Era
una fredda sera d’inverno quando un uomo
dall’addome possente e i capelli scuri
e arruffati irruppe nella stanza che gli era stata affidata da quando
risiedeva
al palazzo reale. I due uomini, insieme agli altri disertori ateniesi,
si erano
garantiti vitto, alloggio e protezione grazie ad informazioni e
consigli
strategici a favore dell’armata spartana.
Dante
non avrebbe mai voluto fare del male al suo popolo; avendo accettato di
aiutare
il suo amico,
però, non aveva avuto scelta ed in
qualche modo aveva indirettamente acconsentito a far morire di fame gli
abitanti di Atene.
L’uomo,
che nonostante l’età pareva ancora agli albori
della giovinezza, gli si
avvicinò, prendendo posto sul letto accanto a lui. Dante lo
osservò perplesso,
potendo solamente immaginare l’ultima bravata del compagno di
avventure.
Tuttavia decise che, qualsiasi oltraggio avesse commesso, lui gli
sarebbe rimasto
accanto.
Alcibiade
era un abilissimo oratore, in grado di ammaliare e convincere anche lo
stratega
più diffidente. Si trattava però anche di un
individuo meschino, pronto a
tradire chiunque pur di salvaguardare i propri interessi. Nonostante
ciò, era
riuscito a convincere il re di Sparta a dargli credito e Dante
riconobbe che
senza le sue doti, lui stesso e gli altri probabilmente in
quell’istante non si
sarebbero più nemmeno trovati al mondo.
Il
ragazzo lo guardò crucciato: «Dobbiamo
andarcene». Dante ebbe un sussulto, ma l’altro
lo precedette: «Re Agide ce l’ha con me, non
c’è più tempo, vogliono farmi
fuori».
Prima
di prendere la porta, gli intimò di raccogliere i propri
averi al più presto e
portarsi dietro anche tutto il necessario per combattere, in caso ce ne
fosse
stato bisogno.
La
pace era stata intensa, ma come tutte le cose positive, non era durata
più di
un battito d’ali.
˜
Entrarono
in casa e Dante si accomodò su uno sgabello di legno,
intagliato da lui stesso tempo
addietro, impugnando del pane ormai secco e versando un po’
di latte in una
ciotola.
La
invitò a prendere posto di fronte a lui, ma alzando lo
sguardo la trovò ancora
immobile innanzi alla porta. Dopo varie sollecitazioni,
l’uomo posò il pane su
un tavolino e si avvicinò alla donna, sollevandole il viso
con delicatezza.
Ebbe
un sussulto quando vide che su un occhio le si erano posate per qualche
ragione
tutte le sfumature di grigio che conosceva e vari graffi recenti
campeggiavano
qua e là sull’intero volto.
Scioccato,
l’uomo prese un panno, lo intinse nella poca acqua fresca
rimasta in casa e
glielo passò sul viso. La ragazza, che fino ad allora aveva
tenuto gli occhi
serrati, li aprì improvvisamente e Dante poté
notare quanto in realtà si fosse ingannato
inizialmente: un mare di sfumature comprese tra un color erba acerbo e
un caldo
color miele spiccava dalle iridi della donna, incorniciate da lunghe
ciglia scure.
La invitò nuovamente a sedersi e le porse il latte fresco
che aveva appena
versato per lei.
«Come
ti chiami?» chiese l’uomo curioso. Lei non rispose,
né bevve ciò che l’uomo le
aveva porto. Alzò uno sguardo interrogativo su di lui, che
si andò presto a
posare di nuovo sulla ciotola.
«Devo
pur chiamarti in qualche modo» aggiunse l’uomo,
cercando disperatamente un modo
per ridurre la tensione. «Sai, tu mi
ricordi…» mormorò, ma venne interrotto
da
un crepitio improvviso e insistente: stavano bussando alla porta e
Dante capì
che probabilmente si trattava di qualcuno interessato a qualche sua
creazione.
«Mangia»
le suggerì indicando il cibo, lasciandosela poi alle spalle.
˜
Vagava
solo per le strade della città, non sapeva dove andare e
aveva paura, si trovava
in territorio nemico e aveva perso di punto in bianco ogni tipo di
protezione.
