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Autore: Mara02    13/03/2019    0 recensioni
"Avere degli amici, dipendere da qualcuno, sono solo inutili e sofferenti illusioni. I legami, gli affetti, non sono altro che qualcosa di passeggero, vanno e vengono come petali in balia del vento".
Katarina Mitchell è una ragazza complicata, amante dell'arte, della musica e dei videogiochi. Passa tutto il suo tempo attaccata alla sua console o immersa nei libri di scuola. Ha passato tutta la sua gioventù viaggiando da una scuola e l'altra senza mai legarsi a nessuno, un muro attorno al cuore come suo unico compagno di vita. Tuttavia il suo piccolo mondo verrà sconvolto quando il padre le ordinerà di andare a vivere con la zia a Parigi, in Francia. Mentre il passato la tormenta e le antiche memorie cercano di assorbirla del tutto, conoscerà dei nuovi compagni scuola che cercheranno pian piano di far parte della sua vita. Riusciranno a combattere i fantasmi del suo passato?
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Armin, Castiel, Kentin, Lysandro, Nathaniel
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Verde.
Una grande distesa verde riempiva il mio spazio visivo. Rendeva tutto così allegro, così vivo.
Mi sedetti su quel praticello morbido, mi sentivo un po’ Heidi: piccola, ma forte, in un’immensa campagna solo per me. Correvo felice, libera da quella costrizione che era per me la vita adulta. Alzavo lo sguardo al cielo e mi beavo della sua immensità. Facevo giravolte, saltavo e rotolavo sulle colline.
Ma non ero sola.
Lo sapevo, e ogni volta mi voltavo indietro, fino ad incontrare la sua figura.
Era quella piccola chiometta corvina che saliva su da una collina in lontananza e correva ridendo verso di me. Era felice. Era felice di vedermi.
Mi alzai di scatto e iniziai a correre a perdifiato in quella prateria, innocente, con i capelli rossi brizzolati al vento, un piccolo fuocherello che incorniciava il mio visino da bambina.
Correvo, correvo e correvo. Volevo andare da lui, raggiungerlo, dirgli che mi mancava e mi mancherà sempre. Ma come ogni volta in quello stupido sogno, le mie gambe diventavano stanche, ma non m’importava: correvo dritto davanti a me, dove c’era lui che… si era fermato.
Il vento continuava a soffiare contro di me, rendendomi tutto più difficile. Ma io non mollavo, continuavo imperterrita. Avrei sempre continuato per lui. Ci avrei riprovato all’infinito.
Era vicinissimo. Nemmeno due metri ci separavano. Allungai una mano, chiamai il suo nome: “Alec!”.
Ma come ogni maledettissima volta, mi accorgevo troppo tardi che tra di noi, proprio nel punto in cui il mio migliore amico si era fermato, c’era una spaccatura nel terreno, e cadevo, nel buio infinito, piangendo e urlando il suo nome.
 
“Alec!” mi svegliai di soprassalto, il cuore in gola e il respiro affannato.
Feci appena in tempo ad asciugarmi le lacrime dal viso, che subito mia zia si precipitò in camera con aria preoccupata. Solo la luna le illuminava i contorni del viso, quindi non riuscivo bene a decifrare la sua espressione, ma ero abbastanza sicura che stesse facendo una faccia compassionevole.
Non la guardare, Katarina, mi ripetevo. Non la guardare.
Ma irrimediabilmente i miei occhi si concentrarono su quella fotografia sul comò. Mostrava due bambini di spalle sulla spiaggia che si tenevano per mano, ai polsi i braccialetti che si erano fatti l’uno per l’altra con le conchiglie quello stesso giorno.
“Ancora quegli incubi?” mi sussurrò piano, dolcemente, ma anche con una certa aria di segretezza, come se avesse potuto sentirlo qualcun altro  ­­-peccato che in quella casa ci fossimo solamente io e lei.
Si sedette sul materasso, lo sguardo pieno di quella cosa che io odiavo tanto: la compassione.
Ignorai nettamente la sua domanda e mi alzai, guardando il nero del cielo diventare un po’ più chiaro verso le alte palazzine in lontananza. Sospirai pesantemente. Sentivo lo sguardo di mia zia su di me, bruciava tra le mie scapole e mi faceva più nervosa di quello che ero in realtà. Sospirai nuovamente, cercando di scaricare la tensione che si raggomitolava tutta sotto il mio sterno, ma servì a ben poco.
“Per favore, non guardarmi in quel modo” sentenziai infine, insopportabilmente consapevole dei suoi occhi rosei su di me.
