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Autore: AstreaA    25/03/2019    1 recensioni
"«Tutto risolto allora? ».
Goku attirò la sua attenzione. La fissava intensamente, quasi la vedesse per la prima volta. La donna indietreggiò imbarazzata, allontanandosi appena e voltandogli le spalle, quasi a disagio all’idea di ricambiare quello sguardo.
«Certo che no! », ringhiò brusca, stringendo i pugni e scuotendo il capo. «A volte ti comporti come uno… », non terminò la frase. […] Prese un respiro, scostandosi i capelli dal viso con nervosismo.
Avvertì una mano posarsi sulla spalla.
«Mi farò perdonare! Senti dal momento che Gohan e Goten sono a scuola, potrei rimandare di qualche ora i miei allenamenti e fare quella cosa… ».
Le si parò davanti, con un’espressione insolita per lui. Una nuvola di malizia ed eccitazione velavano l’ingenuità pura del suo sguardo e dei suoi pensieri."
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Chichi, Gohan, Goku, Goten | Coppie: Chichi/Goku
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Lento, il sole sfumò all’orizzonte. Tonalità viola, rosa e indaco dipingevano in tenue tinte il cielo. Presto sarebbe calata la notte e l’oscurità avrebbe inevitabilmente inghiottito ogni cosa: i profili dei palazzi e grattacieli, degli alberi e degli animali: tutto sarebbero divenuto indistinguibile.
Ad Apple City, nel distretto dell’Est, il Natale giungeva con largo anticipo. Fin dal tardo ottobre era quasi impossibile non notare le vetrine che ravvivavano a festa ogni angolo della città. La gente sembrava aver quasi disperatamente bisogno del Natale, pensò Chichi, avvolta in un lungo e largo cappotto ocra, i capelli scuri rigidamente raccolti in uno chignon e l’espressione severa sul volto pallido. Che fosse per riallacciare vecchi rapporti, redimersi dai propri sbagli o sentirsi meno soli almeno una volta l’anno, il Natale sembrava la giusta ipocrita occasione o la scusa perfetta, per una svolta. Attese a lungo che luce del semaforo diventasse verde, quando ciò finalmente accadde, aumentò nervosamente i passi. Si scoprì insofferente dinanzi quell’atmosfera rossa e ovattata costruita attorno a quella festività: tutti pronti a proclamarsi più felici, più buoni e le famiglie riunite. Sentì d’invidiare terribilmente quell’ultimo aspetto. Un dolore sordo le punse il cuore nell’incrociare le coppie innamorate lungo il corso principale. Era un po’ come rivedere sé stessa, pensò: o meglio, immaginare di rivedere sé stessa; Goku non l’aveva mai stretta a sé con tanta dolcezza, non le aveva mai sussurrato parole d’amore, non avevano mai passeggiato assieme lungo le strade di una qualunque cittadina, abbracciati, innamorati. Una profonda tristezza le strinse il petto.
Attraversò l’incrocio spiando insistentemente il vecchio orologio da polso.
Lo amava e ne era consapevole, malgrado provasse sempre più spesso sentimenti di rancore verso di lui: per quell’indole solare eppure profondamente egoista e quell’irritabile mania d’onnipotenza, aggravatasi ulteriormente dalla sconfitta di Majin Bu. Con non poca fatica, aveva dovuto imparare ad adattarsi a quelle origini guerriere e aliene; ad amare un uomo in parte diverso da quello che aveva sposato.
Come un fuoco che ardeva in lui, quel desiderio perenne di superare se stesso e ogni limite imposto, avevano inevitabilmente mutato quella spontaneità e quell’innocenza che l’avevano fatta innamorare di lui. Ingenuamente, perché il tempo aveva inevitabilmente sgretolato ogni antica certezza e convinzione.
Seriamente, come accidenti aveva potuto innamorarsi di un ragazzino che aveva visto solo una volta? Una misera, dannatissima volta? Davvero non riusciva a spiegarselo. Una fissazione banale e infantile che l’aveva accompagnata per tutta la sua solitaria adolescenza, ma soprattutto - provando una profonda vergogna verso se stessa, con quale coraggio ed egoismo aveva preteso che lui la sposasse? Perché suo padre l’aveva assecondata? Perché non l’aveva semplicemente schiaffeggiata o fatta ragionare sull’assurdità di voler convolare a nozze con un perfetto sconosciuto che si era completamente dimenticato di lei e della promessa?
Sarebbe stato tutto inutile, come urlare contro un muro. Non lo avrei ascoltato, no, non lo avrei fatto. Troppo orgogliosa, troppo stupida, ingenua, capricciosa, innamorata forse dell’idea stessa dell’amore; perché accidenti, come potevo davvero amare un ragazzo di cui non sapevo nulla? Però poi è accaduto. L’ho raggiunto, sfidato e me ne sono innamorata.
Non sempre chi amava era amato a sua volta, realizzò. Era quella dunque, la giusta punizione alla sua arroganza da ragazzina? Al velo che per anni aveva calato davanti agli occhi rifiutandosi di vedere e credere a quella miserabile verità, a quella vocina maligna e interiore e alle risate di scherno di amici e conoscenti.
Possibile che io sia stata così cieca?
Perché continua a star con me? Abitudine? Pena? Timore?
Perché continuo a stare con lui nonostante tutto?
 
