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Autore: Lamy_    05/08/2019    0 recensioni
Ernest Hemingway ha scritto «l’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto».
Thomas Shelby e Amabel Hamilton sono stati distrutti dalla guerra, da Birmingham, dalle loro stesse menti. L’unico barlume di speranza che dissipa il fumo grigio e tossico di Small Heath è il loro legame. Due anime destinate a ritrovarsi e a lottare insieme.
Un’ombra incombe sul quartiere più malfamato di Birmingham e porta con sé un nemico che è disposto a tutti pur di prevalere. Un nemico che metterà la famiglia Shelby alla prova.
Thomas e Amabel saranno sconfitti o sconfiggeranno?
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Thomas Shelby
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. IL DIAVOLO DI SMALL HEATH

“I am stretched on your grave and I’ll be lie here forever.
[…]  calling out unto the earth
With tears hot and wild
For the loss of the girl that I love.”
(I am stretched on your grave, Kate Rusby)
 
Agosto 1916, Somme (Francia)
Amabel eseguì il consueto giro di visite intorno alle undici di sera per assicurarsi che i soldati stessero bene. Aveva medicato già un paio di ferite, aveva aiutato un soldato a coprirsi e un altro a bere. Si accinse a visitare il paziente ustionato per cambiargli le bende, quindi si sciacquò le mani e si infilò i guanti.  Il sergente Thomas Shelby aprì lentamente gli occhi quando lei lo scrollò per svegliarlo.
“Mi dispiace disturbarvi, ma devo cambiare le bende ora perché oggi pomeriggio non ho fatto in tempo.” Sussurrò Amabel per non svegliare anche gli altri. Tommy si mise seduto digrignando i denti per il dolore, era ricoverato da due settimane e la pelle era ancora infiammata.
“Come vi sentite? L’infermiera mi ha detto che stamattina lamentavate un terribile prurito.”
“Sembrava che la faccia mi andasse a fuoco.” Disse il soldato, la voce roca a causa del fumo che aveva inalato durante l’esplosione.
“Lo so che vi brucia molto la pelle, però dovete ricordare che purtroppo il processo di guarigione è lento. Adesso do un’occhiata per capire le vostre condizioni.”
Amabel con attenzione rimosse le bende che avvolgevano il volto del paziente, muoveva le mani come se si trattasse di un vaso di vetro da preservare. Quando l’ultima garza fu rimossa, la dottoressa trattenne il respiro. La pelle era ancora rossa, purulenta e gonfia. Gli occhi azzurri di Tommy spiccavano in mezzo alle vesciche.
“Sono così brutto?” chiese il soldato con un mezzo sorriso.
“Non siete brutto, siete ustionato. Presto avrò il piacere di vedere il vostro viso. La pelle è lesionata ma sta meglio rispetto a prima. La cura di farmaci sta funzionando.”
Tommy fu scosso da una fitta di dolore quando una lacrima scivolò sulla guancia lesa. Amabel si affrettò ad asciugarla prima che il dolore peggiorasse.
“Non potete piangere. Le lacrime sono salate e vi bruciano. Mi dispiace togliervi anche la possibilità di piangere.”
Amabel cercava di mantenere il sangue freddo ogni volta che svolgeva il suo lavoro, però quel paziente in particolare la faceva vacillare. Erano la sua voce mesta e i suoi occhi azzurri tristi a metterla in soggezione.
“Non è colpa vostra, dottoressa. E’ la guerra che mi ha distrutto.”
Il soldato sussultò quando Amabel gli applicò sul viso una generosa quantità di pomata all’aloe. La dottoressa era delicata ma sicura, spalmava la sostanza in modo da non farlo soffrire troppo. Disinfettò un paio di bende e le avvolse intorno alla testa del soldato per coprire le ustioni, poi si liberò dei guanti e si lavò le mani di nuovo.
“Vi lascio in pace. Riposate, mi raccomando.” Disse Amabel aiutando il soldato a rimettersi a letto. Le dita dell’uomo si serrarono attorno al polso della ragazza obbligandola a restare.
“Potete restare finchè non mi addormento? Vi prego.”
Amabel si sedette sulla sedia accanto al letto, si sfilò le scarpe e distese le gambe sulla coperta. Tirò fuori dalla tasca del camice un piccolo libro con la copertina di pelle rossa.