“Scusa” disse flebilmente lei, guardando la stanza che fino a poche ore fa era bianca e spoglia, ed ora era invece piena di video games e libri dappertutto.
“Hai fatto un buon lavoro” sorrise nella penombra della stanza, gentile, sicuramente riferendosi allo stravolgimento a cui avevo sottoposto quella camera: il letto (prima bianco, ora di un verde acqua acceso) lo avevo spostato a destra e al suo posto avevo messo il comò e il televisore, posizionandoli in modo tale da poter giocare alla Play Station 4 comodamente seduta sul materasso. Le ante dell’armadio, ora al fianco del comò, erano cosparse di post-it con su scritte le citazioni dei miei libri e film preferiti, mentre sulle pareti erano in bella mostra poster di video-games, anime e gruppi metal. Nessun cambiamento alla scrivania, ma sul davanzale al di sotto della finestra avevo deciso di sfoggiare tutti i pezzi forti della mia collezione: le mie action figures [N.A: per gli ignoranti che non sapessero cosa sono, sono dei modellini u.u] di Final Fantasy e Gintama, il mio anime preferito, più una serie infinita di libri fantasy.
Sorrisi. “Beh… non avevo niente da fare” mi giustificai, in imbarazzo.
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Quando zia Agatha decise finalmente di uscire dalla mia camera, erano le tre del mattino. Era ancora buio pesto ma, non avendo la minima voglia di chiudere occhio, decisi di iniziare a prepararmi per il mio primo giorno di scuola a Parigi. Era la parte dei miei “soggiorni” che mi piaceva di meno, perché i primi giorni sono quelli che di solito tendono a metterti ansia, e in più la gente è curiosa perché non ti conosce e vorrebbe fare amicizia, quindi, ogni maledettissima volta, devo mostrare loro che non sono interessata per niente alle loro faccende adolescenziali, né ai loro discorsi insensati sui ragazzi e sulle ragazze carine dell’istituto.  A proposito, com’è che si chiamava il mio? Ah, sì Dolce Amoris. È lì che avrei dovuto studiare per sei mesi.
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Uscii di casa con una mezzoretta buona di anticipo.
L’aria fresca m’investì il viso, sorprendendomi impreparata a quel clima un po’ più freddo rispetto a quello di Murcia. La prossima volta dovrò mettere una giacca, mi raccomandai. Non indossavo un out-fit vistoso: felpa nera con un piccolo pac-man giallo raffigurato sulla strinistra, jeans, e un paio di converse del medesimo colore della felpa. Facevo di tutto pur di non farmi notare dagli altri. A volte, avrei preferito essere invisibile, piuttosto che andare in giro con questi ridicoli capelli rossi e questi banalissimi occhi castani. Ma, purtroppo, mio padre non mi permetteva di tingere i capelli, “Cose ridicole da fare alla tua età” precisava sempre. Ed il risultato era sempre il contrario di quello sperato da me: o la gente mi prendeva in giro per i miei capelli, oppure mi notava e voleva fare amicizia proprio per il medesimo motivo.
Mi distolse dai miei pensieri il secco rumore del mio cellulare: un sms.
Da: Zia Agatha
Ehi ciao tesorooo! <3 Volevo dirti che oggi dovrai tornare a casa da sola, mi dispiace, ma stasera vengono ospiti a casa e devo preparare la cena! In bocca a lupo per oggi e sta’ attenta per strada ;)
Fissai inorridita quel cuoricino per qualche secondo, poi, rimisi il cellulare in tasca e continuai a camminare, non mi degnandomi nemmeno di rispondere.
Sicuramente con “ospiti” intendeva sue amiche amanti della moda come lei, ed io avrei dovuto passare obbligatoriamente la serata con delle over 30 pazze per le nuove scarpe nel negozio più in della città. Naturalmente, avrei potuto benissimo starmene bella tranquilla nella mia stanza a leggere gli ultimi due capitoli di Shadowhunters: Città di Ossa, ma ovviamente no. Conoscevo bene mia zia e, a volte, era così esuberante da diventare fastidiosamente appiccicosa.
Per non parlare del fatto che quella mattina le avesse telefonato Eck dicendole che doveva tenermi d’occhio perché tendevo a “combinare guai”. Sapevo perché Eck le aveva detto questo, e sicuramente non perché ho la tendenza a cercarmi rogne, cosa che potrebbe anche essere vera, (ma io sostegno che siano le rogne a cercare me, e non il contrario!), ma perché conosce l’indole iperattiva di mia zia e avrebbe voluto che mi coinvolgesse di più nella sua vita. Tenendomi d’occhio era sicuramente un buon metodo per farlo.