In quel pensieri, smarriva se stessa, ogni volta. Talvolta stentava a riconoscersi, non solo nell’aspetto - sempre più trascurato e rigido; di quell’ostinata e vivace diciannovenne innamorata dell’avventura e della vita non restava che un pallido ricordo, a volte talmente sfumato e impreciso da darle l’impressione di appartenere ad un'altra vita.
Chi era davvero Chichi? Quali erano i suoi timori, segreti, le sue ambizioni e progetti per il futuro? Le sue passioni? I suoi sogni? Una mamma severa e opprimente, una moglie insopportabilmente dispotica. Nient’altro. Immobile e immutata in un ruolo che sembrava aver reciso la sua individualità di essere umano. Le stava stretto ormai, come un abito.
Fermandosi su un marciapiede in prossimità del centro cittadino, volse ansiosamente lo sguardo verso un elegante palazzo posto dall’parte della strada. Controllò nuovamente l’ora: fu con sollievo che scoprì di essere in anticipo. Svariati simboli natalizi –vischio, abete, renne, slitte- abbracciavano di luce le strade principali, assieme ad alcune bancarelle tradizionali. Infreddolita, si strinse maggiormente nel suo cappotto, trattenendo a sé una valigetta di cuoio nera e un sacchetto di plastica verde. Aveva piovuto molte ore quel giorno, l’inconfondibile odore di asfalto bagnato giunse alle sue narici, dandole un lieve senso di stordimento. Trattenne il respiro voltandosi, osservando un albero spoglio alle sue spalle, le cui foglie fragili e sbiadite, ricadevano al suolo prive di vita, calpestate dal passaggio delle persone; si sentì un po’ come loro in quel momento.
Quando giunse al lato opposto della strada, si arrestò dinanzi l’elegante sede della Karabraxos Hight School, un istituto privato tra i più prestigiosi al mondo a livello d’istruzione. L’ansia le strinse violentemente il cuore, quando accennando un debole sorriso, valicò l’ingresso.
Quadri celebri, statue risalenti al periodo Sengoku, fedeli riproduzioni del corpo umano e del sistema solare, scaffalature ricolme di libri di ogni genere e attrezzature d’elevata tecnologia erano poste ai lati delle pareti dell’ampio ingresso, dipinte ognuna in modo diverso e singolare. Sebbene la Karabraxos fosse situata su un edificio a sette piani, il soffitto del pianterreno appariva come un cielo stellato, da cui era possibile distinguere ogni singola stella e la costellazione di Orione, con la sua tipica forma di clessidra. Rimase alcuni istanti – forse minuti, a fissare il frutto di un simile smisurato ingegno, fin quando una voce gentile alle sue spalle, non la riscosse. Un uomo con un completo in tweed e un cravattino, dallo sguardo chiaro, la mascella squadrata e i dai capelli castani lievemente striati di grigio, le sorrise cordiale, avvicinandosi e porgendole la mano.
« Sono il signor Darcy, Il Direttore. Lei deve essere…»
«Chichi » lo anticipò lei, ricambiando il sorriso e la stretta con una lieve apprensione. Per quell’occasione, aveva abbandonato gli abiti tradizionali, indossando un mediocre tailleur nero abbinato ad un pantalone e una semplice camicia bianca con volant. Nulla di elaborato o costoso, essendo tra l’altro in una complicata situazione economica. Tuttavia, sperava di fare una buona impressione. Per la situazione aveva anche costretto i suoi piedi in delle scomodissime scarpe decolté e aveva truccato le sue labbra di un rosso fuoco. Lui sorrise ancora.
«Ho letto sul suo curriculum che è stata un’allieva del Professor Jinzaburo Kafu, co-fondatore della Karabrxos. Andiamo nel mio ufficio, mi segua… ».
Solo in quel momento, guardandosi attorno, Chichi si rese conto di quanto fosse affollato quel luogo. Docenti e studenti di ogni età, quest’ultimi impeccabili nelle loro divise d’oro e scarlatte, sedevano attorno ad ampie tavole circolari di legno, davanti a loro tomi imponenti e computer sottili proiettavano a mezz’aria ologrammi di organi umani e alcuni pianeti del Sistema Solare. I pavimenti erano in 3D e davano l’illusione di camminare sulla superfice dell’Oceano e le lussuose scale in legno, da fisse diventavano mobili. Mentre saliva, ebbe anche l’impressione che alcuni dipinti alle pareti si muovessero.
Quell’istituto sembrava quasi Hogwarts, si ritrovò a pensare distrattamente. Lui sembrò leggerla nel pensiero.
« Nulla di anomalo. I dipinti funzionano un po’ come schermi televisivi, volendo semplificare il tutto» si voltò, strizzandole l’occhio. « E comunque, chiamami pure Syrio. Mia madre era un’astronoma ed eccomi con questo nome…»
Entrarono in un ufficio al secondo piano, le cui pareti erano tinte di un acceso blu pastello. Una giovane donna dai lunghi capelli biondi, grandi occhi viola cerchiati da un’eccentrica montatura di lenti, li accolse con un inchino, porgendo alcuni documenti all’uomo. Un divano con penisola chiaro, due poltrone in pelle e una scrivania in frassino, arredavano l’ambiente. Appeso su una parete al centro della stanza, una celebre riproduzione della “Notte stellata” di Vincent van Gogh.
«Lei è la signorina Aimi Arata, la segretaria».
Presentò indicandola. Chichi ricambiò l’inchino in direzione della donna. Syrio le fece gentilmente cenno di sedersi su una poltrona. Con un lieve rossore in viso, torcendo tra le mani la valigetta nera e il sacchetto di plastica, attese le domande che sapeva, le sarebbero state poste come da routine. (Mi parli di lei, perché vorrebbe lavorare con noi? Reputa di essere adatta a questo ruolo? Reputa di essere capace di gestire lo stress? Come si vede tra dieci anni?). Era l’undicesimo colloquio di lavoro che sosteneva in tre mesi e nessuno della sua famiglia ne era al corrente. Non sapeva il preciso motivo per cui non avesse accennato nulla neanche a suo padre o a Gohan: certo avevano bisogno di denaro essendo in difficoltà economiche. Goku non volava saperne di trovarsi seriamente un lavoro e lei d’altra parte, da un periodo a questa parte, avvertiva sempre di più una fame d’indipendenza, una di voglia di realizzarsi come donna.