“Vi posso leggere una poesia, se volete. Di solito io mi addormento leggendo.”
Tommy sfiorò la caviglia della ragazza con la mano e sorrise.
“Non sono il tipo da poesie, ma va bene. Leggetemi le vostre poesie preferite.”
Amabel sfogliò il libro e selezionò le pagine contrassegnate da una piega all’angolo che segnalava i suoi versi favoriti.
“Questa è di Victor Hugo* , e recita: Poso il mio sguardo e la mia anima ovunque. Vorrei posare i miei baci sui tuoi capelli, sulla tua fronte, sui tuoi occhi, sulle tue labbra, ovunque le carezze abbiano libero accesso.”
“Romantica.” Ironizzò Tommy, facendo ridere la dottoressa.
“La prossima è di Goethe *: Da dove siamo nati? Dall’amore. Come saremmo perduti? Senza amore. Cosa ci aiuta a superarci? L’amore. Si può trovare anche l’amore? Con amore. Cosa abbrevia il pianto? L’amore. Cosa deve unirci sempre? L’amore.”
Tommy scorse il sorriso commosso della dottoressa mentre leggeva le poesie, sembrava risucchiata da quelle parole.
“Voi credete nell’amore, dottoressa?”
“Ci provo. – scherzò Amabel – Non so se credo nell’amore, non per il momento. Forse un giorno, quando incontrerò la persona giusta, ci crederò. E voi ci credete?”
“Un tempo ci credevo, poi l’amore è morto e ho smesso di crederci.”
Tommy stava pensando a Greta Jurossi, la sua ragazza, morta pochi mesi prima della partenza per il fronte. Tommy l’aveva assistita tutti i giorni mentre la malattia se la portava via, era rimasto con lei fino al suo ultimo respiro. La guerra gli era sembrata la giusta distrazione, sperava che i rumori degli spari e delle esplosioni avrebbero attutito i pensieri, invece non aveva fatto altro che cadere in un baratro di disperazione senza fine.
“Allora lasciate che io vi stuzzichi con una poesia di Hermann Hesse * che recita: Perché ti amo, di notte son venuto impetuoso e titubante e tu non mi potrai più dimenticare, l’anima tua son venuto a rubare. Ora lei è mia – del tutto mi appartiene nel male e nel bene, dal mio impetuoso e ardito amare nessun angelo ti potrà salvare.”
Tommy rivolse uno sguardo stanco alla dottoressa, il sonno stava per rapirlo.
“Un giorno, dottoressa, un diavolo ruberà la vostra anima e nessun angelo vi salverà.”
 
 
Birmingham, 1924, due settimane dopo (la morte di Grace)
Amabel anni addietro aveva letto diverse opere di Seneca ma, delle tante parole che avevano affollato la sua mente, sei in particolare le erano rimaste impresse: Viviamo tra cose destinate a morire.
E lei la conosceva fin troppo bene, la morte. L’aveva conosciuta per la prima volta quando sua madre, dando alla luce Diana, era morta a causa di complicazioni che i medici non erano stati in grado di arginare. L’aveva conosciuta in Francia, quando centinaia di soldati non tornavano dal campo di battaglia e cadevano a terra mettendo radici come gli alberi. Aveva seppellito talmente tanti soldati che a volte le pareva di essere un becchino anziché un dottore. Aveva incrociato la morte quando suo padre era venuto a mancare all’improvviso lasciando un vuoto immenso. E poi aveva conosciuto la morte solo due settimane prima quando il corpo Grace era stato freddo e privo di vita tra le braccia di Tommy. Amabel e Ada si erano offerte di organizzare il funerale, di comunicare la tragica notizia ai famigliari e di badare a Charlie. Era stata una giornata faticosa, fatta di lacrime, discorsi, piatti e bicchieri vuoti. Tommy dopo la messa era sparito, lontano da tutti e da tutto. Amabel se lo aspettava, ecco perché non lo aveva seguito e lo aveva lasciato libero di superare il dolore a modo suo. Tommy, però, non l’aveva più cercata nei successivi quindici giorni. Polly diceva che si era rifugiato in campagna per elaborare la perdita ma Amabel sapeva che, in realtà, lui stava meditando sulla vendetta. Fatto sta che non gli aveva messo pressione, non lo aveva contatto, non aveva più chiesto di lui. Era tornata a lavorare alla clinica insieme con Ada, anche se il pensiero di quello che era successo incombeva su di loro come una nuvola scura.