E bravo il mio Sherlock, mi complimentai con lui mentalmente.
Rimisi gli occhi sulla strada, ma… qualcosa non tornava. Non riuscivo a riconoscere quel luogo. Anche se era da pochi secondi che camminavo senza fare molta attenzione al percorso che stavo intraprendendo, non era possibile che mi fossi già persa.
Non era possibile che in nemmeno 20 secondi di cammino mi fossi già persa!
Mi guardai nuovamente attorno, in modo quasi spasmodico, cercando un punto di riferimento che mi potesse ricondurre alla mia meta, ossia la mia nuova scuola, ma niente, non riuscivo ad identificare nulla.
Complimenti, Kat! Sei un caso disperato!
Lanciai piano un’imprecazione: non era la prima volta che mi perdevo in una città nuova, ma stavolta non c’era il mio tutore a mia disposizione 24 ore su 24 che potesse venirmi a prendere, quindi dovevo cavarmela da sola. Cosa estremamente difficile, contando che ricordavo a malapena la strada per tornare a casa della zia e che quest’ultima al momento era occupata a lavoro.
Merda! E ora che faccio?
Mi guardavo attorno, impalata come una statua, cercando di spremere le meningi più che potevo per cercare di metabolizzare qualcosa, quando…
“Ehi, ciao, sei nuova da queste parti?”
Mi girai verso la fonte di quella voce melliflua, preparando già un tono acido e una risposta poco educata, ma…
Un fascio di azzurro candido si mi parò davanti quando incontrai lo sguardo del mio interlocutore.
“Alec?” sussurrai, immobile, gelata sul posto dal terrore.
“Come, scusa?” il ragazzo, più alto di me di un palmo, mi sorrise, come se avesse rivissuto quella scena migliaia di volte. “No, Alexy è mio fratello” mi disse con tono allegro.
“Ehm… no, io…” balbettai, in preda al panico: bianca come un cencio, il cuore che mi batteva a mille.
“Va tutto bene?” mi fece con tono gentile, mentre gli angoli delle sue candide labbra s’incurvavano in un’espressione preoccupata.
“No, no… cioè sì! Sì, va tutto bene!” scattai sul posto, rossa in viso per quella magra figura.
Lui rise, di una risata quasi angelica, più che di scherno, che mi piacque molto. Attenzione, precisiamo una cosa: non è che mi piacesse il modo in cui rideva, ma piuttosto la tonalità allegra di quella risata, come se non gli importasse davvero il motivo per cui ridesse, ma la risata in sé. Una filosofia della vita del tutto inusuale, che non avevo mai visto adottare a nessun altro.
Rimasi lì, ferma sul posto, ancora in imbarazzo.
 “Beh, comunque, io sono Armin, piacere” si presentò lui con un grande sorriso.
Era un ragazzo carino: carnagione lattea, labbra carnose, una bizzarra pettinatura di un nero pece e due magnifici occhi blu cielo. Era maledettamente simile a lui.
Quale scherzo del destino era mai questo?
“Ti sei persa?” mi fece, in imbarazzo dal mio silenzio che stava iniziando, a quanto pare, a pesargli.
“Ehm… già” risposi, evidentemente a disagio.
Ridacchiò, una mano dietro il collo; come facevano i ragazzi carini negli anime shojo. A dir la verità, iniziava ad innervosirmi quel sorrisetto perenne sulle sue labbra, ma non gli dissi nulla, solamente perché quel ragazzo era la mia unica ancora di salvezza per arrivare a scuola.
Ma hai appena detto che ti piaceva la sua ristata!
Ma guarda un po’, erano almeno due paragrafi che non ti facevi sentire, coscienza, iniziavo a preoccuparmi!
 “Beh… dove stavi andando? Magari posso indicarti la strada”
“A-al liceo Dolce Amoris, sai come posso arrivarci?” risposi, speranzosa.
“Ah, beh, certo! È il liceo che frequento io! Vieni, allora, facciamo la strada insieme!” spiegò tutto contento.
Ah bene, ma guarda un po’ che fortuna: mister sorriso va nella tua stessa scuola!
Cercai di non sbuffare sonoramente, così mi concentrai sul tragitto.
Iniziammo a camminare verso sinistra.
E tu che eri quasi sicura di andare a destra.
Cercai di zittire la mia coscienza in fretta, prima che iniziassi a fare brutte figure.