Quando lasciò la Karabraxos, mezz’ora dopo, temette nell’ennesimo fallimento della sua vita.   


 
**

Da lontano, ancora a bordo della sua air-car bianca, intravide una sottilissima linea di fumo fuoriuscire dal comignolo della rotondeggiante abitazione, accanto al fiume. Una fitta pioggia accompagnò quel rientro. Il vento soffiava gelido tra i sentieri alberati del Monte Paoz e una spessa coltre di neve ricopriva ogni dettaglio, come se un’enorme coperta bianca fosse stata gettata su quella piccola parte di mondo. Un piacevole tepore l’avvolse non appena varcò la soglia di casa. Ancora prima di liberarsi dal cappotto e dagli abiti umidi di pioggia, nascose di tutta fretta la valigetta in un armadio all’ingresso, riponendo ansiosamente il contenuto del sacchetto in una delle tasche del tailleur.
«Ciao mamma, bentornata! Papà e il fratellone non sono ancora tornati».
Trasalì bruscamente nell’avvertire una voce allegra alle sue spalle. Si voltò velocemente verso di lui.
Fa che non mi abbia vista, ti prego.
Per un istante, temette che il cuore le scoppiasse nel petto. In piedi, di fronte a lei, vestito con la sua tuta arancione, Goten sorrideva felice, stringendo tra le piccole mani un peluche malandato. Il bambino corse ad abbracciarla. Liberandosi del capotto bagnato, Chichi lo strinse a sé, baciandogli la fronte e scompigliandogli affettuosamente i capelli.