Quella sera Amabel era rincasata alle venti, aveva cenato e poi si era messa a letto con un libro a farle compagnia. Fuori pioveva a dirotto, sebbene fosse giugno inoltrato, le finestre erano chiuse e lei se ne stava sotto le coperte. Sussultò quando intorno alle ventidue qualcuno bussò alla porta. Non aspettava nessuno e, considerata l’ora tarda, si preoccupò. Scese in punta di piedi per sbirciare attraverso lo spioncino. Sospirò quando riconobbe Tommy.
“Thomas, stai bene? Entra, dai, fuori diluvia.”
Tommy entrò in casa a testa bassa, i capelli erano bagnati e i vestiti grondavano acqua sul pavimento. Era bianco come un cencio. Quello che attirò l’attenzione di Amabel fu una cesta che l’uomo reggeva in mano.
“Che succede, Thomas?”
“Dobbiamo parlare.” Disse lui, la voce fredda come la lama di un coltello. Amabel strabuzzò gli occhi quando Tommy poggiò la cesta sul tavolo della cucina e la scoperchiò. Il viso paffuto di Charlie spiccava in mezzo al lenzuolo azzurro che lo avvolgeva. Amabel d’istinto gli accarezzò la guancia e il bimbo in risposta arricciò il nasino.
“Ha la febbre? A me non sembra che la temperatura sia alta. Ha vomitato?” domandò Amabel, ritenendo che la ragione di quella visita improvvisa fosse di natura medica.
“No. – disse Tommy – Charlie sta bene. Sono qui per un’altra questione.”
Amabel si strinse nella vestaglia da camera come se volesse proteggersi da lui. Il modo in cui Tommy parlava e si muoveva trasudava una calma apparente, quella stessa che poi si sarebbe tramutata in tempesta.
“D’accordo. Di che si tratta?”
“Devi andartene da Birmingham.” disse Tommy guardandola in faccia senza ritegno.
“Come, scusa? Non capisco.”
“Ho detto che devi andartene da Birmingham. Domani non ti voglio trovare qui.”
Amabel si portò una mano al cuore come se le fosse esploso un proiettile nella gabbia toracica.
“Perché devo andarmene? La clinica …”
“Devi andartene perché te lo dico io. Inoltre, Charlie viene con te.”
Charlie emise un vagito come se volesse partecipare alla conversazione, e Amabel gli fece un mezzo sorriso. Era atroce che una creatura tanto innocente avesse già perso la madre.
“Spiegami che cosa succede, Thomas. Per favore.”
Tommy distolse lo sguardo, non riusciva nemmeno a guardarla senza sentirsi in colpa nei confronti di Grace. Se lui non avesse scelto Amabel, forse Grace sarebbe stata ancora viva e accanto a loro figlio.
“Abbiamo rintracciato Lena a Liverpool e domattina parto per andare a cercarla. Tu e Charlie dovete sparite per evitare che qualcuno venga a farvi del male. Non voglio essere vulnerabile, devo sapere che voi siete al sicuro per affrontare Lena e i suoi scagnozzi. Finn verrà con voi per accertarsi che state bene. Hai un posto dove andare?”
“Tu mi affidi la vita di tuo figlio per uccidere Lena? Hai perso il senno, Thomas.”
“Non sono qui per ascoltare le tue obiezioni. Nulla mi farà cambiare idea. Ho giurato di vendicare la morte di Grace e devo mantenere la promessa. Hai un posto dove andare?”
“Thomas …”
“Smettila di ripetere il mio nome. So come mi chiamo!” Disse Tommy bruscamente. Amabel deglutì per quello scatto di ira, e anche Charlie smise di muoversi nella cesta.
“Sì, ho un posto dove andare.” Disse infine, arrendendosi a quella richiesta. Se lui voleva farsi a pezzi, salvare Charlie era l’unica cosa sensata da fare.
Tommy frugò nella tasca della giacca, tirò fuori un malloppo di banconote tenute da un elastico e lo depose sul tavolo.