Alcibiade
si era dileguato insieme agli altri e una volta usciti dal palazzo si
erano
divisi senza troppi convenevoli, intenzionati a disperdersi sul
territorio peloponnesiaco
come tanti piccoli ragni appena nati. Dante era furioso, non avrebbe
mai
perdonato il suo amico per averlo messo in quella situazione, si era
comportato
come un vigliacco e un approfittatore come lo era stato in patria,
interessato
solamente a salvare la propria pelle.
Era
completamente solo, non aveva provviste e nemmeno armature: aveva
dovuto abbandonare
tutto prima di fuggire, combattendo contro qualche guardia. Era
stremato,
affamato e afflitto.
Non
poteva accarezzare i capelli chiari della madre, che sembravano fili
d’erba
fresca sotto il suo tocco, non poteva nemmeno stringere la sorella, da
sempre
sua fedele compagna di marachelle e racconti notturni. Avrebbe voluto
dire loro
che li amava e che il suo desiderio più ardente era
rivederli, almeno una
volta, ancora una, prima di cadere nel baratro.
Dopo
qualche ora di cammino, ormai lontano dalla vitalità della
città, vide un appezzamento
di terra simile a della sabbia. Sembratogli un luogo tranquillo e
solitario,
prese posto tra i granelli morbidi e sottili che lo accolsero con
calore,
aderendo al suo corpo.
Si
distese con lentezza, privo di qualsiasi altra visuale diversa dal
cielo poco
dopo il tramonto, tinteggiato delle più diverse sfumature di
celeste cosparse
qua e là di ombre dorate. Aveva sempre amato osservare le
tonalità di colori
che la natura può offrire.
Disperdendosi
nei ricordi più dolci, esausto, si addormentò.
Fu
un grido improvviso a svegliarlo, forse di un animale, o il fragore di
un tuono
mandato da Zeus per rammentargli la sua presenza in terra nemica.
Tuttavia,
Dante poteva vedere tanti piccoli barlumi sfavillare nel cielo, con al
centro
la loro madre creatrice, la dea Selene. Inquieto, si mise a sedere
stropicciandosi
gli occhi, mettendo a fuoco il panorama davanti a sé.
Una
ragazzina dal volto giovane e fresco lo osservava con gli occhi
spalancati,
brillanti alla luce notturna. Era accovacciata a pochi metri da lui, il
capo
coperto con del tulle, ma il corpo avvolto in un peplo¹
corto e candido. Dante non aveva dubbi, si trattava di una giovane
spartana.
Si
portò d’istinto una mano dove solitamente teneva
la propria daga, sperando
invano di poterla trovare, ma tastando solamente il tessuto ruvido che
univa i
suoi vestiti.
Lasciò
scivolare lo sguardo sul corpo immobile della ragazza, notando che in
una mano teneva
un oggetto simile ad una lancia. Era piuttosto corta, ma Dante
poté notare
chiaramente la sua punta affilata risplendere alla luce della luna.
L’uomo
si tirò in piedi in uno scatto, temendo il peggio.
Lei
cominciò a correre rapidamente e Dante si rese conto di
quanto la ragazzina
fosse agile e allenata, come si aspettava fosse qualsiasi abitante di
quella
terra maledetta. L’uomo però, di gran lunga
più robusto e temprato della
giovane, la raggiunse con un balzo, sovrastandola.
Col
proprio volto incastrato nel collo della donna, ansimante e
visibilmente
spaventata, Dante poteva sentire il suo odore fresco, come se fosse
stata a
lungo immersa nell’acqua.
La
osservò meglio in viso: aveva l’aspetto di una dea
e se ne sentì subito
attratto. Avrebbe voluto possederla lì, in quel momento, ma
era un uomo
ateniese ed era un uomo perbene. Non avrebbe mai fatto nulla del
genere. I loro
corpi aderivano perfettamente l’uno all’atro,
quando l’uomo si alzò in piedi
con indifferenza, tentando di nascondere la propria eccitazione.
