Anime & Manga > Boku no Hero Academia
Segui la storia  |       
Autore: Anya_tara    19/04/2019    1 recensioni
" L’acqua lieve scorre giù
L’anima crollata che vuole annegare
Questo era il mio regno, adesso è perduto
La pioggia leggera, in cui confido
Siamo tutti perduti
Come lacrime nella pioggia ..."
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 Solo una grossa bugia
Una così perfetta illusione
Ti ho resa mia
Solo per ferirti ancora una volta
Nei miei sogni morivo
Cosa dovrebbe significare?
Mi perdevo nel fuoco
Cercando di raggiungere la tua mano
Il mio desiderio fatale.
 
The Rasmus, " Funeral song" 
 
 
Non ci sono modi giusti o sbagliati di dire determinate cose.
Tanto meno a certe persone.
Forse l’unica soluzione praticabile è non dirle affatto. Tacere e attendere che passi qualcuno più coraggioso di noi, e lo faccia al posto nostro.
Trovarsi per caso in uno spaccio del centro, due giorni dopo essere tornato dai suoi diciotto mesi di lavoro fuori casa. Con addosso non l’uniforme della scuola, non la tenuta Hero. Vestiti quasi di normalità, qualunque sia il significato che questa parola abbia per un Eroe.
Ma sei proprio tu. Da quanto tempo. Come te la passi. Non sei cambiato affatto, e forse quest’ultimo non è un complimento. Frasi di circostanza, tutte tirate fuori da un solo interlocutore. Assieme ad un invito a prendere un caffè insieme, rivolto per cortesia. Perché hanno sempre avuto poco a che fare quei due, non si può dire che si facessero sangue.
E non era certo il caso di iniziare adesso. << Ti trovo bene >>.
Un verso scocciato, un sorso. << Sembra passato così poco che eravamo ancora in classe insieme >>.
<< Uh >>. Fissa il brodo scuro nella tazza di passaggio, senza loghi o decori. Un pezzo anonimo di porcellana industriale, a poco prezzo, come ce ne sono in giro a milioni.
<< Sei stato fuori, ho sentito >>.
<< Uh >>. Un altro sorso. Senza degnare della minima attenzione i dorayaki posti accanto, in un cestino. Anche questo totalmente anonimo.
<< E’ stata dura? >>.
Un cenno con le spalle.
Non sa perché l’ha seguito. E’ stato un impulso inspiegabile e malsano, una di quelle azioni che compi senza una vera ragione, soltanto perché ci sei finito nel mezzo.
Come nel mezzo finisce quel nome, venuto fuori tra un discorso e l’altro.
La reazione è quella solita.
Dissacrarlo. Con un sorrisino irriverente e il nomignolo denigratorio che gli ha appioppato tanto tempo prima.  
Lo sguardo dietro le lenti si fa serio. Come se fin lì non lo fosse stato abbastanza. Non l’ha mai visto rilassarsi un secondo ai tempi della scuola: sempre tutto rigido e impettito, sembra davvero gli abbiano infilato un palo dritto su per il …
<< Senti, io … so che in fondo forse non lo fai di concerto, sei fatto così e basta, tuttavia credo sia il caso di … parlare con un po’ più di rispetto di lui, adesso che … non c’è più >>, osserva abbassando gli occhi blu sulle mani.
Lui smette di respirare. Lo sguardo gli si fa vacuo, perso.
La tazzina resta stretta nelle dita. Per non farle tremare. << Come >>.
Non è una domanda.
In realtà non ha ben capito cos’ha detto l’ex-compagno di classe. Forse che il giapponese abbia cambiato il significato di alcune parole, mentre era via?
L’ex-compagno fraintende, e la risposta è di quelle che lasciano senza fiato. Una parola che nel corso della vita odierna, sempre in bilico tra un attacco dei Villan e l’altro pensava fosse caduta in disuso, che non ci fosse più gente che se ne andasse in questo modo, e gli ospedali fossero pieni solo di feriti.
<< Fulminante >>, prosegue l’altro aggiustandosi gli occhiali sul naso. << Si è … sentito male, in casa. Prima che arrivassero i soccorsi era già entrato in coma. E tre giorni dopo … è spirato >>.
Non può credere di averlo saputo così, seduto al tavolo di una caffetteria, in mezzo ad altre cento persone. Con in mano un caffè, e un vassoio di dolci rognosi scaldati e raffreddatisi chissà quante volte.