“Questi soldi vi basteranno per un bel po’, il tempo necessario per risolvere alcune questioni. Sarà tutto a mie spese. Non voglio sapere dove andate, è meglio che io ne sia all’oscuro nel caso in cui dovessero catturarmi.”
Amabel riconobbe in quella determinazione il soldato che Tommy era stato un tempo, calcolatore e persecutore di una folle causa.
“D’accordo.” Si limitò a dire lei, stanca di opporsi ad un uomo ferito.
“Finn verrà a prendervi alle otto con la roba di Charlie, dopodiché partirete senza perdere tempo. Entro le due di pomeriggio dovrete essere lontani da Birmingham.”
“E chi penserà alla clinica? L’abbiamo appena aperta.”
“Ci pensa Ada alla clinica. Tu devi solo pensare a restare al sicuro con Charlie.”
“Va bene.” disse Amabel, e intanto in lei montava una rabbia che avrebbe voluto sfogare con un urlo. Invece, per quieto vivere e per amore del piccolo Charlie, rimase zitta. Accettò i soldi e li conservò nella borsa, li avrebbe spesi solo se necessario e unicamente per il bambino. Tommy prese in braccio Charlie e gli accarezzò la testa, poi lo abbracciò forte.
“Ora devo andare. Charlie può restare con te stanotte?”
“Ma certo. Mi occupo io di lui.” Rispose Amabel, e Tommy le passò il bambino. Charlie si accoccolò con la guancia sul petto di Amabel, sembrava sereno nonostante tutto.
“Sei l’unica persona di cui mi fido, Bel.”
Lo sguardo di Amabel si addolcì e gli scostò una ciocca di capelli dal viso in modo da vedere i suoi occhi azzurri, tristi e avvelenati. Gli occhi di un soldato maledetto.
“Grazie per la fiducia, Thomas.”
“Ora devo proprio andare, Arthur e Michael mi aspettano.”
Tommy si avviò verso la porta ma Amabel lo agguantò per il bracco facendolo voltare.
“Hai ancora il mio fazzoletto?”
Tommy le mostrò il fazzoletto ricamato che conservava nella tasca.
“Lo porto sempre con me.”
Amabel lo abbracciò e Charlie, che stava in mezzo a loro, emise un suono simile a una risata.
“Sta attento, ti prego.”
Tommy si staccò con espressione sconvolta, detestava gli addii, sebbene fossero temporanei. Stava partendo per l’ennesima guerra, e poco importava che fosse in Francia o in chissà quale parte del mondo, incombeva su di lui il rischio di non ritornare.
“Vi amo.” Sussurrò Tommy, poi diede un bacio in fronte a Charlie e uno ad Amabel. La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo che riecheggiò in tutta la casa. Amabel strinse a sé il bambino.
“Andrà tutto bene, piccolino.”
Il diavolo di Small Heath era pronto per il sangue.
 
 
Una settimana dopo
Exmouth, nella contea di Devon, era una delle cittadine costiere più belle dell’Inghilterra. Amabel aveva ereditato dai suoi genitori una villetta con vista su Sandy Bay, la spiaggia principale della città. Da quando era bambina vi aveva trascorso le vacanze estive, anche dopo la morte della madre, e poi non ci aveva messo più piede da quando era partita per la guerra. Ecco perché ritrovarsi in quella grande casa ora le metteva una certa agitazione. Finn si era sistemato sul divano, mentre lei e Charlie dormivano nella camera padronale, e avevano lasciato una camera libera per l’arrivo di Evelyn, Diana e Bertha. Amabel aveva approfittato per passare del tempo insieme alla sua famiglia, per far svagare Finn e per fare divertire Charlie, sebbene fosse in costante pensiero per Thomas. Si era invischiato in una situazione pericolosa, una che lo avrebbe potuto uccidere, ma prima metteva fine a quella questione e prima c’era la speranza che tornasse tutto alla normalità.
“Sono arrivate!” strillò Finn dal piano di sotto. Amabel si riscosse da quei pensieri, prese Charlie e uscì in veranda. L’autista stava lasciando il vialetto mentre Finn aiutava le nuove arrivate con i bagagli.
“Finn!”