«Sei andata ancora a trovare il nonno? Sta bene? » chiese Goten con sincera apprensione, seguendola in cucina, salterellando.
«Sì, pare abbia solo una brutta influenza, ma si rimetterà. Ti manda i suoi saluti » rispose evitando il suo sguardo con una sensazione di crescente disagio e una lieve nausea.
Non che dovesse dare continue spiegazioni sul motivo delle sue assenze da casa, Goku e Gohan si allontanavano spesso, il primo per allenarsi da Re Kaioh del Nord, o su qualche sperduto pianeta o deserto, il secondo per studiare, eppure, Chichi scoprì di non poter far a meno di mentire. Mentiva per proteggersi si diceva, per continuare a vivere nonostante tutto: dubbi, paure, rimpianti, solitudine e abbandono.


Una delizioso aroma di pasticcio di daino, stufato di manzo, patate al forno e di torta alla melassa accompagnarono i preparativi della cena, disperdendosi come nubi di fumo tra le mura domestiche. La pioggia calava incessante e assoluta sulla vegetazione della foresta. Riscontrò non poca difficoltà a richiudere le asole del kimono che era solita indossare. Imprecò sotto voce più volte, gettandolo infine spazientita, ai piedi dell’armadio. Smarrita, volse lo sguardo verso la cassettiera dorata alle sue spalle: riposto in uno dei tanti cassi vi era il contenuto del sacchetto. Per un attimo ebbe quasi la tentazione di aprirlo e rigirarne il sottile contenuto tra le mani. A quel pensiero, una nota di panico le vibrò nel cuore. Scosse il capo. Irritata, liberò i capelli dalla rigida morsa dello chignon, sedendosi sul letto, preda di un lancinante dolore alla schiena e ai piedi gonfi. Dannati tacchi! D’un tratto, una profonda nausea la costrinse a correre nel bagno accanto. Temette di vomitare anche l’anima. Quando il supplizio ebbe finalmente fine, la porta venne aperta d’improvviso. Sussultò, ancora rannicchiata in un freddo angolo del pavimento, con addosso solo la biancheria intima e lunghi i capelli neri a coprirle il viso.

«Ah, eccoti Chichi! Quando si mangia? Sto morendo di fame! » uno stupidissimo, fastidioso sorriso nacque sul suo volto allegro. Posò una mano sulla porta, fermandosi sull’uscio, osservandola con un’espressione lievemente perplessa. La solita tuta arancione a risaltarne la muscolatura eccessiva. «Cosa fai lì a terra? » chiese, grattandosi la tempia, per nulla turbato nel vederla raggomitolata sul pavimento, né tantomeno interessato dal fatto che al momento, indossasse solo la biancheria intima.
«Goku… » un basso, profondo ringhio vibrò nel cuore della donna, intenta a rialzarsi tenendosi alla parete. Un rossore e un profondo imbarazzo le accesero il viso e il collo.
«Qualcosa non va? » chiese lui ingenuamente, il sorriso ancora sul volto.
«Non vedi che sono mezza nuda!! » urlò a denti stretti, stringendo i pugni e avanzando minacciosamente verso di lui che indietreggiò lievemente.
«Ah! » lui sembrò notarlo solo in quel momento. Si limitò ad osservala appena. «Non fa niente» ridacchiò per nulla colpito dalla situazione, scuotendo le mani. «Posso assaggiare le patate? » azzardò massaggiandosi lo stomaco.
«Goku… » un secondo basso ringhio fuoriuscì dalle sue labbra. Avvertì una vena pulsare febbrilmente sulla tempia.
«Almeno cinque? Facciamo sei? » quasi la pregò, affamato.
Un bambino troppo cresciuto. Uno stupido scimmione, pensò.
Alla fine, Chichi perse ogni briciolo di pazienza e buonsenso.   
«GOKU ESCI IMMEDIATAMENTE DI QUI! » sbraitò fuori di sé, sbattendogli la porta in faccia.


