Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: jinkoria    31/05/2019    2 recensioni
[GioMis | Stone Ocean, canonverse, SPOILER finale]
Se oggi fosse il tuo ultimo giorno
«Beh, perché mi fissi? Ci stai provando?».
Giorno spinge la fronte contro la sua, le labbra piegate all’insù suo malgrado «Ne ho bisogno?» provoca, poi deglutisce, tutti e due serrano le palpebre per il bagliore ormai instabile che scoppia all’esterno, «Perché voglio rendere impossibile dimenticare, qualsiasi cosa venga dopo».
metteresti il tuo segno su un cuore infranto ora riparato?
Guido sospira teatralmente, l’esasperazione ostentata, infine afferma con fare ovvio «Come se te lo permettessi».
Genere: Angst, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Giorno Giovanna, Guido Mista
Note: Lime | Avvertimenti: Spoiler!
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if today was your last day」
Live like you’ll never live twice

 

 

Giureresti su Dio che finalmente ti innamoreresti
se oggi fosse il tuo ultimo giorno?

 

 

 


 

Le labbra di Mista sono ancora intrise del sapore della pelle di Giorno quando premono piano sulla sua tempia, come già nostalgiche e mai sazie di quella sensazione, mentre le dita scivolano pigramente sul fianco scoperto dell’altro, intorpidite da quel tiepido languore; il giovane Boss strofina il mento contro la spalla dell’amante e vi soffoca un mugolio di risposta a quella blandizia, stringendosi al suo petto nel percepire la bocca carnosa tendersi in un sorriso.
«Perché ridi?».
«Non sto ridendo, ma mi aspetto di sentirti fare le fusa da un momento all’altro».
Giorno solleva gli occhi al cielo, è il massimo che può fare, per nulla intenzionato a sbrogliare quel nodo stretto in cui si sono deliberatamente vincolati, piuttosto si scomoda giusto un po’ per mordergli il collo. Gli occhi socchiusi, appena stanchi, catturano in un battito di ciglia il guizzo del pomo d’Adamo di Guido, uno scatto che Giorno imprime a fuoco nell’angolo più prezioso della memoria intanto che il riverbero della risata del suo sottoposto gli scende giù per la gola, ad acciambellarglisi sul cuore.
«Stai ridendo» rimarca piccato, tirando la pelle tra i denti con forza per poi vezzeggiare quello stesso lembo con la punta della lingua – gli piace il modo quasi inconscio in cui Guido si sia inarcato verso di lui, così da esporsi meglio al suo attacco. Lo stomaco gli si attorciglia al pensiero di quanto si comporti nella medesima maniera, l’anima più nuda del corpo che, ormai, non riesce a fare a meno di quel sentimento ancora incertezza per il raziocinio, incognita di cui non ha mai cercato la risposta perché c’era già Guido ad averla trovata per lui.
«Stai decisamente ridendo» insiste, stavolta più leggero, deliziato dal brivido comparso sulle braccia dell’altro mentre una mano è scesa a giocare con i riccioli scuri del pube; Mista trattiene forte il fiato, ogni traccia di divertimento in dissolvenza per dare spazio a un suono altrettanto vivo ma via via più esigente, com’è la sua voce quando le dita del ragazzo si avvicinano al sesso pressoché destato da quelle attenzioni poi ignorato per cambiare traiettoria.
«Non stavo ridendo!» protesta il tetrafobico, l’indignazione palese a quel diniego «Te lo dice pure Trish che sembri un ga...».
Giorno si allontana dal collo martoriato, rivolgendo un ghigno compiaciuto al volto arrossato di Guido, ammutolitosi di colpo nell’accorgersi del polpastrello che si strofina contro l’apertura.
«Sembro un?» domanda mellifluo, vicinissimo all’orecchio, per poi fare pressione contro l’anello muscolare ancora allentato. Mista dimentica del tutto di rispondere e mugugna infastidito alla lentezza crudelmente metodica del compagno, sente la gola secca e la stanchezza dell’amplesso precedente rende più smanioso il desiderio di venire – di nuovo.