L’attimo dopo il ragazzo si trovava soffocato dalle braccia di Diana. Ricambiò l’abbraccio stando attento a dove metteva le mani, anche perché Bertha lo stava già fissando in cagnesco. La governante odiava quel ragazzo con tutta se stessa.
“Basta così. Vi siete abbracciati fin troppo!” si intromise la donna. Diana si staccò e rise, e Finn sentì il cuore guizzare a quel suono. La risata di Diana lo metteva sempre di buon umore.
“A Exmouth? Andiamo, Bel, potevi fare qualcosa di più che invitarci in questo posto dimenticato da tutti!”
Amabel avrebbe riconosciuto quella voce lamentosa tra mille: Evelyn, con un cappello esageratamente vistoso sul capo, saliva le scale a passo baldanzoso; era teatrale in ogni momento della sua vita.
“Ciao anche te, Evelyn. Già ti lagni? Speravo che mi dessi tregua almeno per un paio di ore.”
“Tregua? Non essere sciocca, è di me che stiamo parlando!”
Le due sorelle si abbracciarono tra le risate, felici di essere insieme. Diana si fiondò letteralmente tra le braccia di Amabel. Rise quando il piedino di Charlie per sbaglio le tirò un calcio sul naso.
“Lui è Charlie, vero? Salve, bel bambolotto!”
Charlie protese le braccia verso Diana con entusiasmo e si produsse in un risolino quando la ragazza lo prese in braccio. Amabel si premurò di aiutare Bertha con le valige, e la domestica si soffermò sul suo viso.
 “Signorina, vi vedo più magra del solito. Avete mangiato ultimamente?”
“Tranquilla, Bertha, sto bene. Sono solo stanca, le ultime due settimane mi hanno sfinito.”
“Posso immaginare. Ora vi occupate anche di un bambino che non è vostro figlio.” disse Bertha gettando un’occhiataccia a Charlie.
“E’ solo un bambino, lui non c’entra niente. Ha perso sua madre e suo padre neanche riesce a guardarlo senza stare male. Dobbiamo incolparlo per il solo fatto di essere nato?”
“Certo che no, signorina. Però ricordate che quel bambino è uno Shelby e lo sarà per sempre. Quelli della sua razza sono destinati a diventare criminali.”
Amabel guardò Charlie tra le braccia di Diana, così piccolo e indifeso, e le si inumidirono gli occhi. Charlie aveva il fato segnato sin dalla nascita, lo attendeva un futuro fatto di sangue e violenza, ma per ora era soltanto una dolce creatura da proteggere.
 
Finn era sopraffatto dalle emozioni tanto da non riuscire ad articolare una frase di senso compiuto. La sabbia si stendeva dorata sotto i suoi piedi, era calda e soffice. Il mare, una tavola azzurra scintillante, spingeva le onde a riva con un piacevole gorgoglio. Era la prima volta che vedeva il mare. Nessuno glielo aveva mai mostrato, nemmeno da bambino, e ora gli sembrava di nascere di nuovo.
“Finn, stai bene?”
La mano di Diana gli toccò la spalla per riportarlo alla realtà.
“Sto alla grande! Non avevo mai visto il mare. Non sapevo nemmeno che la sabbia fosse tanto bollente!”
L’entusiasmo del ragazzo fece sorridere Diana, che si rese conto di quanto fosse fortunata ad essere nata in una famiglia benestante. Gli Shelby, prima di arricchirsi dopo la guerra, avevano sempre vissuto nella miseria, col padre ubriacone e risucchiato da gioco e una povera madre malaticcia.
“L’acqua è ghiacciata in confronto alla sabbia. Vieni!”
Diana lo prese per mano e lo condusse a riva, dopodiché si tolse i sandali e immerse i piedi nell’acqua. Finn la imitò, sollevandosi i calzoni alle caviglie, e trasalì per il freddo che gli lambiva la pelle.
“Avevi ragione, è ghiacciata! Però è una bellissima sensazione!”
Diana intravedeva Amabel e Evelyn sedute su una delle panchine che costeggiavano la spiaggia, la prima cullava Charlie e la seconda leggeva una rivista di moda francese. Bertha era rimasta a casa a preparare il pranzo per il picnic che avevano programmato. Avevano deciso di pranzare nella pineta di Exmouth, un ampio spazio verde ben curato, e Diana già immaginava la felicità di Finn moltiplicarsi.