E’ una cornice troppo … insulsa, quasi indegna per una notizia simile.
Come anche per … una fine del genere.
Non sul campo, combattendo orgogliosamente. Coprendosi del sangue dei propri nemici.
In un letto dalle lenzuola anonime. In un’anonima stanza d’ospedale.
Tre giorni. Tanti sono bastati a portarsi via un Eroe. Non la vampata gloriosa di un istante, tre giorni di sofferenze ed agonia, prima dello spegnersi come la fiammella di una candela.
Allora, a cos’è servito tutto quanto? La scuola, l’addestramento, il tirocinio? Tutta la fatica fatta, gli ostacoli superati, la rabbia e la voglia di vincere, di essere il primo, di meritarsi col sudore ogni lettera di quella definizione di “Hero” di cui ora potevano finalmente fregiarsi?
Possibile, che sia servito solo ad un cazzo? A … questo? A morire come un qualunque impiegato delle poste, un qualsiasi portiere di uno degli schifosi condomini tutti uguali a mille il mazzo come ce n’erano in ogni città del Giappone?
Vorrebbe alzarsi e andare via.
Ma le gambe sono un blocco di cemento armato piantate sotto il tavolo.
E’ l’altro a mettersi in piedi per primo. Tira fuori il portafoglio, mette fuori due bancone e le appoggia accanto al proprio piattino. << Lascia, faccio io >>, dice, quasi che lui abbia insistito per pagare.
In realtà non si è mosso di un millimetro. Anche il respiro non collabora più.
Quasi come fosse … fosse … anche lui.
No. non ha senso. Non può accettarlo così, come niente.
Cinque mesi che non è più a questo mondo. Cinque mesi sottoterra, e il sole splende ancora alto nel cielo, la pioggia continua a cadere, e gli alberi a fiorire.
Cinque mesi che continuava la sua vita come ogni altro giorno, e lui non c’era più invece.
Com’è che non l’ha saputo? Vero, era lontano, oltre Oceano, ma una notizia simile, anche se non si è trattato di un caduto in battaglia, avrebbe dovuto fare il giro del fottuto mondo in un baleno.
Tanto più …  considerato chi era ad averlo lasciato, quel mondo.
<< La … famiglia ha preferito una cerimonia privata. Niente stampa, niente notiziari >>.
Famiglia? Quale famiglia? Non era una vera e propria famiglia, la sua.
All’allargarsi degli occhi iniettati di sangue, il compagno intuisce. << La madre … ha detto che almeno quel dolore voleva viverselo per conto suo, come non avrebbe più potuto viversi il figlio. Che per quanto comprendesse la grave perdita che quella morte prematura rappresentasse per tutti, la più profonda era tuttavia la sua. E … la … moglie … è stata d’accordo con lei, ovviamente >>.
Questa è una parola che ha ancora meno senso. << Si era … sposato da meno di un anno. Ha lasciato una vedova e un bambino che è venuto alla luce dopo che lui era già … insomma >>.
Il caffè gli risale nella gola. deve trattenersi per non sputarlo fuori, assieme alla piena delle parole, della furia.
<< E chi è questa moglie? >>, si sente chiedere prima di rendersene conto.
Quattrocchi ribatte con un leggero sorriso. << Hai davvero bisogno di domandarlo? >>.
 
Il pugno batte piano contro lo stipite di legno.
Iida gli ha dato l’indirizzo. Una casa anonima, una tranquilla villetta in periferia. Nulla di strano, di fuori posto.
Sembra quasi che abbia cercato di vivere quanto più normalmente possibile, nonostante tutto. Per il poco tempo che non sapeva gli restasse.
<< Arrivo! >>. Una voce femminile, dei passi concitati sull’assito di legno. Quando gli apre, ha una molletta tra le labbra. Che le sfugge cadendo senza far rumore davanti alle pantofole rosa, l’unica nota di colore stonata nel resto dell’abbigliamento.
Una giacca scura, un paio di pantaloni della tuta neri, un po’ larghi e sformati. Quelli di lui. << T-tu … >>, esala la ragazza, i grandi occhi scuri eppure limpidi che si sgranano esterrefatti.
<< Ciao >>.
