean, potrei chiederti di scendere di sotto a controllare dove sono gli altri?»
Jean annuì.
«Nadia, tu se vuoi puoi rimanere.»
Electra sedette sulla poltrona dietro la scrivania, allentò il colletto della djellaba e si attaccò Etienne al seno. Electra stette in silenzio per un po’, guardando Etienne che succhiava, senza fare caso a Nadia.
«Sai», disse poi «io non pensavo che sarei mai diventata madre. Non pensavo proprio che sarei sopravvissuta, a dire il vero.»
Non aggiunsero altro, né lei né Nadia, consapevoli entrambe del fatto che ogni parola sarebbe stata banale. Electra aveva una cicatrice poco sopra il seno, spiccava bianca contro la pelle scura. Se l’era fatta durante una delle battaglie del Nautilus, quando un Garfish aveva bombardato la plancia e il quadro comandi le era esploso davanti. Uno dei tanti momenti in cui aveva creduto di non farcela.
E invece se l’era cavata solo con una cicatrice.
Come per tante altre cose.
«Electra, ascolta… tu conoscevi mia madre?»
Quella domanda di Nadia, pur se posta all’improvviso, non la sorprese.
Era chiaro che vedendo lei ed Etienne le fosse venuta in mente Sana’a.
«Certo che la conoscevo. Tutti a Tartesso conoscevano la regina, e io ero grande abbastanza all’epoca da ricordarmela. Mi ricordo anche di te, quando ti mostrarono ai sudditi poco dopo la nascita. Stavi in braccio a lei. Portava un abito verde scuro, con decorazioni dorate e rosse. Era bellissima. E buona, anche. Me la ricordo come una donna sempre sorridente, molto gentile anche con noi persone del popolo, sempre disposta ad accogliere una richiesta e a mettere pace in caso di litigi.»
Nadia chiuse gli occhi.
«Decisamente non ho preso da lei, allora.»
Electra si lasciò sfuggire un sorriso.
«D’aspetto sei identica a lei, come tuo fratello Vinusis. Contrariamente a lui, però, tu hai preso il carattere di tuo padre.»
Cocciuta fino allo sfinimento, dotata di pochissima pazienza, pressoché incapace di esprimere i propri veri sentimenti ma al tempo stesso capace di amare come nessun’altra.
Era straordinario che avesse tanto in comune con lui pur non avendolo mai conosciuto.
L’espressione quand’erano pensierosi poi era la stessa.
Etienne, intanto, s’era riaddormentato.
Electra se lo posò in grembo, sistemò la djellaba e lo prese in braccio, alzandosi e cullandolo mentre camminava. Andò su e giù per la stanza, poi guardò con malinconia uno dei finestroni.
«Non sei obbligata a vedermi come una seconda madre, Nadia. Non lo sarò mai. Non so nemmeno se sarò una buona madre per Etienne. La verità è che sono piena di dubbi e paure e non ho un carattere facile, sarà fortunato se riuscirà a diventare adulto. Però farò del mio meglio. Non gli farò mancare l’amore di una famiglia, anche se non c’è suo padre.»
Osservò Etienne che dormiva e sorrise, sistemandogli l’orlo del caftano.
«Sai, penso spesso a quanto è strana la vita. Se non fosse accaduta la tragedia di Tartesso, io sarei vissuta come una normale popolana, a quel punto sì probabilmente avrei avuto una famiglia e dei figli, perché era il destino di una donna di basso ceto sociale. Non sarei mai uscita da Tartesso, non avrei avuto un’istruzione. Tu avresti avuto una famiglia, una madre, un padre, un fratello. Saresti cresciuta felicemente, amata, non saresti mai arrivata in Francia. Io non avrei mai conosciuto tuo padre. O meglio, avrei conosciuto il re e basta. Non avrei mai avuto l’occasione di amare l’uomo dietro al sovrano né la fortuna di essere ricambiata da lui come invece è successo. Ma ho questa convinzione, che se anche avessi vissuto una vita normale, anche se avessi sposato qualcun altro, non l’avrei mai amato con altrettanta intensità. Noi, alla fine, ci siamo amati in un modo che non saprei neanche descriverti. Sono stata fortunata, nonostante tutta la sofferenza.»
Già, perché lei dopo la tragedia di Tartesso era stata sola soltanto in quei primi interminabili nove giorni. Prima c’erano stati i suoi genitori, che le avevano fatto da scudo durante l’esplosione e l’avevano aiutata a sopravvivere. Dopo, c’era sempre stato lui. Per tredici anni erano stati insieme. Per tredici anni si erano voluti bene senza mai dirselo davvero. Anche dopo, quando erano venuti allo scoperto, e c’era voluta ancora la morte, avevano fatto in modo di non avere rimpianti. Non avevano pensato al tempo perso, non avevano avuto paura del futuro. Avevano scelto di godere di ogni briciola di quello che avevano in mano.
Ed era nato Etienne.
Etienne che era stato l’ancora a cui aggrapparsi, ciò che più di tutto le aveva impedito di restare sul Red Noah con Nemo. Se non fosse stata incinta, o se non l’avesse saputo, forse le cose per lei sarebbero andate diversamente. Forse non sarebbe riuscita a trovare un senso alla sua vita senza l’uomo che amava, e Nemo sarebbe morto maledicendo la sua debolezza.
Ma il destino, per fortuna, aveva deciso diversamente.
 