Gli basterebbe così poco, se solo quel demone malefico a cui darebbe il mondo lo toccasse come sa eppure rifiuta di fare. Sta quasi per risolvere da solo quando Giorno sussurra il suo nome e Guido non può evitare di voltarsi neppure per giocosa offesa, avrebbe trovato meno difficile sottrarsi a un ordine che a quel tono talmente affezionato e suo, personale ed esclusivo, liberato dalle labbra piene che ora imprigionano le proprie. Lo pensa con una nota d’orgoglio, col sapore del sangue sulla lingua, probabilmente perché prima lo ha morso con un po’ troppa veemenza ma non importa, si dice, mentre riempie la bocca di Giorno con un gemito profondo, colto alla sprovvista dall’improvvisa sensazione di un secondo dito.
«Non mi hai risposto» continua quello, ondeggiando pigro i fianchi contro di lui; Guido biascica qualcosa di incomprensibile senza interrompere il bacio e il Boss trova adorabile come paia non averne alcuna intenzione, benché gli stia togliendo il fiato, e continui incurante, la lucidità rapita dalla stimolazione verso cui si spinge di rimando.
Prova una soddisfazione al limite del controproducente nell’osservare come le ciglia lunghe di Mista calino repentine, gli occhi serrati ogni qual volta le falangi vadano a sfiorare quella parte così sensibile e intima che solo il giapponese ha mai avuto il privilegio di reclamare; un appagamento immutato negli anni sebbene riconosciuto a fatica, imprigionato da un timore familiare e di cui, per mesi, l’uomo al suo fianco si è preso cura con devozione finché non è stato Giorno stesso a chiedergli quel di più tanto terrificante.
A trovare il coraggio di essere il primo a concedersi, senza quelle riserve che lo avevano portato a trascinarsi indolente in un legame indefinito.
«Giorno...» lo richiama l’altro, la mano ancorata alla sua nuca tira appena una manciata di capelli per spostarlo e lasciarsi baciare ancora.
Gli piace così tanto quella voce bisognosa in cerca di attenzione e non può fare a meno di sorridere al pensiero di quando un tempo, in una simile circostanza, l’istinto lo avrebbe portato a ritrarsi davanti a quel troppo ingestibile, mentre adesso, sentendo l’erezione di Guido sfregargli sugli addominali, è quasi tentato di scivolare verso il basso e riempirsene la bocca per dargli finalmente sollievo.
Eppure non si muove, perché nell’aria c’è qualcosa di insistente e ridondante che lo spinge a non distogliere lo sguardo nemmeno per un secondo dal volto perso del suo amante, una sorta di presentimento forte a sufficienza da convincerlo a rinunciare alla ricerca in Florida per tornare in fretta a casa, a fare l’amore per l’intera giornata o quel che ne sarebbe rimasto. Un sentore che, adesso, lo esorta a far tesoro di ogni più piccolo dettaglio di quella persona arrivata nella sua vita come un fulmine a ciel sereno, estemporaneo ed emozionante, proprio quando Giorno credeva di essersi rassegnato all’insipidità di un azzurro sbiadito ai suoi occhi.
«Mista...» inizia, poi scuote la testa per scacciare il sapore nostalgico del cognome con cui non lo appellava da chissà quanto «Guido, guardami».
Stavolta la risposta non si fa attendere e gli si stringe il petto davanti l’espressione ancora lasciva ma velata di perplessità dell’altro. Trema appena a quell’occhiata intensa, che non ha mai davvero avuto bisogno di ammissioni per capire.
Vorrebbe farsi avvolgere da tutto il nero delle iridi del sottoposto, perché quell’oscurità lo ha protetto e scaldato più di qualsiasi luce lui stesso sia mai riuscito a emanare. Tuttavia non riesce a dire nulla, incatenato da una negatività su cui preferirebbe non indagare oltre.
Sorprendentemente, ma neanche poi così tanto, a pensarci, è Guido a prendere parola per primo, il respiro meno frammentario dopo qualche attimo di silenzio.
«Stamattina, quando sei tornato, mi è sembrato… atipico da parte tua. Voglio dire, mi hai detto di dover fare quel viaggio importantissimo e tutto il resto, e che io dovevo rimanere qui in tua vece, ad aspettare, perciò credevo...» esita un istante, poi inspira a fondo ma non più a causa dell’affanno precedente; a vederlo, dà l’idea di star lottando contro un boccone amaro affatto intenzionato a lasciarsi digerire «Ho avuto paura di non vederti per un bel po’».
