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Autore: iron_spider    22/08/2019    2 recensioni
"Ho pensato di prendere Wasp, e tu Iron Man,” rivela Ned.
Sono delle spillette d’acciaio, una per ogni Vincitore del Distretto 12. A Peter non piace molto partecipare alla goliardia generale, considerando che Capitol sta letteralmente torturando e uccidendo delle persone rendendo la loro vita un inferno; ma, in segreto, ha un Vincitore preferito. È stato Tony Stark sin da quando ha memoria.
Vorrebbe avere la metà del coraggio che ha lui.
È un eroe. È un eroe.

[Traduzione // HungerGames!AU // Tony&Peter]
Genere: Azione, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2: Spazio vuoto





 
 
“Guarda dove vai.” Le foglie scricchiolano sotto gli stivali di Janet.

“So camminare, Jan.”

“Mi sorprende che le tue gambe funzionino ancora; sei rimasto nella stessa posizione per gli ultimi tre giorni.”

“Non sono il tipo che corre, non… faccio jogging. Non diventerò mai il tuo compagno di corse.”

Tony sa che Janet vorrebbe per lui una vita migliore. Lei sa benissimo che sono in trappola, eppure ci prova ancora. Prova ancora ad avere una vita, prova ancora a trascinarlo fuori, alla luce del sole. Non sa come faccia ad andare avanti, dopo quel che è successo a Hope e Hank. Dopo l’inferno che loro due sono costretti ad affrontare, ogni singolo anno. Lei si alza ogni mattina e va a correre. Corre nel pomeriggio e dopo cena. La spia attraverso le persiane all’una di notte e la vede in salotto, a correre.

Stanno cercando entrambi di scappare, ma in modi molto diversi.

Tony abbassa lo sguardo sul suo palmare mentre camminano, cercando di non prestare orecchio ai camion e ai Pacificatori che monitorano ogni loro dannata mossa. Fissa la foto ormai vecchia di Peter Parker, guarda il filmato di lui che si offre volontario per il proprio amico. Li vede abbracciarsi, vede la presa di coscienza che attraversa il volto del ragazzo mentre viene condotto sul palco.

Tony si sente sul punto di vomitare. Risucchia un respiro e spegne il congegno. Vorrebbe romperlo. Spaccare lo schermo, graffiarlo, spezzarlo in due. Ma ogni volta che rompe un palmare, gliene forniscono un altro. Ogni volta che hackera il mainframe di Capitol, lo scoprono e lo punzecchiano un po’ con un bastone elettrico come punizione.

Magari un giorno si deciderà a nascondere un po’ meglio le proprie tracce online. Cioè quando le scosse elettriche smetteranno di sembrare un castigo meritato.

“Michelle ha un’aria combattiva,” dice Janet, scostandosi i capelli dal viso. “Credo che potrebbe dar filo da torcere a quelli dell’Uno e del Due.”

“Lo spero,” risponde Tony, cercando di non pensarci. Di non pensare a niente di tutto ciò.

Ha bisogno di bere.

Entrano nel Municipio attraverso la porta sul retro, ed è qui che Tony vede May Parker. Le rivolge una seconda occhiata, perché in effetti gli risulta familiare – qualche ricordo sbiadito, uno di quelli che deve aver rinchiuso nei recessi della propria mente – ma non distoglie lo sguardo in tempo e lei lo nota.

È l’ultima cosa di cui ha bisogno. Non ha neanche avuto il tempo di incontrare il ragazzo. Cerca sempre di evitare i familiari.

“Tony,” dice Janet, toccandogli la spalla e presagendo la tempesta in arrivo.

Ma May Parker è più veloce.

Schizza attraverso lo stretto corridoio, verso di lui. Invade il suo spazio personale, e l’unica ad essergli stata vicina ultimamente è Janet. E prima di lei, quasi un anno fa… ma a quello cerca di non pensare. I ricordi sono oscuri, fangosi, perché ha voluto renderli tali.

Gli occhi di May sono arrossati, scie delle lacrime le solcano le guance, ma la presa sul braccio di Tony è salda. C’è qualcosa nel suo modo di fare, una tesa determinazione, e non abbassa lo sguardo. Un Pacificatore sta di guardia alla fine del corridoio, ma non muove un dito.

“Non so se ti ricordi di me,” dice May, con voce bassa e tagliente. “Ma te lo farò ricordare.”

“Signora…” comincia Janet.

“Tony,” dice May, impassibile. “Hai la vita del mio ragazzo tra le mani. Mio nipote. Il mio Peter. E lo so, lo so… so cos’hai passato, so che questi volti, ogni anno, che non… che magari vorresti dimenticarli, che magari credi di… di non poter fare niente per loro, per questi ragazzi, ma Peter… sei stato un eroe per lui dal giorno in cui sei tornato.”

Tony risucchia un respiro, e punta lo sguardo per terra. Si sente una figurina ritagliata nella carta, come se un’altra sua parola potesse spazzarlo via.

“Signora, mi dispiace moltissimo,” dice Janet. “Ma noi…”

“Devo dirglielo,” ribatte May, avvicinandosi ancora. “Peter aveva quattro anni, quando hai vinto i Giochi. Non gli ho permesso di guardarli, ma sai che ci… che ci obbligano a uscire per guardare quella maledetta parata, l’Homecoming, e tu eri… eri il nostro secondo Vincitore nella storia di questo maledetto evento ed è stato… sono sicura che te lo ricordi. Era troppo. Era troppo.”

Lui annuisce, con la gola costretta. “Già,” riesce a dire. “L’ho pensato anch’io.” Quelli sono ricordi di sangue. Pieni di fori di proiettili e unghie e agonia. Sono seghettati, distorti.