I
loro sguardi si incrociarono per qualche istante, poi il soldato decise
di
rompere il silenzio della notte: «Sai dove posso trovare un
po’ d’acqua?».
Col
volto buio, la ragazza si sistemò i vestiti, che lasciavano
fuoriuscire il suo
seno piccolo e immaturo. «Certo che lo so» rispose
bruscamente, «ma non ho alcuna
intenzione di dirtelo» terminò, allontanandosi un
poco per raccogliere la propria
lancia.
L’uomo
la guardò perplesso. Doveva trovarsi davanti la figlia di un
ricco personaggio
locale, se aveva l’impertinenza di rivolgersi in quel modo.
«Non
è bene che una bambinetta come te se ne vada in giro tutta
sola durante la notte»
ribatté l’uomo con uguale asprezza, «a
disturbare la gente in giro per la
città, per di più» concluse duramente.
La
ragazza si voltò appena:«Non sono affatto una
bambinetta» rispose stizzita, «a me
non interessa la guerra, né il matrimonio con
chicchessia» fece una rapida
pausa, «io sono una donna spartana, sono nata forte e
libera» continuò,
impugnando il giavellotto con fierezza, guardandolo negli occhi.
«La mia
famiglia mi ha già trovato un consorte» volse lo
sguardo alla luna, «ma io non
mi sposerò».
Dante
la osservò pensieroso e confuso. «Gli dei
vorrebbero ti sposassi, in fondo sei
abbastanza grande per farlo» considerò
l’uomo. Lei si volse verso di lui con
uno scatto, puntandogli la lancia al petto con aria
tutt’altro che pacifica.
«Gli
dei ora vogliono che tu venga con me, sporco ateniese»
sibilò. Dante ebbe un sussulto
e il cuore cominciò a battergli forte in petto.
«Muoviti!»
˜
Quando
Dante tornò nell’ingresso di casa si aspettava di
trovarla lì, esattamente
nello stesso posto e nella medesima posizione in cui l’aveva
lasciata.
Quando
capì che non c’era, provò a cercarla
nei campi attorno alla casa, senza però trovare
nulla se non il chiarore sfumato del sole incastrato dietro a una
collina.
Realizzò
di essere genuinamente preoccupato per la sua vita: quella ragazza era
vestita
di stracci e aveva il volto tumefatto, chiunque avrebbe potuto capire
che si
trattasse di una schiava e rapirla o seviziarla ancora.
Tornò in casa e il suo
sguardo si posò accidentalmente sul tavolino, su cui
campeggiava solamente la
ciotola vuota. La donna doveva essersi nutrita e poi essere scappata
mentre lui
si intratteneva con qualche cliente.
Si
diede dello stupido per non aver pensato a una tale
eventualità ed entrando nel
laboratorio prese lo scalpello consumato e si avviò
rapidamente per i campi.
Ormai era sera e il sole era tramontato quasi completamente, ma non
sarebbe
tornato indietro.
Avrebbe
ritrovato quella donna e l’avrebbe portata a casa salva,
sana, viva.
Attraversò
i prati lucenti della notte, corse su per la collina raggiungendo
l’agorà ormai
deserta, inoltrandosi nella parte opposta, scoprendo una zona della
polis in
cui non si era mai addentrato.
Si
imbatté in un teatro anonimo circondato da un ampio terreno
circolare, fino ad
arrivare a un fitto bosco. Poteva sentire la terra bagnata gracchiare
sotto i
suoi piedi, accompagnata da altri rumori di fondo. Era cosciente di
correre
forse un pericolo, ma tentò di giustificarsi con il pensiero
che quella
ragazza, che aveva comprato solo qualche ora prima, fosse in condizioni
peggiori.
Ciò
gli infondeva una qualche sorta di coraggio, spronandolo a spingersi
oltre, a
superare il bosco ed i propri limiti, per introdursi in territori
sconosciuti e
lontani da casa.
Raggiunse
uno spiazzo sterrato, circondato da colonne di pietra malandate e
debolmente
illuminato dal chiarore della luna che fuoriusciva dalle nubi.
Sentì un rumore
di passi scalpitanti sul terreno, parevano di un cavallo sperduto o
forse
qualcuno che si avvicinava minaccioso alle sue spalle.