 
**

La neve sostituì la pioggia. Come un lamento, il respiro inquieto del vento risuonava tra le bianche alture di montagna. I rami degli alberi che cingevano la casa, si abbattevano con forza contro la veranda, producendo un rumore sinistro. Qualcuno sembrava bussare ansiosamente, come in una disperata richiesta di soccorso.
Goku, Gohan e Goten, sedettero a tavola, assaporando con rumoroso entusiasmo la cena. Anche Chichi, seduta accanto a loro, scoprì di avere un insolito appetito.
Erano settimane che una persistente nausea e diverse dolorose fitte di breve durata, gravavano dal suo stomaco al ventre, costringendola a giorni di profonda inappetenza. Poi c’era anche l’emicrania, ormai sua fedele compagna e i continui sbalzi d’umore.
Quando ormai anche l’ultimo piatto splendeva impeccabile nella credenza, si lasciò cullare da una piacevole lettura, affondando tra i soffici cuscini rossi del divano angolare, avvolta da una larga camicia da notte viola e una vestaglia in vello rosa. Dopo quella che sembrò un’ora, il pendolo affisso alla parete scoccò le undici. Sospirò stancamente, volgendo uno sguardo accigliato in direzione della stanza accanto, dalla quale giungevano ancore le risate del resto della famiglia. Accidenti a Goku, non lo sa che domani Gohan e Goten hanno lezione a scuola? Hanno bisogno di riposare! Ora mi alzo e gliene dico quattro!
Scosse il capo e prese un respiro, imponendosi la calma. Socchiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie, preda di una spiacevole sensazione d’imbarazzo per la precedente sfuriata. Continuò a leggere per qualche altro minuto. Stizzita, richiuse bruscamente il libro poco dopo, quando si rese conto di aver letto la stessa frase senza averne capito affatto il senso. Si alzò pronta ad andare a letto. Una rivista, apparentemente riposta dietro un cuscino cadde sul pavimento, catturando la sua attenzione. La raccolse, sfogliando le prime pagine.
Le cadde la mascella. Un acceso rossore tinse d’improvviso il suo viso: gli occhi sgranati dallo sconcerto, le labbra pericolosamente contratte dallo sdegno.
Non è possibile. Non è assolutamente possibile. Il mio bambino, il mio adoratissimo, intelligentissimo bambino è… è… un MAIALE! Un maniaco! Uno sporcaccione! Un pervertito!

«Si può sapere COSA ci fa una rivista del genere qui?! » gridò, sfondando la porta della camera con un violentissimo calcio, spegnendo ogni risata dei presenti.
«Di chi è questa roba? GOHAN NE SAI QUALCOSA? » tremante d’ira, puntò la rivista contro il suo primogenito come fosse un’arma da fuoco pronta a sparare. Il ragazzo indietreggiò senza parole, sconcertato, mentre Goku cadde dal letto sul quale era seduto. Il piccolo Goten guardò la scena senza capire.
«Roba da pervertiti, ecco cos’è! Non pensi a tuo fratello, è solo un bambino! Cosa potrebbe pensare se la vedesse? » ringhiò, gli occhi fuori dalla orbite, il viso arrossato e minaccioso. Continuò a sfogliarla in preda all’ira e allo sdegno. « E’ oscena! » Sbraitò scandalizzata. «… è piena di donne e uomini completamente nudi che fanno orge e… ogni genere di cose! Mamma mia non posso guardare!» Gemette imbarazzata, gettandola a terra, quasi fosse rovente.
«Fratellone, cosa sono le orge? » scattò Goten, lo sguardo accesso d’ingenua curiosità, tenuto fermo dalla presa di Goku su una sua spalla.
«Non ora fratellino… » gemette Gohan, guardandosi attorno totalmente imbarazzato e spaesato, soppesando seriamente di fuggire dalla finestra, mentre sua madre avanzava minacciosamente verso di lui. «Mamma io non ne so niente, te lo giuro! Non ho mai guardato questo genere di cose… » la pregò, tremando e sudando, le spalle contro il muro. In trappola.

«Ah, questa?! E’ per me! ».

Chichi si voltò di scatto, ansante e tremante di rabbia.
Gohan trattenne il respiro.
Con un lieve sorriso imbarazzato, grattandosi il capo, Goku strinse la rivista sconcia tra le mani.
« Uno scherzetto del Genio, me l’ha data l’ultima volta che ci siamo incontrati: “in memoria dei vecchi tempi” ha detto e mi ha anche dato degli strani palloncini trasparenti, hanno la forma di una salsiccia e l’odore di banana, mi ha anche detto di usarli quando mi allontanavo di casa… » come se niente fosse, estrasse dalla tasca dei pantaloni della tuta una scatola di preservativi XXL gusto banana, sventolandoli tranquillamente davanti gli occhi sconcertati di sua moglie e del primogenito che caddero all’indietro.