“Siamo arrivati presto, praticamente prima di chiunque altro, e i bambini di quattro anni… corrono, corrono ovunque, e Peter… beh, ti ha visto. Prima della cerimonia di presentazione. Li ha visti, dietro al palco, mentre ti picchiavano. Ha visto il sangue, ha visto… in che stato fossi. Sapevo ciò che avevi perso, quello che… che avevano fatto… la voce si era sparsa…”

Tony libera un sospiro e sostiene il suo sguardo. Gli sembra che qualcuno gli stia spaccando il cranio dall’interno. I ricordi vorticano nella sua testa, si riassemblano. Cercano di risalire a galla.

“… ma Peter non lo sapeva. Ha solo… provato empatia. Capisci cosa sto dicendo? Riesci a ricordare?”

Tony batte le palpebre. “Ricordare?”

“Quando la folla è arrivata e tu sei dovuto uscire, avevi l’aria di chi sta per collassare. Come se non fossi nelle condizioni di farcela. E Peter, lui…”

Il ricordo lo colpisce, strisciando fuori da dove l’aveva sepolto.

Avevano ucciso i suoi genitori e Pepper il giorno in cui era tornato nel Distretto Dodici, e in seguito si era sentito un morto vivente. Come se respirare fosse troppo, come se vivere fosse troppo. Dopo ciò che aveva passato, dopo ciò che avevano fatto. Ma era il loro testimonial, e avevano delle aspettative. L’Homecoming era importante, e il suo comportamento non era all’altezza. Non aveva più quel sarcasmo alla Tony Stark, non faceva abbastanza battute, non era abbastanza sicuro di sé… ma lui non aveva più la minima idea di cosa diavolo significasse tutto ciò. Non era più se stesso. La sua vita era a brandelli.

Provavano gusto a pestarlo, e lui glielo lasciava fare.

Ma vedere quella folla, quel giorno, due giorni dopo aver perso tutto… allora era troppo giovane per avere un infarto, ventotto anni, ma aveva pensato di poterne avere uno. Tutto gli era sembrato ovattato, il suo intero corpo lo era, e sapeva che sarebbe stato così per tutta la vita. Il loro scherno, la sua vergogna, il proprio mondo alla deriva.

Poi, quel bambino.

Si era tenuto vicino alla prima fila, nella folla, e si era fatto avanti sgomitando. I Pacificatori non avevano visto alcun pericolo, in un bambino, e questi aveva afferrato la mano di Tony. L’aveva strattonata fino ad ottenere la sua attenzione, e lui si era inginocchiato di riflesso. Il bambino gli aveva toccato la guancia con una manina, e l’aveva guardato come se avesse saputo qualcosa che non avrebbe dovuto sapere, o qualcosa che persino Tony non sapeva ancora. E poi l’aveva circondato con le braccia, stringendolo forte a sé. Abbastanza forte da riportare Tony sulla terra, e da liberare tutto ciò che aveva tentato di sopprimere. Avevano pianto entrambi, e i Pacificatori non avevano fatto nulla per fermarlo. Avevano solo spento le telecamere.

“Ti ricordi,” dice May.

Tony si sente la testa leggera. “Cristo,” esala, serrando gli occhi. “Sì, uh…”

“Sembrava un momento importante,” dice May.

“Signora Parker,” dice una voce, dietro di loro.

“Da allora sei il suo eroe,” continua May, adesso più concitata. “Ogni giorno, tu, Tony Stark, Iron Man. Peter è… è buono, è gentile, ha un cuore più grande di chiunque io abbia mai conosciuto…”

“Signora Parker–”

“Prometti che non lo deluderai,” dice May, e i suoi occhi mandano lampi.

Tony non ama fare promesse, specialmente se non le può mantenere. Delude tutti, delude Janet ogni singolo giorno. Ma quel bambino – se era davvero Peter, se lei non sta mentendo – gli ha dato qualcosa che la maggior parte delle persone non gli danno, che sia per paura, o perché supportano quel maledetto sistema. Gli ha dato un momento.

“Non lo farò,” risponde Tony.

May lo fissa, come se non si aspettasse davvero una risposta.

“Signora Parker,” dice l’uomo, incombendo alle sue spalle. “Ha cinque minuti per salutare suo nipote.”

Lei annuisce, ancora senza girarsi. “Okay,” dice, squadrando Tony da capo a piedi, come se stesse cercando di decidere cosa pensare di lui. Tony sa che ha dei pregiudizi, notizie diffuse dalla gente, voci create da Capitol. Ma adesso, per lei, è qualcun altro. È l’uomo che deve salvare suo nipote.

Sente le spalle incurvarsi sotto il peso delle sue aspettative.

“Okay,” ripete lei, e finalmente si volta, seguendo l’uomo verso la porta in fondo al corridoio. Tony la guarda andarsene e si sente instabile, mentre cerca di ricacciare indietro i ricordi, per evitare che prendano fuoco riducendolo in cenere.

Riesce a intravedere il ragazzo seduto lì quando la porta si apre. È seduto con la testa tra le mani.

“Prossima mossa?” chiede Janet, con voce morbida e una mano sulla sua spalla. “Andiamo al treno?”

A volte li incontrano lì, altre sul treno. Non c’è un protocollo da seguire, non c’è un modo giusto per farlo, perché sono tutti morti. Ogni singolo ragazzo è morto.

Lui ha incontrato Janet sul treno.

“Andiamo,” dice Tony. “Li incontriamo là.”
 
§
 

Peter sa che è lei dal suono dei suoi passi.

“May,” gracchia, troppo spaventato per alzare lo sguardo, troppo spaventato dalla sua rabbia. Ancor più spaventato dalla sua tristezza. Sente la porta chiudersi, sente lei che prende un respiro. “May, mi dispiace.”

“No, no, tesoro,” dice lei, accarezzandogli la schiena non appena si avvicina. “No, non… va tutto bene–”

“Non va tutto bene,” geme Peter, con la testa che gli pulsa per quanto ha pianto da quando l’hanno portato lì. “Io– io non– non potevo permettere che succedesse a lui– non potevo pensarci, volevo solo… sapevo che c’era un solo modo per impedirlo e l’ho– l’ho fatto, non ho pensato, ho solo… parlato, è successo così in fretta–”

“Va tutto bene,” ripete May, posandogli un bacio sulla testa, uno, due, tre volte. Gli stringe le spalle, gli tira indietro i capelli, e lui si scioglie di nuovo in lacrime, perché è finita. È l’ultima volta.