“Sì, è una sensazione migliore del fumo intossicante di Small Heath.”
Finn sorrise, i raggi del sole danzavano sul suo viso facendo risaltare le lentiggini spruzzate sulle guance. I capelli ricci eran ribelli, una ciocca gli cadeva davanti agli occhi e Diana gliela scostò con delicatezza. Il ragazzo arrossì, non era abituato a quelle attenzioni.
“Grazie.”
“Prego.” Disse la ragazza ridacchiando, era tenero quando si imbarazzava. Finn si mise ad osservare il cielo mentre Diana avanzava nell’acqua fino a bagnarsi le ginocchia. L’orlo del vestito rosa che indossava si bagnò scurendo la stoffa. I capelli erano lunghi e lisci sulle spalle, tendevano al castano chiaro, e svolazzavano intorno a lei come fossero fili colorati.
“Oggi sei molto carina.”
“Ti ringrazio, Finn. Tu sei sempre carino.”
“Ehm … no, sì … cioè, voglio dire che anche tu sei sempre carina. No, non sei carina. Tu sei bellissima, Diana.” Balbettò Finn a fatica, le gote arrossate erano in netto contrasto con il colletto bianco della camicia. Diana si morse l’interno della guancia per l’imbarazzo, nessun ragazzo le aveva mai fatto un simile complimento.
“Senti, Finn, riguardo a quello che mi hai confessato alla festa di inaugurazione …”
“No! – la interruppe il ragazzo – Non devi dire niente. Io mi sono dichiarato solo perché volevo che tu sapessi cosa provo per te, ma non è necessario che tu mi dica qualcosa. Non devo piacerti per forza come tu piaci a me.”
Diana allora gli mise le mani sulle spalle e Finn quasi si spaventò.
“Finn, tu mi piaci. Mi piaci più di un amico.”
“Oh, cazzo! – esclamò Finn, tappandosi la bocca l’attimo dopo – Volevo dire ‘accidenti!’. Sono un disastro, lo dice sempre Arthur.”
Diana rise, era esilarante come il ragazzo cercasse di nascondere le sue origini.
“Posso darti un bacio, Finn?”
Finn non ebbe il tempo di replicare perché le labbra di Diana gli avevano già schioccato un bacio sonoro sulla guancia. Aveva diciannove anni, molte ragazze a Small Heath avevano una cotta per lui, eppure quel semplice bacio gli aveva scombussolato il cervello.
“E’ stato un bel bacio.”
Quando Diana si issò sulle punte per parlargli all’orecchio, Finn avvampò.
“Quello non era un bacio vero. Le signorine perbene non baciano mai sulla bocca i gentiluomini.”
“Ma io non sono un gentiluomo.” Disse Finn, e Diana rise di nuovo.
“Questo vuol dire che i cattivi ragazzi baciano per primi le signorine perbene.”
“Vuoi che io ti baci?”
“Sei proprio un tonto, Finn!”
Diana si mise a correre, schizzandosi l’acqua sul vestito, e Finn la inseguì mentre le loro risate mi mescolavano alla calda brezza estiva. Si rincorsero fino alla panchina, dove iniziava una striscia d’erba ornata da piccoli fiori di camomilla, e si sedettero sulla panchina accanto a quella dove stavano Amabel e Evelyn.
“Bel, - incominciò Diana – Tra due giorni è il tuo compleanno, hai in mente qualcosa di speciale?”
Amabel, che stava allattando Charlie con il biberon, parve rifletterci.
“Non ci ho ancora pensato.”
“Quanti anni compi?” domandò Finn, e fu linciato dallo sguardo di Evelyn.
“Non si chiede l’età ad una donna. Voi zingari non le conoscete proprio le buone maniere!”
“Evelyn! – la rimproverò Diana – Comunque Bel compie ventotto anni.”
 Finn non sembrò essersi offeso, anzi fece spallucce.
“Tu mi insulti per colpa di Michael. Lui ti piaceva, eppure era uno zingaro come me.”
Evelyn spalancò la bocca con l’espressione di un leone che sta per azzannare la preda.