Passato il primo momento di sconcerto lo fa entrare, lo accompagna in soggiorno. Anche qui nulla di speciale: pochi mobili, ben tirati a lucido, un televisore acceso che mostra un programma di cucina, l’odore del brodo che cuoce sul fornello nella stanza accanto.
Normalità, sempre e comunque.
Nessuna foto però. Nemmeno un misero portaritratti appoggiato in giro. << Ho … tolto tutto >>, spiega lei, forse notando l’espressione stranita del visitatore inatteso che di certo immaginava di trovare un santuario alla memoria, pensa forse. << I primi giorni non volevo toccassero nulla delle sue cose, neppure una penna, ma mia madre … ha insistito lei. Non … potevo starmene con le foto in mano a piangere da mattina a sera, e poi tutta la notte >>.
Annuisce appena. Vecchia di merda, pensa, però.
Ma la donna l’avrà fatto certo per amore della figlia. Mica poteva immaginarsi che sarebbe tornato lui, davvero come un fantasma, e si sarebbe guardato intorno cercando l’immagine di quel viso.
<< Forse un giorno avrò abbastanza forza da rivederle e non piangere più. Ma ancora … >>. Abbassa lo sguardo, lo punta sulle mani che tiene in grembo, distanti dal ventre piatto. Forse un’abitudine che le è rimasta dalla gravidanza, quando era molto più gonfio di così.
Eppure non è cambiata di una virgola. Sembra sempre la stessa ragazza che frequentava la sua classe.
La loro, classe.
Anche se non sono più a scuola da un paio d’anni ormai ha ancora quella morbidezza quasi adolescenziale dei tratti, malgrado la tragedia che le è piombata addosso tra capo e collo, e le difficili prove a cui deve sottostare un Eroe ha conservato quella purezza, quell’ingenuità.
Per questo l’ha sposata? Per … garantirsi quell’appiglio con dei giorni senza dubbio migliori di quelli che sarebbero venuti? Per sapere che esisteva ancora un legame con gli anni non facili, ma quanto meno spensierati della gioventù?
Non avrebbe più potuto spiegarglielo, ormai.
E forse neppure glielo avrebbe mai domandato, lui. << Ma dimmi di te. Quando sei tornato? >>.
<< Da due giorni. L’ho … saputo soltanto ieri. Ho incontrato Qua … Iida per caso, e me l’ha detto >>.
Stira un breve sorriso, composto ma evidentemente affettuoso. << Iida è molto caro. Chiama quasi tutti i giorni per sapere come sta … come stiamo. Non so cosa avrei fatto senza il suo aiuto. Anche lui è rimasto molto colpito da quel che è successo, in fondo erano molto amici >>.
Non dice nulla. Quell’interesse non sarebbe sospetto, per uno di quelli che era tra i suoi amici più stretti: alla luce dei fatti gli viene spontaneo domandarsi però quanto intima sia stata quell’amicizia.
Ma è più probabile che Quattrocchi si prenda tanta cura della giovane vedova per altri motivi. Che non gl’interessano in realtà.
<< Posso offrirti una tazza di tè? Del caffè … >>.
<< No. Sto bene così >>.
Lei stira di nuovo quel sorriso. << Non sei cambiato affatto. Sarebbe … sarebbe incredulo nel vederti qui, nel salotto di casa sua. Mi pare quasi di doverlo vedere entrare e restare piantato sulla soglia proprio come ho fatto io… >>. La voce si spezza, una lacrima rotola giù dall’occhio. Se la asciuga piano. << Scusami >>.
Annuisce di nuovo. Il dolore composto della ragazza gli suscita qualcosa di inesplicabile dentro, a cui non sa dare un nome, una direzione precisa.
E’ tutto mescolato, dentro. Un magma informe ribollente d’angoscia, nelle viscere.
<< E’ stato … un bel funerale. Hanno fatto tanti bei discorsi, io no, non ne ho avuto il coraggio. Ma è stato bello sentire quanto lo amavano i suoi amici. Mi dispiace che non ci fossi. Penso … che gli avrebbe fatto piacere, sapere che c’eri anche tu >>.
D’impulso serra i pugni sulle ginocchia.
E’ una cosa morbosa. Come avrebbe potuto sapere che era lì? E’ morto, morto e sepolto, non sente più nulla, vorrebbe gridarle su quel viso ancora da ragazzina. Non si sarebbe certo messo a spuntare la lista di chi c’era o non c’era alle sue esequie.