Balza in piedi e la ingloba in un abbraccio. Si sente di nuovo piccolo, anche se è più alto di lei. Si sente come quel bambino orfano che fissava una fotografia sbiadita dei propri genitori, si sente come quel ragazzino delle medie idiota con troppo sporco sulla faccia che pregava di sapere cosa fosse successo a suo zio. La sua vita è stravolta – questa è una prospettiva del tutto nuova, una su cui ha avuto incubi, una per cui ha pregato attivamente affinché non succedesse mai a lui, eppure eccolo qui, a prepararsi per la marcia della morte. È nelle loro grinfie, adesso.

Sarà uno di quei corpi su cui si è sempre fatto troppe domande.

Quasi collassa sotto il peso della sua stessa paura, ma May lo stringe forte.

“Ti voglio bene,” dice lui, con voce tremante. Si avvinghia a lei. “Ti voglio tanto bene.”

Lei si scosta da lui, prendendogli il viso tra le mani. Lo guarda con fermezza. “Ti voglio bene, tesoro. Ma non morirai. Non morirai.”

Peter si sente sprofondare il cuore. “May–”

“Tony Stark. Non ti lascerà morire.”

Peter comprime le labbra e la fissa.

“Non lo permetterà. Non lo farà. Lo so, è stato… un periodo difficile. Per lui, per noi, per il Dodici, e… e per tutta Panem, ma tu… tu sei tu. E non può accadere.”

Peter non sa cosa dire. Sa che si sbaglia, sa che ci vorrebbe un miracolo per sopravvivere a ciò che lo aspetta. Ma non può spezzarle ancor di più il cuore.

Annuisce, posando la fronte contro la sua.

Passano alcuni secondi, poi la porta si apre. È terrorizzato all’idea che stiano venendo a prenderlo, ma il suo cuore si contrae quando vede Ned entrare nella stanza.

“Peter,” singhiozza.

“Ned,” esala lui, e si abbandona contro di lui quando gli si avvicina.

“Non dovevi farlo,” piange Ned, sulla sua spalla. “Non dovevi, non dovevi.”

“Sì, dovevo,” dice Peter, con gli occhi pieni di lacrime, e non sa come sarà in grado di staccarsi da lui.

Ned si scosta, scambia uno sguardo con May. È come se ci fosse una sorta di comunicazione silenziosa tra loro, che Peter non può decifrare, poi lo guardano di nuovo entrambi. May gli prende una mano, racchiudendola dolcemente tra le proprie. Ned gli stringe la spalla.

“Devi vincere,” dice Ned. “Tutto qui.”

Peter scuote la testa, guardandosi le punte dei piedi.

“Gli ho detto che Tony lo aiuterà,” dice May. “E vincerà. Vincerà.”

Peter deglutisce a fatica, e sta sudando, sta entrando nel panico, con la paura gli formicola ovunque. Poi c’è un forte colpo alla porta, e suoi occhi si dilatano. Sente il cuore sul punto di fermarsi, e incontra lo sguardo di Ned. “Ned, devi prenderti cura di lei.”

“Lo farò,” risponde Ned, annuendo rapido.

“Sai quello che succede dopo,” dice Peter, e si avvicina ancor di più a loro quando bussano di nuovo bruscamente alla porta. “Quando, mentre è… è in corso … Ned, sai cos’è successo alla famiglia di Tony. Lo sai.”

“La proteggerò,” dice Ned, stringendo a sé May.

“E io proteggerò lui,” ribatte May, prendendo Ned per mano. “E Tony proteggerà te.”

Peter trema, cercando di tenere a bada il panico, cercando di non pensare all’arena, al momento, il momento che tutti vedranno; lo vedranno rantolare, lottare per un respiro, tossire sangue, lo vedranno, lo vedranno, Tony lo vedrà, sarà un altro dei fallimenti di Tony, un altro tributo morto, un altro spazio vuoto…

La porta si spalanca, e un Pacificatore fa il suo ingresso. Peter risucchia un respiro, con la vista che gli si appanna, e May lo stringe tra lei e Ned.

“Ti voglio bene,” gli dice. “Ti voglio bene, ti voglio bene.”

“Ti voglio bene, Peter,” dice Ned. “Ti voglio bene, amico. Ce la farai, tornerai. Tornerai.”

“Vi voglio bene,” sussurra Peter, serrando con forza gli occhi. “Vi voglio bene, vi voglio bene.”

“È ora di andare,” dice il Pacificatore.

Peter mantiene la presa finché non lo strappano via, trascinandolo lungo il corridoio. Guarda disperatamente oltre la propria spalla, sapendo che questa è l’ultima volta che li vede. “Vi voglio bene,” grida. “Ned, May… vi voglio bene.”

Fanno per rispondere, ma le loro voci vengono soffocate da un altro Pacificatore che chiude la porta.

Due lacrime scorrono sulle guance di Peter, e si affretta ad asciugarle. Solleva lo sguardo e vede Michelle uscire da un’altra stanza, lasciandosi alle spalle una donna e una ragazzina. C’è un’aria spiritata negli occhi di Michelle, che lei maschera all’istante, spingendola da parte quando vede Peter.

“Hammer,” dice il Pacificatore. “Ci pensi tu?”

Peter alza gli occhi, e vede Justin Hammer in piedi accanto alla porta sul retro. Si volta, sollevando le sopracciglia.

“Sono vent’anni che lo faccio, bello, credo di essere in grado di fare due passi per accompagnare i miei nuovi ragazzi alla stazione.”

Il Pacificatore non aggiunge altro, si limita a spingerli bruscamente in avanti, abbastanza forte da farli incespicare entrambi.