“A me piaceva chi? Quel’infido essere di tuo cugino non mi è mai piaciuto! E non nominare il nome di quella bestia immonda in mia presenza!”
Amabel si mise a ridere quando Evelyn si diresse a passo spedito verso il carretto dei gelati, impettita come suo solito.
“E’ sempre così esagerata!” si lamentò Diana, al che Finn e Amabel scoppiarono a ridere.
 
Due giorni dopo
“Tanti auguri a te! Tanti auguri a te! Tanti auguri, cara Amabel! Tanti auguri a te!”
Applausi e fischi risuonarono intorno ad Amabel, poi fu intrappolata in baci e abbracci.
“Grazie a tutti. E’ stato un bellissimo compleanno!” disse Amabel, dopodiché tagliò la crostata di mele che Bertha aveva preparato. Avevano trascorso la giornata in spiaggia, poi avevano fatto una passeggiata in città e infine avevano cenato in veranda per concludere i festeggiamenti. Evelyn e Diana le avevano regalato un paio di orecchini d’oro a forma di stella, accompagnati da un biglietto scritto da Finn. Amabel si era emozionata nel leggere la grafia disordinata del ragazzo, ma era tanto fiera dei suoi progressi nella scrittura. Bertha, dal canto suo, le aveva ricamato un nuovo fazzoletto di cotone bianco con le sue iniziali in rosso.
“Questo è da parte di Tommy. Lo ha comprato prima di andare a Liverpool.” Disse Finn poggiando un pacchettino blu sul tavolo. Amabel rimase interdetta, non si aspettava di certo un regalo da Tommy. Lo scartò con le mani tremanti e una certa agitazione nelle ossa. Trattenne le lacrime alla vista del libro ‘Il Profeta’, una raccolta di poesie scritte da Khalil Gibran. Alla prima pagina c’era una dedica: Del mio ardito e impetuoso amare nessun angelo ti potrà salvare. Buon compleanno, Bel. Con tutto l’amore, tuo Thomas.
“Il gangster ci sa fare con i regali.” Borbottò Evelyn beccandosi una gomitata da Diana. Amabel accarezzò la copertina del libro con la punta delle dita, quasi se lo immaginava Thomas chino sul foglio a scrivere la dedica. Lei conosceva fin troppo bene quelle parole, erano riprese da un passo della poesia ‘Perché ti amo’ di Hermann Hesse, una delle sue poesie preferite. Quel gesto aveva un significato che solo Amabel poteva capire perché era connesso alla Francia. D’istinto guardò Charlie, e nei suoi occhi azzurri riconobbe quelli del padre. Gli diede un bacino sul pancino e gli fece il solletico, e il bambino ridacchiò.
“Dovremmo andare a letto. Domani è domenica  e alle nove incomincia la messa.” Disse Bertha. La donna stava già raccogliendo i piatti e i bicchieri da lavare, e Diana e Finn l’aiutarono con le posate e i tovaglioli. Evelyn sgattaiolò in camera per evitare di dare una mano, detestava le faccende domestiche sin da bambina.
“Ci penso io alla spazzatura.” Disse Finn, e Bertha lo guardò con fare circospetto. Sospettava qualsiasi cosa il ragazzo dicesse o facesse.
“Mmh, vedi di comportarti bene.”
“Vengo con te!”
Diana lo prese a braccetto e lo trascinò lontano dalla domestica che lo trucidava con gli occhi. Amabel rise scuotendo la testa, Bertha non cambiava mai. Charlie sbadigliò un paio di volte e lei si sedette sulla sedia a dondolo collocata sulla veranda, in passato era appartenuta a sua nonna. Lo avvolse nella copertina bianca e se lo avvicinò al petto, laddove batteva il cuore. In qualità di pediatra sapeva che i bambini si addormentavano più facilmente ascoltando i battiti del cuore della mamma, e lei sperava che Charlie riuscisse ad addormentarsi anche tra le braccia di una donna estranea.
“Siete molto bella, signorina. Sareste una madre eccezionale.” Disse Bertha, e si asciugò gli occhi col grembiule. Amabel sorrise a Charlie e gli diede un leggero bacio sulla fronte.
“Hai sentito, signorino? Sembra proprio che noi due siamo una bella coppia.”