« Uh, che bello adoro i palloncini, dopo ci giochiamo papà?! Possiamo fingere che siano spade o riempirle d’acqua e lanciarle contro gli alberi!».

«Goten fa silenzio! ».

La durezza della voce di Chichi spense ogni entusiasmo del bambino. Per un attimo, la donna rimase senza parole, senza respiro, senza battito. Stanca, vuota, uno spettro di sé stessa, con i lunghi capelli neri appicciati al volto pallido: solo un profondo senso di frustrazione e umiliazione ad invaderla come una malattia.
Tremò. Trattenne un singulto. Poi, le prime lacrime caddero dai suoi occhi.

«Mamma?».

«Fratellone, perché la mamma sta piangendo? non capisco! ».

«Chichi?! Cosa…?».

Un’espressione ingenuamente sconcertata nello sguardo di suo marito.

Questo da lui non me lo sarei mai aspettato! Fa tanto l’innocentino e poi… quante altre umiliazioni devo ancora sopportare? Mi ha lasciata sola tante di quelle volte, non ha la minima considerazione di me, ha avuto anche il coraggio di dire che considera Bulma più carina di me, e ora scopro che guarda riviste sconce e va in giro con una scatola di preservativi in tasca. Questo è troppo. Davvero. Io non c’è la faccio più…

La mano sembrò agire da sola, come guidata da una forza estranea.
Inaspettatamente, con rabbia e dolore, lo colpì con un sonoro schiaffo.

«Sai cosa ti dico? Va’ pure ad intrattenerti con tutte le donne carine che incontri, fa pure le stesse identiche cose che fanno in quella dannatissima rivista! Non mi interessa, non m’importa più niente di te, non faccio che chiedermi perché accidenti ti ho sposato, sono stanca di tutto quanto, di te, del tuo sorriso da imbecille, della tua stupidissima mania di morire e combattere. E’ finita!! » gridò con forza, senza mai riprendere fiato, colpendo il suo petto di pugni. « Non può più andare avanti così. Voglio andarmene via di qui…  » esplose in un pianto incontrollato, una pioggia salata di lacrime e sentimenti. Chiuse gli occhi incapace di distinguere ogni contorno e colore.

«Mamma… ».

Se solo si fosse voltata, avrebbe avvertito il cuore spezzarsi dinanzi l’espressione di puro terrore dipinta sul volto di Gohan. Come pietrificato, ancora con le spalle contro il muro, strinse a sé suo fratello, quasi temesse di vederlo scomparire da un momento all’altro.

Voglio andare via. Lasciatemi in pace. Voglio solo star sola.

Delle braccia l’avvolsero lievemente, impacciate. Si scostò infastidita, scuotendo il capo.

Non c’è la faccio. Non c’è la faccio più.

«Su non prendertela tanto… calmati adesso».

L’uomo sorrise dispiaciuto, cercando nuovamente, con un certo timore e disagio, di avvicinarsi a lei. Chichi gli diede le spalle, asciugandosi inutilmente gli occhi.
Una lancinante fitta al ventre rischiò di piegarla in due dal dolore.
Non più essere… fa che non sia vero… io non voglio…

« La butto, giuro che lo faccio. Anzi, domani mattina la distruggo con un’onda energetica… ».
Non lo degnò di uno sguardo. Rimase ferma e immobile, di spalle, piangendo silenziosamente. Poi, la nausea giunse nuovamente a farle visita.
«Stasera dormirai sul divano! ».
Disse lasciando velocemente la stanza.
Per un attimo tutti temettero scappasse via di casa, via da loro.
Per un attimo, Chichi desiderò ardentemente scappare da se stesse e da quello che era stata.