“Cristo,” dice Hammer. “Non credono che vi maltratteranno già abbastanza? Eh?” Sfoggia un sorriso, con gli occhi che guizzano tra loro due. “Speriamo che voi due diventiate davvero famosi, poi nessuno potrà toccarvi senza che Capitol si infuri. E quando Capitol si infuria… Non sottovalutate il fatto di diventare i favoriti.”

Nessuno di loro due dice nulla, ma nella testa di Peter balenano talmente tante cose che non riesce a focalizzarne una. Non riesce ancora a credere che stia accadendo. Si sente come se potesse svegliarsi dall’incubo da un momento all’altro.

Hammer schiocca la lingua. “Bene, dovremo lavorare sui tempi di risposta, dovete… ragazzi, dovete fare di meglio.” Si muove verso la porta a vetri. “Andiamo. Seguite moi. Il treno è più bello della maggior parte delle vostre case.”

Volta loro le spalle prima che Peter possa lanciargli un’occhiataccia.

Lo seguono, e Peter pensa di fuggire. Si chiede quanto potrebbe arrivare lontano… è andato nell’Undici in passato, ha girato in lungo e in largo per il distretto senza essere notato, con Ned. Ma le persone conoscono la sua faccia, adesso, visto che quelle maledette Mietiture vengono trasmesse live in ogni distretto e in ogni casa di Capitol. Potrebbe dirigersi verso l’Oceano Atlantico, scoprire cosa ci sia dall’altra parte. Non gliel’hanno mai insegnato, non qui, non in queste scuole, ma Peter sa che Panem non può essere l’unica terra emersa nel mondo. Deve esserci qualcos’altro, un posto dove trattano le persone come… persone.

Pensa di fuggire, ma rimane comunque sui propri passi.

Oltrepassano la porta sul retro, iniziando a scendere le scale, e Michelle si schiarisce la voce.

“Avrei fatto la stessa cosa,” gli dice. “Quello… che hai fatto tu. Offrirti volontario per il tuo migliore amico. Se fosse toccato, uh… a mia sorella.”

Peter la guarda, con la bocca secca. “Quanti anni ha?”

“Tredici,” dice Michelle, con un sorriso piccolo e triste che fa capolino sul suo volto. “Questo era il suo primo anno.”

Peter deglutisce a forza, e solleva lo sguardo per guardare Hammer che cammina con andatura ondeggiante sul marciapiede. La stazione ferroviaria è proprio davanti a loro, e ci sono più Pacificatori di quanti Peter ne abbia mai visti in un posto solo, inclusa la Mietitura.

“Puoi chiamarmi MJ,” dice Michelle. Intreccia le mani di fronte a sé, e lo guarda di sfuggita prima di abbassare di nuovo gli occhi. “E non, uh… non ho intenzione di ucciderti.”

Peter sente un sobbalzo al cuore, ed esala una risata innaturale. “Bene,” risponde. “Perché hai… l’aria di chi potrebbe riuscirci.”

“Che bello vedervi fare amicizia!” esclama Hammer da sopra la propria spalla, fissandoli con un sorrisetto rivoltante. “L’anno scorso, Cristo… non la smettevano un attimo di litigare.”

Peter scuote la testa.

“Carino sentirlo parlare così di due persone morte,” sussurra MJ, e si accosta un poco a Peter mentre camminano.

Mentre salgono sul treno Peter lascia passare per prima MJ, e si volta sulla soglia per lanciare un ultimo sguardo al Dodici. Riesce a sentire i walkie-talkie dei Pacificatori, ma a parte quello c’è silenzio, il vento soffia leggero, gli alberi ondeggiano contro il cielo azzurro e terso.

Si chiede se si ricorderanno di lui.

“Ehi,” lo richiama Hammer, dandogli un colpetto sulla spalla. “Andiamo, stiamo per partire e non è il caso che tu cada. Inoltre, devi incontrare Janet e Tony.”

Peter un po’ si odia per l’ondata di entusiasmo che gli sboccia nel petto, e lascia che Hammer chiuda la porta scorrevole. Poi arriva un Pacificatore, che la sbarra e si posiziona di fronte ad essa. Come se lui potesse anche solo pensare di fare qualcosa.

Sospira e si volta per seguire Hammer.

Ammira Tony Stark da sempre e odia doverlo incontrare così. Come qualcuno marchiato a morte, come un fardello, un obbligo. Qualcuno che non vorrebbe neppure conoscere.

“Il viaggio durerà circa dodici ore, quindi mettetevi comodi, abbiamo tutto il necessario per tenervi occupati.” Hammer dà una pacca sulla spalla a Michelle e li supera, facendo loro strada.

Entrano in quello che sembra un salotto, e Peter non può fare a meno di rimanere a bocca aperta, perché sono nel vagone di un treno, eppure deve valere più della sua intera casa. Candelabri, soffitti di vetro, sedie di velluto. Tappeti egiziani che ha visto solo nei libri illustrati, fiori e decorazioni elaborate su ogni superficie.

Vorrebbe che May potesse vedere tutto ciò. In un contesto che non la spedisse a tutta velocità verso Capitol.

Il treno si mette in moto e sia Peter che MJ perdono l’equilibrio; Hammer ride appena, sostenendosi contro il muro con una mano.

“Già, la prima volta ti prende sempre di sorpresa,” commenta. “Su, i vostri mentori sono nel prossimo vagone. Assieme a… un sacco di cibo.”

Il cuore di Peter riprende a tambureggiare quando Hammer preme il pulsante per aprire la porta. Non riesce a prepararsi come dovrebbe, oggi sono successe troppe cose, queste circostanze sono assolutamente sbagliate, e sente la tentazione di darsi alla fuga e nascondersi dietro una delle sedie di velluto, magari dopo essersi scolato una di quelle panciute bottiglie d’alcool tanto per vedere che succede.

Ma i suoi piedi lo fanno avanzare, e Hammer si fa da parte quando entrano nel nuovo vagone.