Bertha aggiustò la copertina del bambino in modo da coprirgli le spalle, alla fine anche lei stava cedendo alla sua dolcezza.
“Provate a cantargli una canzone. Vi ricordate quella che vi cantava vostra madre?”
“Sì.”
Bertha lasciò la veranda per darle un po’ di privacy, tornò in cucina per mettere in ordine e cimentarsi in qualche altro dolce per la colazione della domenica.
Amabel avvertì un profondo senso di tristezza invaderla, era come se un velo oscuro si fosse posato su di lei. Era accaduto troppo nell’anno passato, troppo sangue, troppa violenza, troppi morti, e tutto pesava sulle sue spalle come un macigno insormontabile. Le dita di Charlie si schiusero intorno ad una ciocca di capelli di Amabel, sembrava che sorridesse. Amabel prese a dondolarsi sulla sedia mentre canticchiava una vecchia filastrocca.
“Quattro stelline ho visto passare, quattro stelline sull’onda del mare. Una per me, una per te, una la vuole la figlia del re. La quarta stellina, il reuccio cattivo, grida e comanda che la vuole per sé. Ma la stellina si ferma a guardare, poi sorridendo si spegne nel mare *.”
 
Finn richiuse il bidone della spazzatura e si pulì le mani sui pantaloni. Diana stava ammirando il mare che si agitava in distanza, i raggi lunari si riflettevano sulla nera superficie in strisce argentate.
“E’ bellissimo. – disse Finn – A Birmingham ce la sogniamo una vista del genere!”
Diana si accorse che le mani di Finn erano bianche per quanto erano serrate intorno al corrimano delle scale.
“Finn, stai bene?”
“Io … io stavo pensando a quello che mi hai detto due giorni fa in spiaggia. Sul bacio, intendo.”
“E cosa hai pensato?”
“Io sono uno zingaro.”
Diana sussultò come se avesse ricevuto uno schiaffo in faccia. Finn non osava guardarla, restava concentrato sul corrimano.
“Questo cosa c’entra?”
“Evelyn non fa altro che ripeterlo. Dice che sono uno zingaro e criminale, non mi sopporta. Anche Bertha mi odia. Io non vado bene per una ragazza come te.”
“Una ragazza come me?! Finn, ma hai bevuto troppo?”
Diana cercò di avvicinarsi ma Finn indietreggiò, era arrabbiato.
“Tu fai parte dell’alta società, sei ricca, sei istruita e sei bellissima. Io non sono il tipo giusto per te. Forse ti piaccio perché ti attrae il mondo dei criminali, ma ti assicuro che è un brutto mondo.”
Prima che potesse scostarsi ancora, Diana lo agguantò per il colletto della camicia.
“Non hai capito niente, Finn. Tu mi piaci perché sei buono, sei dolce e sensibile. Non mi interessa delle tue origini o della tua famiglia, io conoscono il tuo cuore e so che sei un ragazzo fantastico. Sei vero, al contrario di quei palloni gonfiati dell’alta società.”
Allora successe che Finn baciò Diana. Dapprima la ragazza si irrigidì, poi si abbandonò al bacio. Fu un bacio lento, impacciato, tenero. Quando si staccarono, Finn l’abbracciò affondando il viso nei capelli profumati di Diana.
Dalla veranda Amabel osservava la scena, due ragazzi stavano scoprendo l’amore per la prima volta e lei sorrise divertita. Charlie, intanto, si era addormentato e il suono del suo respiro addolciva quella serata.
 
 
Salve a tutti!
Purtroppo per voi sono tornata con la seconda parte.
Come sempre la storia riprende per sommi capi la serie tv ma cambia gli eventi e la cronologia, e spero che non sia fonte di irritazione.
Ripartiamo dalla morte di Grace e proseguiamo tra le strade di Small Heath con una nuova minaccia che incombe sugli Shelby.
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Alla prossima.
Un bacio.
 
Ps. Le citazioni a inizio capitolo sono riprese dalla colonna sonora della serie tv.
 
*’A Juliette Drouet’, Victor Hugo.
* ‘Da dove siamo nati’, Goethe.
*‘Perché ti amo’, Hermann Hesse.
* E’ una nota filastrocca della buonanotte.

 
  
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