Si
voltò, ma vide solamente oscurità. Fu in quel
momento che notò una figura nera
tra i pilastri, che sembrava sistemarsi quello che doveva essere un
peplo: si
trattava senz’altro di una donna, la luce della luna ne
tracciava le forme
delicate, ne illuminava le gambe quasi completamente scoperte e uno dei
seni
che fuoriusciva dal tessuto, piccolo e tondo.
Poi
la vide correre veloce, le gambe agili fluttuanti nell’aria.
Dante si sarebbe
quasi aspettato di vederla librarsi nel cielo. Si avvicinò,
cercando di
scoprire chi fosse quella donna misteriosa che si affaticava con tale
fervore
durante la notte.
Improvvisamente
la figura si fermò per riprendere fiato, sistemandosi
nuovamente il vestito,
coprendosi il seno. Poi l’uomo la perse di vista, le tenebre
sembravano averla
inghiottita fino a quando non rivide una sagoma fluttuare
nell’aria per qualche
istante, per poi ricadere al suolo esausta. La scena si
ripeté per qualche
minuto, lasciando Dante estremamente ammaliato: si trattava certamente
di
qualcuno istruito ad un intenso allenamento fisico.
Forse
é una donna spartana, rifletté, conoscendo la
dura educazione a cui erano
sottoposti gli abitanti di quella terra. Riuscì a
nascondersi dietro una
colonna alle spalle della giovane senza che lei lo notasse, mentre
correva
disperatamente per poi schiantarsi al suolo.
Il
seno fluttuava libero nell’aria e Dante poteva quasi
immaginarsi il capezzolo
turgido irrigidirsi sotto gli sprazzi di luce lunare e il sudore
imperlare la
sua stessa schiena, inumidendo il tessuto sulla spalla sinistra.
Immerso in
questi pensieri soavi, lasciò che lo scalpello gli
scivolasse di mano,
provocando un rumore fugace ma assordante nel silenzio spezzato
solamente dai
passi snodati dell’atleta. La donna si arrestò con
uno scatto, stanca e vigile.
Prese da terra un oggetto sottile, sulla cui sommità Dante
poteva facilmente
immaginarsi una punta acuminata.
«Chi
c’é?» squittì lei con voce
allarmata, voltandosi nella direzione dell’uomo. La
luce della luna illuminò il suo volto come un fulmine
illumina il firmamento.
Dante
non riuscì a reprimere un grido di stupore. La vide
avvicinarsi minacciosa,
l’oggetto in mano ed il passo spedito. Chiuse gli occhi,
rannicchiandosi dietro
la colonna, senza accorgersi che ormai la donna lo aveva scoperto.
«Tu!»
sibilò indignata puntandogli un dito contro, «hai
interrotto il mio
allenamento!».
La
giovane si ritrovò davanti un incendio di capelli rossastri
come le ferite sul
suo viso, accompagnati da due sconcertati occhi color ambra.
Sbalordito, l’uomo
si irrigidì, senza proferire parola. Lei
ricominciò da dove si era interrotta.
«Per
punizione combatterai con me» disse rivolta a lui, poi la
vide puntare la
lancia nella sua direzione. Erano questi i combattimenti che intendeva?
Ferirlo
a morte?
Dante
chiuse violentemente gli occhi e senza che se ne accorgesse, la lancia
lo
oltrepassò, conficcandosi nel terreno. Vide la donna
esultare. Poi si volse
verso di lui. «Allora, vuoi combattere?».
Lui
non rispose, avvicinandosi con aria irrequieta. Dove erano finiti gli
stracci
di cui era vestita poco prima? E come poteva conoscere quel posto?
Aveva troppe
domande a cui non trovava una risposta, ma fece appena in tempo a
formulare
questo pensiero che un pugno potente lo raggiunse allo stomaco,
facendolo reclinare
su se stesso, inerme.
Poi
un forte dolore lo colpì a una guancia, prima di essere
inghiottito
dall’oscurità.
¹Peplo:
abito
femminile di colore bianco
indossato comunemente dalle donne nell’Antica Grecia.