Anche questo è stracolmo, e c’è un tavolo da buffet lungo almeno tre metri e mezzo, ma Peter è paralizzato.

Tony Stark e Janet Van Dyne si alzano in piedi, e Peter vede gli occhi di Tony che si concentrano su di lui. Peter l’ha visto solo in foto, e da lontano un paio d’anni fa, ma adesso è qui, di fronte a lui.

È un eroe, piccolo.
Bimbo, non… non sono–

Peter scuote la testa, con il ricordo che sparisce in uno sfrigolio prima che riesca a formarsi del tutto. Qualcosa che non riesce a richiamare alla memoria.

“Jan, signor Stark,” dice Hammer, indirizzando loro un sorriso, che Tony non ricambia. “Questi sono i vostri tributi, uh… Michelle Jones, Peter Parker. Non so se avete visto, ma Peter si è offerto volontario. Quindi abbiamo già una storia. Non è fantastico?”

“Già,” dice Tony. “Davvero fantastico.”

Peter si sente sprofondare.

“Michelle,” dice Janet, facendosi avanti e prendendole le mani. “È bello conoscerti, ma mi dispiace che tu sia qui.”

MJ si limita ad annuire, lanciando una rapida occhiata a Peter. Poi Janet si avvicina a lui, e Peter nota quanto siano dolci i suoi occhi. Gli posa una mano sulla guancia, inclina un poco la testa nel guardarlo.

“Sei stato molto coraggioso,” dice lei. “A fare quello che hai fatto.”

“Gr- grazie,” dice Peter, annuendo. Non si sente affatto coraggioso.

“Piacere di conoscervi entrambi,” dice Tony, sbrigativo, con le mani sui fianchi. Non è una presentazione individuale, ma continua a fissare lui, e Peter non riesce a capire cosa stia pensando. Non ne ha idea. Si sente solo stranamente piccolo di fronte a lui. Come se si trovasse davanti a una creatura mitica la cui presenza occupa metà della stanza.

Tony continua a parlare, gesticolando agitato. “Uh, Hammer, puoi… andartene? Da un’altra parte? Da qualunque altra parte? Questo cibo non è per te, è per loro–”

“Sei esilarante, Tony–”

“Non chiamarmi così,” scatta Tony, trasalendo con una smorfia. “I tuoi amichetti sono un paio di vagoni più giù, forse con loro c’è Wilson, potresti… andare loro incontro? Lasciarci in pace?”

Hammer si volta verso Peter, come se sperasse di trovare sostegno, ma lui distoglie lo sguardo.

“Va bene, Anthony,” risponde quindi. “Mi faccio vivo con voi quattro più tardi.”

Aggira Janet, afferrando qualcosa dal buffet prima di spostarsi nel vagone successivo.

La porta si chiude dietro di lui e torna il silenzio, col treno che sferraglia sui binari.

“Okay,” dice Janet, sfregando le mani tra loro. “Uh, mangiamo qualcosa, va bene?” Posa le mani sulle spalle di MJ, sospingendola. Tony rimane fermo per qualche istante, fissando Peter finché lui non si muove, per poi seguirlo verso il tavolo.

Si riempiono i patti in relativo silenzio, rotto solo da Janet che dice qualcosa di tanto in tanto, e Peter pensa che, anche se ha perso una figlia, si comporta ancora come una madre.

Si trasferiscono al tavolo da pranzo, e quando Peter si guarda alle spalle, sorprende Tony a fissarlo. O meglio, a fissare il suo piatto.

“Sai che puoi prenderne di più, vero?” gli chiede, e nella sua voce non c’è traccia di giudizio, ma una strana delicatezza, come non volesse esporsi. “So che… beh, diciamo che mi ricordo com’è il cibo nel Dodici. Il cibo normale, non quella merda gourmet che spediscono a me e Janet ogni settimana da Capitol.”

Peter solleva appena un angolo della bocca. “Mi ricordo, uh, quando offrivi a tutti, quando non – insomma, prima che ti facessero smettere. Io e May abbiamo mangiato questa specie di… carré di maiale arrosto, o qualcosa del genere, con un sacco di verdure e salse e patate, ed è stato… era… beh, lei ha pianto, questo è certo.”

Tony sorride appena, poi rivolge un’occhiata a Janet. “Sì, stiamo cercando un modo per aggirare le loro restrizioni del cavolo.” Batte la forchetta sul bordo del piatto. “E penso che uh… ci sia effettivamente del carré di maiale arrosto, tra le altre cose là sopra.”

Peter annuisce, e lo segue di nuovo fin là.
 
§
 

Il cervello di Tony sta lavorando in sovraccarico, e il silenzio è un invito a iper-analizzare tutto. Il modo in cui Peter impugna la forchetta, quello in cui la sua palpebra di contrae di tanto in tanto, quello in cui cerca di asciugarsi le lacrime non appena gli si formano agli angoli degli occhi. Mangia come se non avesse mai mangiato in vita sua, e Tony non lo biasima. Gli sembra abbastanza in forma, potrebbe cavarsela in una lotta, ma scaccia via quei pensieri, perché sono dannatamente invadenti. Sono in ballo, ma non del tutto, non ancora. Questo è il limbo. Se mai esiste una pausa, in questo inferno, è il viaggio in treno.

Non riesce a togliersi dalla testa l’espressione di May Parker. Guarda Peter, e pensa a quel bambino, così tanti anni fa. Sei un eroe, aveva detto, vicino al suo orecchio. Peter. Non il bambino. Era Peter.

“Quindi cosa dobbiamo fare?” chiede la ragazza, dopo aver ripulito il piatto. Si poggia al tavolo coi gomiti. “Quando arriveremo nell’arena?”

Il petto di Tony si costringe e i suoi occhi scattano verso Janet.