Una lista su cui sicuramente non l’avrebbe neppure scritto, il suo nome. Non avrebbe stimato necessario che ci fosse a celebrare la sua morte, visto come l’aveva trattato in vita.  
Lei sembra intuire il suo pensiero. << D’altronde, anche … quando ci siamo sposati, eri via. Ho … cercato di convincerlo a contattarti, a provare a rintracciarti in qualche modo. Ma … non ha voluto >>.
Ancora tace. Mai ha serbato il silenzio per così tanto tempo.
<< Forse questo non avrei dovuto dirtelo. Ormai non so più cosa dico quando parlo, scusami ancora >>. Tira fuori un fazzoletto dalla tasca della giacca, si soffia piano il naso.
<< Non fa niente >>.
Un tenue miagolio si leva da una camera nel corridoio. << Oh. Si è svegliato. Scusami >>. Si alza, esce dal soggiorno.
Quando torna, ha in braccio un groviglio di coperte. << Devo stare molto attenta agli sbalzi di temperatura. E’ … molto delicato >>. Si siede di nuovo, culla appena quel fagotto. << E’ nato … in anticipo. Purtroppo la gravidanza non è stata delle migliori, dopo … e con il trauma che ho ricevuto, è già stato tanto … non abbia perduto anche lui >>. Se lo serra al seno, con dolcezza. << E’ tutto quel che mi rimane, la mia ragione di vita, adesso >>. Abbassa il volto sul bambino, lo agita piano. << Shhh … dai, stai buono. Buono, piccolo … >>. E pronuncia un nome.
Quel nome.
E’ interdetto. Per un attimo crede che il dolore abbia dato al cervello a quella poveretta.
Che guarda di nuovo lui. << Ha il nome di suo padre. Non … avrei potuto dargliene nessun altro >>.
Ma certo. Che idiota del cazzo.
<< Vieni. Guardalo. Gli somiglia in tutto e per tutto >>.
Come calamitato da una forza a cui non può opporsi si mette in piedi, si avvicina. Spia appena tra le braccia di lei, e un nodo gli si stringe alla bocca dello stomaco.
<< Non è vero che gli somiglia? Vero? >>.
<< S … sì >>.
<< Prendilo in braccio >>, propone la ragazza tendendolo piano verso di lui.
Indietreggia, quasi spaventato. In quel tono generoso, del tutto innocente gli è parso di percepire un leggero anelito di sfida.
O forse è solo la sua immaginazione sconvolta a farglielo sentire. << Oh, no. Meglio … meglio di no. Sai >>. Alza le mani, volgendo i palmi verso loro due. Quasi come che bastasse un tocco, anche lieve, per causare dei danni irreparabili.
Forse non al bambino.
A lui sì, però. Di sicuro. << Certo. Hai ragione >>. Lo guarda con una tenerezza infinita, una mano si adagia lieve sul volto del bimbo. << La cosa che desiderava più di tutte era lasciare un segno nel mondo. Ora è questo è il suo segno, e io me ne prenderò cura. Fino all’ultimo dei miei giorni >>.
 
Quando è tornato in strada, finalmente fuori da quella casa si è sentito un coglione.
Non ha davvero idea del perché fosse andato lì, la ragione per cui fosse andato a bussare a quella porta.
Forse … sperava di trovare ancora qualcosa di lui. Del suo profumo, così com’era rimasto attaccato alle lenzuola.
Dei suoi occhi così belli. Il suono della sua voce.
Ha trovato solo dolore e follia. Una donna che cerca di tenere botta come può per fronteggiare la grave perdita che ha subito; una donna ch’è un Eroe anche lei, ma non ha visto più niente di eroico in quel tono ora dimesso, ora incrinato, ora eccitato.
Due vite sono andate perdute.
Anzi, tre.
E se per una di loro c’è ancora qualche speranza di recupero, per le altre due non c’è più niente da fare.
Sono trascorsi sei giorni. Ha preso una stanza in un motel, non ha ancora inoltrato alcun curriculum a nessuna agenzia. Le referenze che gli hanno fornito e che si è portato dietro ora gli sembrano carta straccia.
Forse dovrebbe bruciare l’intera valigia. Liberarsi di tutto.
Ma è così vuoto che gli sembrerebbe inutile anche questo: non sarebbe che l’ennesimo dei suoi futili gesti dimostrativi.