 
***


La quiete sostituì la tempesta. Un silenzio assoluto e statico, accompagnò le prime ore del nuovo giorno. Il vento aveva spento le sue urla e il cielo prosciugato le sue lacrime. Tutto era immobile e incerto, vulnerabile.
Si rigirò dall’altra parte del letto stancamente, gli occhi arrossati e gonfi, i lunghi capelli neri sparsi sul cuscino. La gola secca, arida come un deserto, le labbra screpolate, il ticchettio incessante dell’orologio ad accompagnare i suoi pensieri e timori più profondi nell’abbraccio dell’oscurità, laddove era terribilmente facile nascondersi e perdersi.
L’alba era prossima alla nascita.
Portò una mano al ventre. Rabbrividì nell’avvertire la freddezza del suo stesso tocco, nonostante il tessuto della camicia che l’avvolgeva. Con un sospiro d’amarezza, osservò il lato vuoto del letto, spostò la mano verso il centro del cuscino freddo e intatto, quasi a porgerne una carezza. Si mosse ancora, allontanando via dal viso quasi con rabbia, alcune lacrime scomposte. Non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Per la prima volta da quando erano sposati, lo aveva costretto a dormire sul divano, non l’aveva voluto al suo fianco.
“E’ finita!! Non può più andare avanti così. Voglio andarmene via di qui…” Lo aveva urlato senza ritegno, lo aveva urlato e – se ne vergognò profondamente – desiderato, come un prigioniero desidera la propria libertà.
O la sua era forse una condanna a morte? Una condanna inevitabile, impossibile da evitare e da eludere. La Morte l’attendeva, seduta sul suo Trono di lacrime e dolore. Si ritrovò ad affogare in quei pensieri fin quando un senso di nausea non la scosse. Si alzò dal letto stanca e frastornata, indossando la vestaglia. Erano le 04:34 del mattino. Raggiunse il bagno adiacente la camera chiudendosi a chiave, stringendo tra le mani il contenuto riposto nel cassetto. Era giunto il momento, pensò con agitazione, con il cuore che pulsava inarrestabile e violento da farle male.
Vomitò ancora. Cadde in ginocchio, stremata.
Quando la nausea sembrò placarsi, bagnò il viso con acqua fredda, lavando accuratamente i denti.
Estrasse lo stick digitale dalla confezione, rigirandolo con ansia tra le mani, le spalle premute contro il muro, i capelli sparsi sul viso e lungo la schiena. Un profondo russare e qualche parola scomposta, provenienti dall’altra stanza le giunsero alle orecchie. Scoprendo di tremare, ripose il test di gravidanza ancora intatto nella tasca della vestaglia, dirigendosi silenziosamente in cucina.
Il sole stava sorgendo. I primi pallidi raggi illuminavano l’imponente e scomposta figura dell’uomo profondamente addormentato sul divano, le braccia distese lungo il capo. Alcuni preservativi gonfiati come fossero palloncini giacevano abbandonati sul pavimento ai suoi piedi.
Chichi quasi cadde all’indietro, sconcerta e stizzita, nuovamente fuori di sé dalla rabbia.
CHE COSA?? Ma allora è tonto? 
Rimase a guardarlo per alcuni attimi, sbattendo le palpebre, pronta all’ennesima sfuriata. La vena che pulsava pericolosamente sulla tempia tornò a farle visita. L’avrebbe sentita tutto il villaggio, anzi tutta la regione.
Quello stupido! Giuro che glieli faccio mangiare uno ad uno! Strinse i pugni con sguardo truce, avanzando verso di lui come un boia pronto a dare il colpo di grazia al condannato. Goku si mosse appena.
« Mi dispiace… non volevo » biascicò nel sonno, continuando a russare. Lei esitò, accigliata. Un senso di profondo imbarazzo l’avvolse, spegnendo un poco la sua ira.  
« Goten, Gohan va tutto bene, sì, sì, andate pure a dormire eh eh » ridacchiò scioccamente, con un’espressione buffa, girandosi dall’altra parte. Solo allora, Chichi si accorse di averlo lasciato dormire senza alcuna coperta.
Dovrei prenderti a calci invece di preoccuparmi per te, stupido!
Sospirò ormai senza più alcuna voglia di dare battaglia. Cercò più volte il test di gravidanza all’interno della tasca della sua vestaglia, quasi temesse di perderlo, quasi fosse l’arma di un delitto da celare. Ritornò in cucina poco dopo, rimboccandolo premurosamente con un piumone. Portando una mano tra i capelli si affrettò infine, a raccogliere e far sparire quei cosi dal forte odore di banana.
«… cosa c’è per colazione? » chiese ancora nel sonno.
«Banane! Fino al resto dei tuoi giorni!» sussurrò la donna a denti stretti.


 
**

Incinta. 11 settimane.
L’ esito apparve sul display dopo circa tre minuti interminabili.
Il cuore le tremò nel petto, poi, nacque il sole.
   
 
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