Lei si inclina in avanti, cercando di imitare la postura di Michelle, ma con una nota di tensione in meno nelle spalle. È brava a fare il suo lavoro, e Tony ritiene che sarebbe anche più brava se non dovesse anche fare da baby-sitter a lui. Non capisce come riesca a separarsi internamente, come riesca a imparare dei dettagli riguardo a queste persone senza che le si conficchino sottopelle, come riesca a non scottarsi sotto la bollente pressione di doverli seguire, con tutte le loro speranze e sogni e peculiarità, ancora sani e salvi e vivi. Tutto ciò lo divora. Non ha fatto a Peter una singola domanda personale e sa già troppo di lui: ricorderà per sempre il modo in cui sbatte le palpebre. Quello in cui si stuzzica le unghie. Quello in cui si scrocchia le nocche, in cui si sfrega l’angolo dell’occhio.

Ha la testa piena di loro ritratti, e cerca di rinchiuderli in una camera oscura. Ma vede ancora i loro occhi. Che lo implorano. Che si appannano, vitrei. Fissi. Morti.

“Beh,” dice Janet. “Abbiamo un mese intero di, uh, allenamenti e attività e… interviste–”

“Lo so,” la interrompe Michelle. “So che faremo tutte quelle stupidaggini, lo so… ma l’arena: è questo di cui voglio parlare.”

“Sì, ne discuteremo,” dice Janet.

“Quando?” chiede Michelle. C’è una breve pausa, e rivolge lo sguardo anche a Tony. “Quando?” chiede di nuovo, dilatando gli occhi, scuotendo la testa. “Non dovremmo passare ogni minuto a parlarne? Perché l’anno scorso, Bucky – era quello con le quote più alte. Sin dall’inizio. Era migliore di chiunque dell’Uno e del Due, e pensavamo… pensavamo che avremmo avuto un nuovo Vincitore nel Dodici, finalmente. Come ha fatto a perdere? Come è potuto succedere?”

Tony si sente raggelare nell’udire quel nome, e si morde il labbro inferiore. Lancia uno sguardo a Peter, e lo vede rigirarsi un acino d’uva tra le dita. “Avremo tutto il tempo che ci serve per prepararvi,” si sente dire. “Riguardo a quello, uh–”

“Adesso, vogliamo che vi riposiate,” interviene Janet. “Sappiamo… che la Mietitura è pesante. Siamo appena partiti, e non vogliamo… sovraccaricarvi di informazioni adesso, perché potreste non ricordarle.”

Michelle sospira, reclinandosi all’indietro sulla sedia, e Tony intuisce che vorrebbe insistere, metterli sotto torchio, urlare e scaraventare oggetti a caso, come ha fatto lui quando è stato mietuto. Ma si rivede anche in Peter, nel suo silenzio, nella sua malinconia, nello shock che trasuda da ogni poro.

Proprio allora, mentre Tony lo sta analizzando, Peter scosta la sedia dal tavolo e si alza.

“Tutto bene?” chiede Tony, rapido, prima di poterci pensare.

Peter poggia delicatamente le dita sul bordo del tavolo, e anche quello sembra un altro tic nervoso. “Qui c’è… insomma, probabilmente sì, è un treno di lusso… uh, c’è un posto dove sdraiarsi? Per dormire, magari.”

“Avete entrambi i vostri vagoni, se volete stare soli,” dice Janet. Incontra lo sguardo di Tony e inclina appena la testa. “Può prendere quello in coda, ma dovrà… passare dove sono Hammer e gli altri–”

“Non fa niente,” dice Peter, e si avvia velocemente verso la porta scorrevole sul retro, premendo il pulsante un paio di volte in modo frenetico per aprirla.

C’è qualche istante di silenzio dopo che se n’è andato, e Tony si sente un fallimento completo. Una parte di lui gli impone di seguirlo, di provare a confortarlo e scoprire di più su di lui. E l’altra parte lo inchioda sul posto, perché si sente già sull’orlo del baratro e sono passate solo alcune ore.

“Conosci… personalmente Peter?” chiede Janet a Michelle, mentre Tony sprofonda di nuovo al suo posto.

“Andiamo alla stessa scuola,” dice Michelle. “Non siamo amici, ma, uh, lo vedo in giro. È carino, è… è un idiota, è un grandissimo idiota.” Scuote la testa, nella direzione in cui è sparito. “Non se lo merita.”

“Nessuno se lo merita,” dice Tony, con un retrogusto amaro in bocca.

 
§

 
“Tony,” lo chiama Janet. “Abbiamo circa dieci minuti. Dovresti andare a svegliarlo prima che lo faccia Hammer.”

Tony si pizzica la radice del naso. Non vuole stare vicino ad Hammer, mai, e una delle piaghe nella sua vita è doverlo vedere per un mese di fila ogni singolo anno. Ma lui è abituato, e il ragazzo no, e trovarsi Hammer davanti non è esattamente un bel risveglio.

Annuisce, si mette in piedi e guarda verso Michelle, raggomitolata su una delle poltrone. “Ci pensi tu a lei?” chiede, già diretto alla porta.

“Ci penso io,” risponde Janet.

Tony si fa largo attraverso quel lusso opulento, prende un paio di sorsi dalla bottiglia di whiskey nel vagone successivo, e afferra una rivista con la faccia di Sue Storm [1] per schermarsi il volto quando varca la soglia del vagone degli stilisti.

Stanno chiacchierando a tutto spiano dei loro piani sbrilluccicanti, ma non sente la voce di Wilson nel coro. Sam non è al loro livello, e Tony ritiene che sia meglio che Peter incontri il suo stilista a Capitol. È dove lui ha incontrato Quill, molti anni fa. Quill, che all’apparenza non sembrava avere alcuna verve creativa. Quill, che era riuscito a sorprenderlo più di una volta.

Tony si chiede ancora se abbiano ucciso anche lui.

“Non pensare che non ti vediamo,” lo canzona Hammer.