E non gli è rimasto nulla da dimostrare a nessuno.
Appena fa buio infila la felpa, la calca bene sulla testa.
Là fuori ha ricominciato a piovere. Non fa altro da quando è tornato.
Un altro segno che sarebbe stato meglio restarsene dov’era.
Quello che va a rivedere tutte le notti in realtà è il suo ultimo domicilio prima di lasciare il Giappone. Lo è stato per qualche tempo, dopo il diploma: voleva una tana tutta sua, per starsene in pace: niente più vecchi, niente più idioti intorno. Niente spiegazioni, nessuna rottura di coglioni. Entrare ed uscire quando gli pareva, come gli pareva, con chi gli pareva. Un buco di due stanze e mezzo in uno di quei palazzoni, al settimo piano. Senza ascensore.
Perché ci torna tutte le notti, come fosse un rito da officiare religiosamente o meglio, un’attrazione troppo forte per potersi sottrarre?
Semplice. Perché una volta, una notte come queste, in quella casa c’era finito lui.
Si erano incontrati per caso, anche loro. Dopo la ronda, ognuno per fatti propri. Nella corsia di uno spaccio, intenti a fare la spesa.
Lui era rimasto immobile, senza battere ciglio. L’altro aveva abbozzato un cenno di saluto, tranquillo, quasi neutro.
Da più di un anno non si vedevano.
A rifletterci adesso non sa nemmeno come sia accaduto. Non era lucido, ma stanco: deluso, frustrato, e inzuppato di pioggia dacché non aveva la pianificazione necessaria a prendere un ombrello anche se vedeva in cielo grossi nuvoloni.
E quelle parole, delicate. << Ti accompagno io, se vuoi >>.
Esausto, aveva fatto di cenno di sì con la testa. Non aveva più voglia di prendere metro, far strada a piedi; tutta la sua energia ruggente sembrava evaporata assieme al calore corporeo con la pioggia.
In quel momento gli era parso un appiglio, un porto sicuro. Un rifugio da tutto quell’esaurimento che gli corrodeva le forze dopo aver sprecato inutilmente le forze a camminare e camminare, e camminare ancora tenendosi le mani in mano.
Avrebbe dovuto esserne contento. Un Eroe sa che il suo lavoro è una necessità, non un divertimento: e se non occorre che intervenga allora è un bene, vuol dire che è tutto tranquillo.
Fanculo.
Uscito dal supermercato era salito in macchina, gli aveva dato l’indirizzo. E aveva fatto per accendersi una sigaretta: la prima all’asciutto, da quando quella serata del cazzo era cominciata.
<< Non nella mia auto. Per favore >>, aveva aggiunto lui.
In un altro momento lo avrebbe mandato a farsi fottere, l’avrebbe accesa comunque e magari avrebbe anche incrociato gli stivali pieni di fango sul cruscotto.
Ma non adesso.
Era rimasto in silenzio per tutto il tragitto.
<< Uh. Ferma qui >>, aveva detto, e subito quello aveva accostato per dar modo a quelli in fila dietro di continuare a proseguire.
Fosse sceso in mezzo alla strada, quasi sbattuto come un cane, un pacco postale sotto l’acquazzone, magari col motore rombante d’impazienza sarebbe stato meglio. Di sicuro.
<< Allora buonanotte. Alla prossima, se capiterà >>.
<< Uh >>. Era sceso, stava per chiudere la portiera con la sua solita malagrazia.
Ma qualcosa dentro l’aveva spinto a voltarsi di nuovo. << Senti, perché non scendi? Ti offro da bere. Per il passaggio, sai >>.
<< Non occorre. L’ho fatto con piacere >>.
Al che l’aveva guardato di traverso.
Era parso un po’ esitante, poi aveva annuito piano. Qualche stilla si era staccata dalle ciocche, cadendo nella luce fioca dell’abitacolo con un bagliore scintillante. << Va bene. Se proprio insisti … vengo >>. Era sceso anche lui, aveva messo l’antifurto. Erano entrati nell’androne grondando acqua dappertutto.
Si erano fatti sette piani di scale al buio e in silenzio. Era vagamente consapevole del suo respiro un po’ affrettato, anche lui doveva essere stanco morto.