 
Sono sdraiati sul letto, ad ascoltare i propri respiri.
Lei ha la testa poggiata sul suo petto, gli occhi chiusi.
Lui le accarezza piano le spalle, con gentilezza.
Decolleranno verso lo spazio di lì a poche ore.
«Non c’è modo di convincerti a rimanere a terra, vero?»
Medina sorride.
«No.»
Vuole ricordare il calore di quel corpo, il battito del cuore.
Vuole conservarli in modo indelebile.
«Ascolta, Medina. Qualsiasi cosa succeda lassù, qualsiasi cosa accada quando ci troveremo quel bastardo davanti, tu pensa a vivere.»
Lei alza la testa e lo guarda negli occhi, a lungo.
Gli accarezza la fronte, i baffi, gli zigomi.
Lo bacia.
Vuole ricordare la bellezza di quel volto dai lineamenti fieri.
Non sa come farà senza di lui.
Elusys, a sua volta, le accarezza una guancia.
Deve aver letto qualcosa nel suo sguardo, forse l’incertezza o la preoccupazione.
«Tu non sei mai stata debole, Medina. Anzi. Sei sempre stata la più forte di tutti. Ricordalo. E ricorda che vi amo, te e nostro figlio. Vi ho amati entrambi dal primo istante, sempre.»
Da quel giorno lontano tredici anni, in cui una bambina gli aveva dato la mano.
Dal giorno in cui si era portata la mano al ventre e gli aveva sussurrato “sono incinta”.
Avanti, sempre.
 
 
«Elusys decise di sposarmi, anche se non si trattò di un matrimonio che aveva valore legale. Fu un momento che non dimenticherò mai. Mi portò nel vecchio tempio di Tartesso e mi chiese di sposarlo. Poi mi mise la fede al dito.»
Si commosse, ma cercò di ignorare le lacrime che le erano spuntate negli occhi.
«Non so perché te lo sto raccontando, Nadia. Forse perché sei sua figlia. Voglio che almeno tu sappia che è stato amato fino all’ultimo istante della sua vita.»
Nadia non disse nulla. Semplicemente fece quello che già aveva fatto in una tenda nella baia di Suruga. Si avvicinò, la abbracciò, con Etienne che mugolava nel sonno per quella vicinanza improvvisa.
Nemmeno lei sapeva perché all’improvviso si prendesse così tanta confidenza nei confronti di una persona che in passato era arrivata anche a detestare.
Forse perché provavano un dolore molto simile.
«Sai, Nadia, io non sarò mai tua madre, però… Etienne sarà la tua famiglia, se lo vorrai.»
Lei, cresciuta senza i genitori, non sarebbe più stata sola.
Etienne avrebbe avuto tutto l’amore di questo mondo.
«Promettimi che gli starai vicino.»
«Guh!»
Il bambino, come a voler dire la sua, aveva riaperto gli occhi e sorrideva.
Erano gli orecchini di Nadia, di sicuro.
Lei ricambiò il sorriso di quella boccuccia senza denti.
«Certo che ti starò vicino, Etienne.»
 
 
 
- continua -


 
 
N.d.A. Buonasera! Come potete vedere non sono morta. Mi scuso per il madornale ritardo ma ho deciso, per non perdere per così dire “il ritmo”, di far slittare la pubblicazione del capitolo in modo che torni a coincidere col lunedì/martedì.
Si tratta di un capitoletto di transizione, l’ultimo fra quelli riguardanti la nascita di Etienne, e spero vi sia piaciuto. Vengono ribaditi un po’ di concetti, ma ci tornerò fino allo sfinimento tanto ci sarà tempo e modo.
I due fratelli si conoscono e questo è l’importante.
E niente, Etienne già da neonato rideva un sacco (è un ragazzo allegro).
Ora si passa alla seconda parte, quella che riguarda l’infanzia di Etienne.
Qui ci saranno un bel po’ di salti temporali, perché la storia entrerà davvero nel vivo durante l’adolescenza del ragazzino.
L’infanzia, però, mi è necessaria per parlare un po’ del suo carattere e di alcune altre faccende di set-up tra cui la nascita di Philippe, il primogenito di Nadia e Jean.
Ci rivediamo col nuovo capitolo la prossima settimana.
(Questo a dire la verità non l’ho neanche riletto quindi ho paura del risultato.)
A presto!
 
Vitani
   
 
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