“Ehm… allora…” era palesemente a disagio. Probabilmente non intraprendeva conversazioni con le ragazze così facilmente, cosa che si poteva intuire dal semplice fatto che non mi guardava nel gli occhi neanche un momento.
Poverino, ma guardalo! Ma sciogliti una volta, è così carino da accompagnarti a scuola e tu fai l’apatica, come sempre!
Odio la mia coscienza.
“Sei del primo anno? Non ti ho mai vista qui in giro” era una domanda abbastanza innocente, glielo leggevo nello sguardo. Era una cosa che ero abbastanza brava a fare: leggere l’intenzione della gente solo guardando dentro i loro occhi. La parte più divertente, però, veniva quando ci riuscivo e mi sentivo un po’ un’eroina degli anime, con un qualche tipo di raro superpotere.
Ma poi mi girai subito dall’altra parte. I suoi occhi erano così azzurri… che mi facevano male all’anima.
Mi precipitai comunque a dargli una risposta: “Ehm, no… mi sono trasferita ieri qui a Parigi…” risposi con un filo di voce.
“Ah, davvero? Sei straniera, allora! Dove vivevi prima?”
Non risposi. Non mi andava per niente di parlare dei miei tanti viaggi fuori casa, o della mia patria. L’America. Dove io ero nata e cresciuta e dove avrei voluto vivere per sempre tutta la vita. Ma in quel momento era l’ultimo luogo che avrei voluto ricordare. L’ultimo luogo sulla Terra in cui avrei voluto ritornare.
Lui stava per dire qualcosa, quando una campanella risuonò squillante, destandomi ancora una volta dal mio mondo interiore.
“Oh… beh… eccoci arrivati!” esclamò allora con tanto di sorriso a trentadue denti.
Ho già detto che quel sorriso è irritante?
Davanti ai miei occhi si ergeva un enorme istituto dai colori freddi: le pareti andavano sul violaceo, mentre il tetto era di un colore tra l’indaco e il violetto, un colore delicato e che non mi dispiaceva. Era diviso in due istituti differenti: il primo, con tanto di scale di marmo all’ingresso, era quello principale, dove i ragazzi facevano regolarmente lezione, e il secondo, stando alle descrizioni sul sito ufficiale della scuola, era la palestra.
“Oh, cavolo!”
Ritornai al presente solo dopo l’imprecazione del ragazzo accanto a me, Armin, che cercava nervosamente nelle tasche dei pantaloni qualcosa che sembrava importante.
Era pallido in viso, e pensavo stesse succedendo qualcosa di drammatico, vista la sua faccia diafana e la sua espressione. Così chiesi un “che succede?” in tono anche abbastanza allarmato.
“Ho dimenticato il carica batterie della console a casa!” nei suoi occhi leggevo disperazione pura.
Console? Quindi lui era un geek?! O peggio ancora, un nerd?!
Dovevo assolutamente allontanarmi da lui, anche prima che avesse potuto pronunciare anche solo il minimo accenno di frase, o c’era una buona probabilità che avrebbe scoperto che anch’io ero una geek e, di conseguenza, lo avrei illuso, cedendogli una piccola luce di speranza che saremmo potuti diventare amici.
Lo so, sembrerò quasi paranoica, ma non ci tenevo ad illudere la gente. Sono stata illusa molte volte dalla vita, io, e non augurerei a nessuno di rivivere le mie stesse esperienze. Soprattutto lui, un ragazzo così allegro e gentile, non meritava assolutamente una compagnia come la mia. È per questo che lo feci. È per questo che gli dissi: “Ah, povero nerd sfigato!” con tanto di risatina da snob annessa. Odiavo le snob, quindi, in quel momento, stavo odiando me stessa.
Che novità!
Lo vidi guardarmi stupito, le sue pupille dilatate e la bocca schiusa, come se mi guardasse per la prima volta solamente ora.
Bravo, guardami ora, ma non farlo mai più.
Avrei voluto che sentisse quelle parole, anzi, avrei voluto non averlo mai fatto. Mi faceva troppo male, era quasi come se Alec fosse tornato per me ed io lo avessi respinto in quel modo subdolo. Beh… ero ancora in tempo…forse, chissà, magari saremmo davvero potuti diventare amici…
No, Kat, no!
Non doveva accadere.
Mi girai di scatto, prima che potesse vedere i miei occhi lucidi, e camminai dritto davanti a me, come se avessi un obbiettivo ben preciso. In verità, non sapevo nemmeno io dove stavo andando, ma qualsiasi luogo andava bene per me, purché fosse stato lontano da quei due frammenti di cielo.
Fu così che iniziò il mio primo giorno di scuola.
   
 
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