Di certo il suo quartiere di ronda era più eccitante. Ogni tanto passava al notiziario qualche titolone su come una rapina, un attacco o un altro cazzo di atto improprio era stato brillantemente sventato da quell’agenzia.
Anche lui stesso aveva pensato di inoltrare il proprio curriculum lì, una volta preso il diploma. Era stato richiesto da loro, ma aveva cestinato senza remissione il foglio con su stampata l’e-mail non appena aveva sentito mormorare che avevano richiesto anche quello.
Avrebbe dovuto aspettarselo, era una delle migliori. Ad un passo dalla vetta, dall’infallibilità. Aveva puntato i migliori e mirava ad accaparrarseli tutti, i giovani talenti della Yuuei.
Così era finito in una più mediocre. Malgrado fosse uno dei più promettenti i suoi scatti d’ira, la sua impossibilità a collaborare lo avevano relegato in fondo rispetto ad altri suoi compagni meno dotati, ma più malleabili.
Aveva infilato la chiave, aperto la porta. Teso il braccio libero dalla spesa e acceso la luce. << Entra >>.
Aveva sfilato le scarpe, d’impulso. ma lui non aveva pianelle per gli ospiti: chi passava da lì ci stava troppo poco per meritarsi quella cortesia. << Metti le mie >>, aveva detto liberando i piedi dagli stivali.
<< Sicuro? >>.
<< Quanto cazzo parli >>. Aveva posato la busta sul tavolo, aperto il frigo e messo apposto le confezioni di cibo precotto e le lattine di soda calde. Poi aveva tirato fuori due birre fresche, e ne aveva porta una a lui, ancora in piedi.
E aveva accettato la lattina dalle sue mani, l’aveva alzata in una sorta di brindisi. << Salute, allora >>.
<< Uh >>.
Avevano bevuto qualche sorso, sempre in silenzio. Quegli occhi lo spiavano timidamente di sottecchi, probabilmente incerti delle sue reazioni.
<< Allora, io vado. Grazie della birra. Ci si vede >>.
Per un secondo era rimasto a guardarlo voltargli la schiena. Lo aveva studiato per bene, ed era sata questione di un attimo raggiungerlo, afferrargli il polso.
<< Cosa … >>. Il resto si era perduto in un tocco di labbra. Premute contro le sue. 
Non si era ribellato. Le aveva schiuse permettendogli di entrare a sondarlo con la lingua, così, senza alcuna esitazione.
Non aveva alcun senso.
Eppure lo stava facendo. Baciava quella bocca umida, vellutata e leggermente sapida di malto e la sentiva scaldarsi nella sua, piano, le mani puntate sul petto come per spingerlo indietro erano rimaste lì, artigliando la maglia fradicia.
Gli aveva infilato una mano dietro la nuca, tra i capelli imperlati d’acqua. Erano … davvero soffici come apparivano, anche bagnati. Il suo respiro sapeva di pioggia e tenerezza.
Quando si era staccato da lui, era bastato un solo sguardo.
Non c’era da dubitare del bagliore che si era acceso in quelle iridi. Lo stesso di quella goccia precipitata poco prima in macchina.
Lo aveva tirato su, allacciato le sue gambe ai fianchi e l’aveva portato in camera da letto.
Lì erano rimasti fino all’alba, quando entrambi sfiniti, carichi di sudore e seme rappreso come boccioli ebbri di rugiada ai primi raggi del sole, si erano addormentati.
Aveva aperto un occhio ch’era pomeriggio pieno. La sveglia sul comodino indicava le tre meno un quarto.
E lui era ancora lì. Nel suo letto.
Che gli teneva un braccio intorno alle spalle.
Facendo piano per non svegliarlo si era alzato, andando nel bagno. Si era rasato, aveva fatto la doccia, lavato i denti e si era vestito.
In realtà non doveva andare al lavoro, era il suo giorno di riposo. Ma non riusciva a sopportare di starsene chiuso tra quelle quattro pareti soffocanti, di solito: o andava comunque in ufficio a rompere le palle agli altri colleghi, oppure si rinchiudeva in palestra finché non sentiva i muscoli implorare pietà.
Oggi però era animato da un’urgenza diversa. Non era sicuro di reggere un allenamento, a stento si teneva in piedi sotto il getto caldo, mentre si lavava via i residui della nottata trascorsa.
