L’Inferno dell’Angelo
Hell
is
empty,
and all
the devils are here.
Si
era svegliata da poco quando un uomo biondo cenere si
presentò davanti alla
porta della sua stanza accompagnato dal medico. Con lo sguardo ancora
appannato,
si mise di fretta a sedere: gli arti erano intorpiditi, forse a causa
della scomoda
posizione in cui aveva passato la notte.
Tentando
di sistemarsi velocemente i capelli, si passò una mano in
mezzo alle ciocche nodose,
optando poi per una modesta coda di cavallo che avrebbe temporaneamente
nascosto il disastro.
«Come
ti senti oggi, Sindy?» le chiese gioviale il dottore,
trascinando rumorosamente
una piccola sedia vicino al letto per l’ospite, invitando
l’uomo ad
accomodarsi. La ragazza fece un debole cenno col capo, come ormai
accadeva ogni
mattina da tre settimane. Nonostante il letto relativamente comodo, la
giovane
accoglieva l’inizio di ogni nuova giornata con un gran mal di
testa, senza
essere in grado di dire se fosse per la quantità di medicine
che ingurgitava o
a causa della vicinanza della sua camera, fortunatamente singola, con
il
reparto maternità.
«Ti
presento il dottor Holm» disse il medico che
l’aveva in cura, un uomo alto
sulla cinquantina, lasciando trasparire una certa urgenza nella voce.
«Forse
è meglio se vi lascio soli» decretò,
prima di prendere la porta e lasciare la
stanza. L’ospite le rivolse un sorriso accennato, tendendole
la mano, che Sindy
trovò inaspettatamente rovente.
«Vorrei
che tu mi spiegassi che cosa ti opprime, Sindy» si fece
improvvisamente serio.
«Perché so bene che c’è
qualcosa che ti tormenta».
La
ragazza lo osservò attentamente: era vero ciò che
dicevano di lui da quelle
parti, nonostante l’età era ancora un uomo
affascinante.
«Lei
è il famoso ciarlatano» lo apostrofò la
ragazza con noncuranza, notando un velo
di sorpresa nello sguardo dell’uomo. Le sopracciglia gli si
aggrottarono per un
istante, ma non si scompose: «Sono uno psichiatra»
dichiarò, osservando i
capelli scuri della ragazza ondeggiare nella maldestra coda che aveva
realizzato.
«Ho avuto il consenso del governo per svolgere la mia
attività e lo sai anche
tu» continuò l’uomo con tono fermo,
senza distogliere lo sguardo dal viso della
giovane.
Sindy
lo guardò sprezzante: «La ringrazio, ma non ho
bisogno che qualcuno mi scavi
nella memoria» dichiarò freddamente, voltandosi
verso la finestra. Non aveva
ancora le forze necessarie per alzarsi e raggiungere quella postazione,
nonostante desiderasse con tutta se stessa guardare oltre. Tutto
ciò che poteva
vedere dal letto erano le fronde verdi di un albero, probabilmente il
più grande
che il giardino ospitasse.
Ogni
volta che lo osservava sentiva una forte necessità di
distendersi sull’erba
fresca primaverile, respirare il suo aroma e ascoltare il cinguettio
degli
uccelli al posto delle grida atroci delle donne pronte a concedere la
vita.
«Per
condannarlo dobbiamo sapere cosa ha fatto, Sindy» disse
duramente lo
specialista, «e se non te lo ricordi bisogna trovare il modo
di fartelo
ricordare» terminò in tono quasi seccato. La donna
incontrò nuovamente quelle
iridi ghiacciate, grandemente in contrasto con il calore della mano.
«Qualsiasi
dettaglio potrebbe essere fondamentale» continuò
l’uomo alzandosi in piedi,
prendendo a vagare per la stanza a testa china.
«Il
mio problema non è l’ipnosi» rispose
Sindy abbassando lo sguardo, schiarendosi
la voce dopo una lunga pausa, per poi continuare: «ma non
sono sicura di voler
ricordare» mormorò posando lo sguardo infuocato su
quello dell’uomo, quasi come
a voler sciogliere quel ghiacciaio negli occhi.
Senza
dire una parola, il dottor Holm la fissò per qualche
istante, poi trascinò la
sedia fino al posto in cui il medico l’aveva presa,
voltandosi verso di lei: «I
ricordi fanno parte di noi, che lo vogliamo oppure no. Senza memoria
siamo solo
delle cellule vaganti» dichiarò in tono profetico,
prima di prendere la porta e
lasciarla nuovamente sola.
˷
Correva
disperatamente da un tempo che le pareva infinito, credeva che il cuore
le
sarebbe presto sbalzato via dal petto e le gambe erano ormai troppo
leggere per
sentirle ancora. Eppure erano lì e la stavano aiutando a
fuggire da quell’uomo,
racimolando la poca energia che le era rimasta in corpo.