“Non so di che parli,” dice Tony, da dietro la sua rivista. Sente Hammer che sbuffa, ma continua a camminare, preme il bottone e getta via la rivista non appena entra nel salotto successivo. Non ha idea del perché abbiano così tanti posti dove sedersi, e sospira tra sé attraversandolo a passo di marcia, dando un colpetto alla bottiglia di champagne vicino alla porta. Supera quello che dovrebbe essere il vagone di Michelle, che evidentemente non ha alcuna intenzione di usarlo, e raggiunge quello di Peter.

Si frena dal fare rumore e si ferma davanti alla porta, premendo il pulsante più piano di quanto abbia fatto finora.

Quando entra, Peter sta avendo un incubo.

Tony ne ha abbastanza da rendersene conto, e osserva il ragazzo stringere la mano attorno al lenzuolo. Gli incubi di Tony lo azzannano, lo triturano e lo sputano via, ed è sempre peggio quando deve svegliarsi da solo. Janet riesce a riscuoterlo: si porta sopra di lui e gli stringe la spalla. Gli ricorda quasi sua madre, quando si concentra abbastanza.

Di solito cerca di non parlare così tanto coi suoi tributi, sul treno. Beve, e sprofonda in poltrone troppo morbide. Janet si occupa di tutto, e lui si sbronza. Cerca di proiettarsi altrove, così da non vederli nei loro momenti più vulnerabili. Quando tutto è ancora nuovo, e terrificante, e hanno ancora un briciolo di speranza.

Si avvicina alla cuccetta e si siede sull’orlo. Janet ha meno incubi di lui, e dei pochi che ha non è quasi mai testimone, quindi si sente fuori posto, a stare dall’altra parte. Sa che i tributi degli scorsi anni hanno avuto degli incubi, ma di solito si tiene a distanza. Ci prova.

Si schiarisce la gola. Non funziona, e il ragazzo continua ad agitarsi. Sembra quasi peggiorare, e Tony allunga una mano, toccandogli la spalla.

“Peter,” lo chiama. Le palpebre di Peter sfarfallano, ma non si sveglia. “Peter, ehi.”

Il ragazzo sussulta, e i suoi occhi si spalancano. Lo mette a fuoco, corrugando la fronte, e la realizzazione di dove sia lo investe a ondate.

Tony sa cosa sta pensando.

“Già,” dice, conciso e pungente. “È ancora tutto vero.”

Peter chiude gli occhi, prende un respiro dal naso e lo rilascia dalla bocca. Tony ritrae la mano, ma continua a starsene seduto lì come un idiota.

“Uh, arriveremo nei prossimi cinque minuti, più o meno,” dice Tony. “Ci sarà un casino alla stazione, con la gente che sbraita e canta, come al solito. È abbastanza difficile da gestire, ma non faremo altro che… farci largo e andare direttamente al Centro Tributi,”

Peter deglutisce a forza e si solleva a sedere. Tony vede qualcosa cadere dalla sua giacca, e fermarsi rotolando di fianco al tappeto.

“Oh, merda,” mormora Peter.

“Faccio io,” dice Tony. Si china in avanti, raccoglie l’oggetto, e si ritrova a fissare il proprio volto. O meglio, il volto che ha costruito, quello che ha creato nel bel mezzo della foresta, mentre una sinfonia di morte risuonava attorno a lui.

Non vede la maschera di Iron Man da molto tempo, e si raddrizza di nuovo sulla sponda del letto, continuando a tenerla in mano.

“Uh, Ned – il mio migliore amico – l’ha presa per me,” dice Peter. “Questa mattina. Lui ne ha una di Wasp.”

Tony la fissa ancora per qualche istante, sentendosi lontano da lì. “Uh, è quasi identica,” commenta, restituendogliela. “C’era un po’ più di rosso, però.”

“Già,” dice Peter, sorridendo tra sé. “Ehm, ho… ho un paio di poster.”

“Ah, merce di contrabbando,” dice Tony, e la sua espressione si intenerisce suo malgrado. “Hai coraggio, ragazzo. C’è gente che li strappa per non finire nei guai.”

“Sì, li strappa e io raccolgo i pezzi e dico che li porterò alla discarica. Solo che la discarica è a casa mia.”

Tony fa un verso nasale e divertito, guardandosi le mani. Il treno si ferma senza scossoni, e solleva gli occhi giusto in tempo per vedere il lampo di paura in quelli di Peter.

“Ricorda, nessuno si aspetta niente da te, stasera,” dice Tony. “Praticamente, andrai dritto filato a letto.”

Peter annuisce, con la leggerezza del momento che svanisce all’istante. Apre rapidamente la sua giacca, e appunta di nuovo la spilla all’interno. Incontra i suoi occhi, e nei suoi c’è così tanta fiducia che Tony si sente quasi svenire. Si schiarisce la gola, alzandosi in piedi.

“Andiamo.”
 
§
 

A Tony non manca mai Capitol. Non si sente a casa nella residenza che gli hanno costruito al Villaggio dei Vincitori nel Dodici, ma qui si sente un reietto, anche se tutti lo amano. Lo amano come si amerebbe un animaletto domestico, e sa che un gran numero di persone non si lascerebbe scappare l’occasione di portarselo a casa e chiuderlo a chiave nelle loro ville.

Stanno guardando Peter nello stesso modo, adesso.

I Pacificatori creano un varco nella folla festante quando scendono dal treno, e Tony abbassa la testa per non vedere i colori sgargianti, i vestiti di satin, i completi glitterati che lo circondano non appena mettono piede a Capitol. Fanno andare avanti Michelle e Janet, e si ritrova a mettere un braccio sulle spalle di Peter, guidandolo. Sa che prima o poi dovrà incoraggiare il ragazzo ad essere più socievole, ma è il primo, maledetto giorno. Può permettersi di ignorarli, se vuole.

Si stanno dirigendo verso la limousine che Capitol ha assegnato al Dodici, e Tony sente qualcuno che strattona Peter via da lui. Alza lo sguardo, e vede un Pacificatore con una mano serrata attorno al polso del ragazzo; Tony scatta, irato, e si frappone a forza tra loro scansando la mano di quello stronzo.