Ma doveva uscire, altrimenti sarebbe impazzito. Aveva fatto una cazzata madornale, anche se mentre la faceva, e la rifaceva ancora non gli sembrava tanto grande.
Adesso però, a mente lucida si rendeva conto di tutte le conseguenze di quel gesto sconsiderato. Di tutto … quel sesso pieno, caldo, sussurrato e gridato e c’era di che stupirsi che quelli del piano di sotto non fossero andati a sfondargli la porta di casa o non si fossero lamentati con l’amministratore, facendolo piombare lì in piena notte o di primo mattino per rompere i coglioni.
Non era certo vergine, no. Ma tutto ciò che c’era stato prima adesso sembrava distante anni luce, una sorta di linea di confine scavata a fondo come una voragine si era delineata tra quelle scopate estranee e quell’unione profonda, intensa, meravigliosamente folle che c’era stata tra i loro corpi e le loro intenzioni.
Era stato come tornare a casa. Riaffondare in qualcosa che non sapeva di aver perduto e d’un tratto aveva ritrovato, così, dal nulla, quando quasi non ci pensava più.
E questo gli faceva tanta paura. Scoprirsi così fragile, sospeso quasi come una bolla di sapone tra quelle mani che avevano percorso la sua pelle più e più volte come volessero consumarla. Guardarsi in quegli occhi diventati d’un tratto così grandi, annegarvi quasi, come in un mare dalle infinite sfumature. Sentirsi stretto tra quelle braccia così forti e sapere di essere davvero al sicuro.
Ma non poteva affidarsi tanto ad un’altra persona. A lui poi meno che mai.
Rientrato in camera per un attimo il suo petto e le sue saldissime intenzioni avevano tremato. Si stava svegliando, la testa si era voltata sul cuscino cercando il suo sguardo. << Buongiorno … >>, aveva sospirato piano, con voce roca e impastata mentre stiracchiava i muscoli scolpiti, i tratti del volto addolciti dal sonno.
<< Uh >>. Aveva aperto l’armadio e preso il borsone, come ogni altro giorno. << Io vado. Di là in bagno ci sono degli asciugamani puliti nell’armadietto >>.
<< Oh … ehm. Va bene >>.
<< Nel pensile della cucina c’è un po’ di roba, se ti va. Attento al bollitore che va a corrente alternata, funziona solo se tieni la spina conficcata nella presa, sennò amen. Quando finisci chiudi bene >>. Aveva girato sui piedi nudi, pronto ad allontanarsi velocemente da lì.
<< Ehi >>, l’aveva richiamato dal giaciglio, avvolto tra le lenzuola. Nella luce grigiastra del pomeriggio nuvoloso sembrava pallido.
Si era voltato un istante.
<< Grazie. Per stanotte >>, aveva sussurrato, mettendosi a sedere e fissandolo di sottecchi, tra le lunghe ciglia scure.
La sua risposta era stato uno sguardo seccato e un medio alzato. Quasi che in quella frase vi fosse celata un’accusa, e non un semplice moto di gratitudine.
Chissenefregava. Mica gli aveva fatto un favore: se l’era fatto da solo, semmai. Questo aveva pensato sbattendosi dietro la porta.
Il giorno dopo aveva inoltrato domanda per partire, andare a svolgere il suo lavoro presso un’altra agenzia, lontano, oltre Oceano. E aveva tagliato tutti i ponti, semmai ne restava ancora qualcuno; per provare a dimenticarlo, ad azzittire quel fuoco che aveva attizzato, nutrito, e infine fatto esplodere dentro di lui, tra loro, tra quelle lenzuola che aveva preso, appallottolato e gettato via con rabbia.  
E adesso quel dito alzato, quella freddezza esasperante erano l’ultima cosa di lui che si era portato via con sé.
Nella tomba.
No, non può crederci. Non può essere vero che quel corpo caldo, morbido, sensibile ora sia cibo per i vermi. Che sia polvere, marciume. Che quel suo odore così buono adesso sia mutato in fetore di decomposizione, e dalle labbra soffici non escano più gemiti, non più sospiri ma un liquido nerastro.
D’un tratto s’inginocchia, su quell’asfalto lurido. Il dolore lo torce dentro.
Dovrebbe odiarlo. Si è … sposato, ha dato a … ad un’altra, quell’altra ciò che ha dato anche a lui. Ha concepito un figlio, e la giusta punizione per quel tradimento è stata che non l’abbia neppure visto, prima di andarsene per non tornare mai più.