Inciampò
nei lacci delle sue deliziose scarpette rosse laccate, le
più eleganti che
possedeva e che indossava solamente in occasione delle rare volte che
usciva
dall’orfanotrofio. Si rialzò in fretta, per poi
ricominciare a correre. Era
troppo buio per vedere dove si stesse dirigendo, ma la luce della luna
che
filtrava dalle fronde degli alberi le fece intendere che aveva appena
raggiunto
il bosco.
Le
faceva male un fianco, sentiva il cuore fuoriuscirle dalla gola e
battere come
un organo separato dal resto del corpo. Lo scalpiccio sotto ai suoi
piedi
diventava sempre più rumoroso man mano che si addentrava
nella selva; scorgeva
a malapena la luna lattea celata dai rami, l’unica a
indicarle la strada più
sicura per fuggire per sempre da quel posto, per potersi salvare.
Esausta,
si accasciò alla corteccia di un albero, sentendola dura e
ruvida sotto la sua
schiena. Vi si accovacciò ai piedi, ricominciando a
respirare regolarmente,
sentendo il cuore tornare alle sue pulsazioni normali. La foresta era
quasi
completamente buia ed era impossibile capire dove si trovasse
esattamente. Decise
che avrebbe aspettato la prima luce dell’alba per fare
qualsiasi cosa:
socchiuse gli occhi, accostando la testa alla parete legnosa del tronco.
Improvvisamente,
sentì qualcosa frusciare dietro di sé, forse
qualche insetto o animale della
foresta.
Il
cuore ricominciò a batterle forte, ma rimase immobile,
rannicchiandosi più che
poté dietro la pianta, trattenendo il respiro.
Con
gli occhi spalancati dalla paura, sentì qualcosa colpirle la
testa, facendole
perdere l’equilibrio, riversandola sul letto di foglie e
frasche.
Tutto
ciò che vide dopo fu buio.
˷
Aveva
ripreso coscienza da una settimana quando Martin venne a farle visita.
Semplicemente
una mattina si volse verso la porta e lo vide fissarla attraverso il
vetro. Lo
aveva riconosciuto subito e non avrebbe mai immaginato di incontrarlo
dopo
tanti anni in simili condizioni.
Martin
entrò con un ampio sorriso stampato in viso, ma rimase
sull’uscio senza osare
avvicinarsi. Sindy notò i suoi muscoli da atleta visibili
anche da sotto il
camice candido.
«Allora
hai realizzato il tuo sogno» gli disse osservandolo
attentamente, notando delle
lievi increspature sulla fronte che non erano presenti nei ricordi che
aveva
conservato di lui.
Martin
fece un cenno col capo, preferendo cambiare argomento di discussione.
«Sono
passato solo per vedere come stavi» sussurrò,
senza smettere di sorriderle. «Ho
molto lavoro da fare».
Sindy
biascicò un «capisco», non potendo fare
a meno di notare l’umore raggiante del
ragazzo di fronte a sé, che ragazzo non era più
da tempo ormai.
Il
giovane che usava rivolgerle dediche piene d’affetto, si era
trasformato in un
uomo maturo ed equilibrato, aveva raggiunto i propri obiettivi e aveva
una
famiglia ad attenderlo a casa ogni sera.
Sindy
lo sapeva bene, ma preferiva ignorarlo per accantonare anche il vuoto
che
quella consapevolezza portava inevitabilmente con sé.
Quando
Martin l’aveva abbandonata sulle scale del suo appartamento,
quel giorno di
giugno non troppo lontano dal suo compleanno, Sindy non aveva provato
altro che
uno squarcio nel cuore.
Qualcuno
aveva stretto la sua vita così forte tra le mani, da
frantumarla irrimediabilmente.
Nonostante
la momentanea confusione, aveva compreso in fretta che la parte
peggiore
sarebbe arrivata dopo, quando la sua assenza sarebbe diventata
incolmabile e l’unica
persona in grado di attenuarla aveva ormai consacrato il proprio cuore
a qualcun
altro.
Martin
le si avvicinò, osservarla in viso; provò
l’impulso di elargirle una carezza,
come faceva sempre quando la ragazza singhiozzava a causa di quel
dolore implacabile
che lui inavvertitamente le procurava.
«Fatti
aiutare, Sindy» mormorò, sinceramente in pena per
lei.
Lei
si voltò verso la finestra, col sospetto che fosse stato
proprio lui a salvarle
la vita. D’istinto si tastò il petto, sentendo
chiaramente un ampio foro sotto
il palmo.
«Quanto
pensi che ci vorrà?» gli chiese
d’improvviso, fermandolo appena prima che il
medico mettesse piede fuori dalla stanza.
Vide
inizialmente un’espressione confusa dipingersi sul suo volto,
poi sembrò comprendere
senza bisogno di ulteriori spiegazioni.
«Almeno
un anno» replicò lui con voce tremante, conoscendo
bene la pena che la ragazza
doveva provare in quel momento.
Mentre
si allontanava, rifletté sulle proprie parole: pareva giunto
il momento anche per
lei, come per ognuno, di sperimentare quella sensazione di fallimento
che si
prova quando i propri sogni vengono d’improvviso infranti.