Il cuore di Giorno si contrae e deve trattenersi con forza per non lasciar trapelare una smorfia sofferente né per confessare quella sensazione condivisa, della stessa imperante accezione del terrore. Il medesimo brivido che lo ha colto impreparato quando si è accorto, osservando la grande vetrata alle spalle dell’uomo, dell’arrivo sempre più prematuro del dì nonostante la notte fosse calata da appena un paio d’ore.
Non è ingenuo abbastanza da sperare Guido non se ne sia accorto.
«Non so cosa stia succedendo» ammette, il tono sconfitto quasi riconosca in quella stranezza una sua colpa.
Il toscano fa spallucce, strofinando piano la punta del naso contro quella più fredda del Boss. Gli piacerebbe chiamare i Pistols e dirgli che è quasi ora di pranzo, subito però si ricorda di quanto probabile sia si faccia di nuovo buio prima di aver terminato di preparagli da mangiare e finirebbero con l’indispettirsi. N.5 probabilmente piangerebbe.
Cerca di girarsi sul fianco per guardarlo meglio, intenzionato a raccontargli cose di cui davvero non importa discutere, eppure sono quelle frivolezze di cui necessitano per ridare una parvenza di normalità a quello scontro tra sole e stelle.
Al primo tentativo di manovra gli tocca bloccarsi e si stupisce di se stesso per essersi dimenticato di un simile particolare.
«Non per metterti fretta, ma hai due dita su per il mio retto e dopo un po’ comincia a diventare strano».
Giorno sbatte le ciglia rapido, stralunato, tanto simili alle ali di una farfalla da far domandare a Guido se, nella stranezza di quel fenomeno in cui si ritrovano incastrati, tal gesto non abbia provocato sul serio un uragano da qualche parte.
La risata del capo di Passione arriva prima della sua, scoppia fragorosa e instancabilmente affascinante, alla stregua del rombare di un tuono. Anche lui stava per ridere della propria assurdità, benché di origine diversa, e gli sarebbe piaciuto farlo col ragazzo che lo ha tenuto su con quella speranza accecante da cui tuttora è avvolto, pur non rendendosene conto. Per qualche motivo ha però sentito fosse più giusto essere spettatore di quel momento, non protagonista.
Sussulta appena quando Giorno ritrae le dita con delicatezza innata, una premura non indispensabile e tuttavia una dimostrazione preziosa. Sta per ringraziarlo, per niente in particolare, sente solo di doverlo fare, quando due palmi caldi e accoglienti gli coprono le guance, i pollici a carezzare con tenerezza i suoi zigomi.
«Sei il mio coraggio» confessa Giorno, la voce ferma e decisa di chi dichiara una verità insindacabile totalmente in contrasto col tremore delle mani, o forse è Guido a vibrare d’emozione sotto la forza di quelle parole, coinvolgendo entrambi «Ti amo così tanto e in un modo che ancora non riesco a esprimere, nemmeno dopo tutti questi anni».
Mista afferra una di quelle mani e se la stringe al petto, dove il battito va più in fretta della mente frastornata, ma allo stesso passo celere di quello del compagno.
«Sei la mia luce» ricambia mentre tenta di stiracchiare le labbra in un sorriso convinto, rassicurante, perché non è il momento di essere triste, in una camera in cui non è più possibile distinguere l’alba dal tramonto.
«Mi va benissimo tu non sappia esprimerlo a parole,» bacia una nocca, fuori è notte «non impararlo mai,» un’altra ancora quando è già mattina, «non se devi dirmelo con quella faccia».
Non se devi dirmelo come fosse un addio.
Le ombre nascono e muoiono incontrollate sulle pareti circostanti, il viso di Giorno si oscura e rischiara ed è come se lo osservasse davvero per la prima volta, ogni dettaglio messo continuamente in risalto, così bello da sembrare surreale averlo davanti, talmente vicino e innamorato di quello che sono tanto quanto lo è Guido stesso.
Il sorriso è sincero e sentito, adesso: anche se il tempo dovesse andare di corsa, loro correrebbero più veloce.