Ma non riesce a pensare a questo.
Il cuore glielo sussurra come fosse gli accanto, in ginocchio anche lui.
E’ stata colpa sua. Se quel pomeriggio invece di andarsene sbattendo la porta fosse tornato accanto a lui in quel letto, avessero ricominciato a fare l’amore, e al posto di fare richiesta per un periodo di gavetta presso un’agenzia in terra straniera, per fuggire da lui non l’avesse lasciato più non sarebbe mai accaduto. Avrebbero avuto poco tempo, certo, e forse adesso starebbe anche peggio di così, sapendo di averlo visto morire senza poter fare nulla per salvarlo: ma almeno adesso il rimpianto, il rimorso non lo starebbero uccidendo su quel marciapiede bagnato, piegato sotto il peso di un fardello che non può sostenere in alcun modo. Ci sarebbe stato lui al suo fianco, non avrebbe mai sposato lei, non avrebbe mai sentito quel morso gelato dentro stritolargli le ossa e le viscere.
Ma così non si sarebbe lasciato dietro alcuna eredità. Non avrebbe lasciato alcun segno nel mondo, quel bambino che gli somiglia tanto, ed ha il suo stesso nome.
Si pente di non averlo preso in braccio. Di non averlo stretto al petto, sul cuore, quel cuore che adesso si sta strizzando nel petto dall’angoscia, dal dolore puro e fiero che pensava di non poter mai provare in vita sua. di non averlo abbracciato come avrebbe dovuto fare col padre, quel giorno, invece di scappare spaventato perché le ultime difese stavano cedendo dentro di lui, dopo essersi scambiati la pelle e l’anima.
Apre le labbra, gli sfugge un gemito roco, disperato. Intriso di sofferenza fisica, emotiva, un tutto raggrumato e confuso così piccolo eppure prende così tanto spazio dentro di lui: un piccolo grumo di peli spaiati sulla testolina e gli occhietti appesantiti dal sonno degli innocenti, dentro cui le iridi del padre splendevano come gemme.
Ma non è il nome del bambino quello che gli sale alle labbra, lo sa mentre lo urla senza voce.
Una luce intensa gli esplode davanti agli occhi, si tiene la mano sul petto come per impedire al cuore di scoppiare. Spalanca la bocca, inspira aria pesante e pioggia, un verso strozzato viene fuori dalla gola serrata in un blocco di cemento.
Quella luce. Da essa all’improvviso emerge una forma umana, un volto amorevole, conosciuto dal sorriso caldo, quieto e bellissimo, rassicurante.
Tende una mano verso di lui, gli accarezza il volto. Avverte il calore, il tocco gentile e vorrebbe tendere la propria a stringerla, adesso, per rimediare a tutte le volte in cui l’ha allontanata da sé con ira, per stupido orgoglio, per quella smania di voler essere il migliore quando è chiaro che non è più nulla.
Quando il tuo avversario non è più che cenere, non sei che cenere anche tu.
E allora tanto vale mutarvi.
Non ha più senso andare avanti così. Mentre la fiamma viene soffocata dalla pioggia un ultimo pensiero cosciente coagula nel fondo della sua gola, spinge per tirarlo fuori come se fosse quello a strozzarlo, impedendogli di respirare. << Prendimi … con te >>.
La luce sembra trattenere il fiato anche lei. Spalanca gli occhi ora senza colore e di tutti i colori, scintillanti d’oro, di riflessi adamantini. << Bakugō … >>.

Angolo di Anya: ehilà bella gente! Grazie per le letture e le vostre opinioni. Come avrete notato, questo secondo capitolo ha trovato uno dei protagonisti ( non facciamo nome, vero, Signore delle esplosioni? XDXDXDXD ) e qualche personaggio di contorno. Ora sta a voi decidere chi sarà l’altro, visto che avete esplicitamente richiesto una Bakudeku o una Todobaku, ho deciso di accontentarvi a metà ( non è una battuta! XD) e lasciare in sospeso il secondo pezzo del pairing. Chiaro che da questo dipenderà anche l’identità della dolce, povera vedova e tutto il resto. Se ci siete battete un colpo, e scrivete, scrivete, scrivete!
Con affetto,
Anya.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Boku no Hero Academia / Vai alla pagina dell'autore: Anya_tara