Se oggi fosse il tuo ultimo giorno

«Beh, perché mi fissi? Ci stai provando?».
Giorno spinge la fronte contro la sua, le labbra piegate all’insù suo malgrado «Ne ho bisogno?» provoca, poi deglutisce, tutti e due serrano le palpebre per il bagliore ormai instabile che scoppia all’esterno, «Perché voglio rendere impossibile dimenticare, qualsiasi cosa venga dopo».

metteresti il tuo segno su un cuore infranto ora riparato?

Guido sospira teatralmente, l’esasperazione ostentata, infine afferma con fare ovvio «Come se te lo permettessi».

 

 

 

 

 

Il nuovo vicino di casa parla giapponese, questa è la prima informazione che Mista registra. Era convinto fossero tutti pallidini e con capelli e occhi scuri, invece il tizio che gli sta porgendo dei dolcetti – aveva detto tango? – di cortesia ha sì un caschetto scuro ma è tutto fuorché pallidino e uno sguardo così verde riesce ad associarlo a malapena a Trish.
Poco male, si dice, aprendo la scatola e tirando fuori una pallina colorata. Anch’essa verde. Una persecuzione. Lo sconosciuto, intanto, pare piuttosto interessato al responso perché continua a guardarlo come se da quell’assaggio dipendesse la sua vita. A Guido non piace essere fissato mentre mangia, però ha la sensazione che non se lo toglierebbe di torno fino ad aver soddisfatto la sua curiosità. Magari teme possa gettarli una volta chiusa la porta? Maledetto asiatico prevenuto.
Manda giù un dolcetto in un sol boccone, il pomo d’Adamo scatta alla deglutizione forzata e si dà un colpo sul petto per evitare gli si trasferisca nella trachea, poi torna a guardare l’inquilino della porta accanto.
Forse il tango gli è davvero andato di traverso, è l’unica spiegazione alla sensazione di avere qualcosa a pressare sul petto che ha provato dopo aver incontrato l’espressione dello straniero. O magari è il principio di un disturbo gastrico. In ogni caso è fin troppo opprimente per i suoi gusti, gli viene quasi da piangere tanta è la nausea in aumento e dovrebbe chiedere al tizio cosa gli abbia offerto con precisione. Anzi, manderà lui a comprargli ogni tipo di gastroprotettore presente sul mercato.
Sta assolutamente per farlo, Guido, tutto concentrato su quelle maledettissime labbra a forma di cuore che si sono schiuse per lo stupore. Non ha mai visto qualcuno inghiottire? Nei fumetti i giapponesi sono sempre educati al limite del maniacale, proprio a lui doveva capitare quello screanzato?
Non gli piacciono quegli occhi e inizia quasi a sentir freddo, lì sul pianerottolo. Vorrebbe sbattergli la porta in faccia, mandarlo a quel paese per avergli quasi certamente provocato un’intossicazione, più lo guarda più gli fa male lo stomaco. Poggia la mano sulla porta proprio con quell’intento, deciso a spingerla e lasciare fuori quel fastidio imbambolato, perché c’è per forza qualcosa che non va. Non riesce a esercitare la pressione sufficiente sulla superficie liscia, bloccato da una debolezza incomprensibile eppure tutt’altro che fisica.
«Ma porca… Come cacchio ci parlo con te?» sbotta a denti stretti, calciando l’angolo della parete. Si sfila il berretto di lana per grattarsi la nuca, innervosito dall’incapacità inconcepibile di troncarla lì. Dopodiché suggerisce, per nulla convinto: «Eh… english?».
Il ragazzo annuisce, finalmente chiudendo la bocca e Guido si darebbe un pugno per averla fissata ancora un secondo di troppo.
Inspira a pieni polmoni, prima di tentare con la cadenza più basilare che avrebbe mai potuto snocciolare «Come ti- no, volevo dire, what’s your name?».
«Posso parlare in italiano, sono qui per questo».
Adesso, il pugno lo darebbe volentieri a lui. Medita anche di ingoiare per intero il cappellino, giusto per accertarsi di riuscire a soffocare l’aumentare di quella sensazione scomoda e sempre più indisponente sotto lo sterno che si è scatenata appena il vicino ha parlato – e in un italiano molto più fluido e corretto del suo inglese a malapena masticato.
Si passa una mano sulla faccia, stropicciando gli occhi con esasperazione «Ok, allora, com’è che ti chiami?».
A quel punto nemmeno gli importa davvero, è solo una questione di principio. L’altro evidentemente apprezza, però, e per una ragione che non è in grado di comprendere, perché scioglie i lineamenti fino ad allora impassibili, liberando un sorriso leggero e appena percettibile ma dolce e familiare; Guido fatica a soffermarsi su quest’ultimo aggettivo, in teoria tutt’altro che associabile a un volto sconosciuto, eppure adesso le fitte allo stomaco hanno quasi un che di piacevole.

Sai che non è mai tardi per sparare alle stelle

«Haruno Shiobana,» si presenta, ogni lettera sboccia dalle labbra piene e lo avvolgono, come in un abbraccio caldo e stretto, mentre il giapponese conclude, dolorosamente confortevole: «hajimemashite, Guido».

indipendentemente da chi sei

«Haruno» ripete con un filo di voce, frastornato, italianizzando la pronuncia.
Haruno annuisce, di nuovo, senza smettere di sorridere prima di inchinarsi e voltarsi verso il proprio appartamento.

Quindi fa tutto quello che occorre

Mista rimane a guardarlo andarsene per un istante, incapace di ignorare il presentimento di star sbagliando qualcosa ed è per questo che esce di casa a piedi scalzi, incurante di qualsiasi cosa possa pestare in quel momento. E quando lo afferra per il gomito dimentico della delicatezza, il cuore rimbomba così forte tra le orecchie da non riuscire a sentirsi quando propone senza riflettere:
«Mangia i tango con me».
 

perché non puoi tornare indietro in questa vita.




 


Hello there
sono fuori programma, oltre che allenamento e avrei altro da pubblicare ma purtroppo devo posticipare.  
Questa qui non era in programma né è nata con l’intenzione di essere pubblicata, ed è forse il motivo per cui sono riuscita a scriverla in meno di dieci ore, attualmente per me è un record. Metabolizzato il finale del manga (col contributo di un individuo sadico non indifferente) e vista una fanart GioMis in proposito all’accelerato succedersi di giorno e notte, ho deciso di dedicar loro un momento proprio in quegli ultimi istanti, prima che si crei l’altro universo (per questo Giorno, alla fine, si presenta col nome in giapponese e non è biondo, né lui e Guido si sono mai visti prima.  Per licenza poetica mi sono permessa di mantenere un po’ le loro anime quelle che erano prima che il potere di Pucci si attivasse, una sorta di principio di reincarnazione, dunque sembra si riconoscano in qualche modo, anche se le persone sono a tutti gli effetti totalmente estranee e nate e cresciute in circostanze differenti);
Il titolo &  le frasi in corsivo a destra sono tratte da If Today Was Your Last Day dei Nickelback;
• I tango, per amor di precisione, sono i dango (🍡 https://it.wikipedia.org/wiki/Dango) solo che Guido li pronuncia a modo suo;
Tecnicamente è un what if, “se Giorno si fosse trovato in Italia e non in Florida alla fine di tutto” ma poi mi è venuto il dubbio che in SO non sia certo al 100% si trovi a Orlando bensì una supposizione narrativa, per cui lo lascio detto qui sotto.
Ringrazio come sempre
Elisa per betaggio, supporto & sostegno (e per le lacrime, soprattutto 
e chiunque avrà piacere di passare qui a leggere. ^^
Un bacio! 
 

 

   
 
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