“Ci penso io,” dice, piantandosi di fronte alla maschera scura, ed è molto più basso di quella testa di cazzo, ma ciò non lo fa sentire piccolo. Sa di avere dei problemi, sa che sarebbe a un passo dal lasciarsi morire per strada, se non ci fosse Janet a prendersi cura di lui, ma è dieci volte migliore di questi imbecilli. “Ce la faccio a far salire il mio ragazzino in macchina.”

Aveva appena detto il “mio ragazzino”?

Tony sa di essere una testa calda, e il Pacificatore potrebbe innescare una rissa, se volesse, ma non si pente di essersi fatto avanti. Solleva le sopracciglia nella sua direzione, inclina il capo e lo osserva indietreggiare.

“Due di voi ci hanno già fatto da scorta fin qui. Chi altro vuole unirsi alla festa, eh? Potete venire, ma non avrete un goccio del mio alcool.”

“Tony,” lo chiama Janet, dall’altro lato della limousine.

“Nessun volontario?” chiede Tony, squadrando la moltitudine di Pacificatori che li circondano e li fissano, davanti alla ressa urlante dei fan di Capitol appena oltre le transenne. “Benissimo. Grazie per la chiacchierata, Gonzo.”

Si volta infine verso Peter, e vede che lo fissa ad occhi sbarrati.

“In macchina, signor Stark,” lo incita Janet, con la testa che scompare mentre entra.

“Va bene,” sospira Tony. “Uh, dopo di lei, signor Parker.”

Peter annuisce alla svelta, come se si fosse dimenticato ciò che stava facendo, e Tony apre un po’ di più la portiera per farlo salire. Scivola accanto a lui, e il Pacificatore sbatte la portiera prima che Tony possa afferrarla. Assottiglia gli occhi, incontra lo sguardo di Janet, e la vede scuotere la testa nella sua direzione mentre Hammer e il suo team si fanno largo all’interno, spostandosi al centro della limousine mentre parlottano tra loro.

“Che c’è?” chiede Tony, quando la macchina si mette in moto. Alza lo sguardo verso il divisorio, vedendo le due sagome corpulente oltre il vetro. “Ne ho abbastanza, di loro. Ne ho abbastanza.”

“Non trasciniamoli in una rissa il primo giorno,” dice Janet.

“Che ne dite del terzo?” chiede Michelle. “O il quarto?”

Peter e Tony trattengono entrambi una risatina, e Janet scuote la testa.

“Va bene,” sospira Janet. “Va bene. Due settimane, è il massimo che posso concedervi.”

“Andata,” concorda Tony.

“Se ti butti in una rissa coi Pacificatori,” dice Hammer, “fammelo sapere, così mi prendo un posto in prima fila. Adoro guardarli mentre fanno il loro lavoro.”

“Non di fronte a te,” ribatte Tony, indicandolo a distanza.

C’è un breve silenzio.

“Non devi farlo per me,” dice Peter, piano.

“Tutto ciò che sto facendo è per te,” dice Tony, prima di poter davvero pensare a ciò che sta dicendo.

Janet gli rivolge un’occhiata acuta. Un’occhiata acuta che evita altrettanto acutamente.

In seguito, loro quattro non parlano molto, eccetto per Janet che fa allontanare Michelle dal vino del minibar. Tony osserva Peter che guarda fuori dal finestrino, e l'opulenza di Capitol è sempre spiazzante, agli occhi di chi non l’ha mai vista prima. Lo vede accadere ogni anno, ma per qualche motivo stavolta è peggio.

Parcheggiano fuori dal Centro Tributi, e i finestrini si oscurano mentre aspettano. Peter si agita sul posto, strusciando il pollice sul bordo del vetro, poi si si volta interrogativamente verso Tony.

“Cercano di impedirti di vedere i tuoi avversari prima di domani,” dice Tony. “Dobbiamo sempre andare per ultimi, perché siamo il distretto col numero più alto–”

“Il che significa che avrete l’appartamento col numero più alto,” s’intromette Hammer, con un drink in mano. “Il che significa che vi prendete l’attico.”

Tony si chiede a che diavolo stia pensando il ragazzo, e cerca di ricordare cosa stesse passando per la testa a lui quando il suo accompagnatore gli ha detto lo stesso. Sono successe talmente tante cose, da allora, con un orrore dopo l’altro che s’impilava di fronte a lui, e non riesce a mettersi nei suoi stessi panni di allora. La versione di sé che era arrivata qui è morta quando Rhodey ha esalato il suo ultimo respiro. E quella nuova è stata mutilata in modo irreparabile quando gli hanno mostrato il corpo di Pepper.
 
§

 
Peter suppone che l’attico voglia dire l’ultimo piano. Non ha mai visto dal vivo un grattacielo, solo nei libri su Capitol, o alla televisione quando trasmettono i servizi per il mese degli Hunger Games.

Si sente lontano mille miglia da lì. Come se qualcun altro stesse impugnando le redini e lui fosse soltanto un passeggero, intento ad osservare una successione di eventi impossibile che non potrebbe mai accadere.

Continua a fissare Tony come se fosse un miraggio. Un’illusione di Capitol. E lui non può davvero essersi offerto volontario per gli Hunger Games. Non può davvero stare… interagendo con Tony Stark.

Solo che si dà un pizzicotto sull’interno del braccio, e si ritrova ancora lì.

I Pacificatori aprono le portiere quando arriva il loro turno. Peter quasi inciampa nei suoi stessi piedi mentre inclina all’indietro la testa per guardare a bocca aperta l’edificio, così alto che la cima è avvolta dalle nuvole. Il cielo sta virando verso il violetto; l’arancio e il rosa iniziano a tingerlo a ovest, dove il sole sta tramontando. Tony lo sospinge attraverso le porte girevoli con una mano gentile sulla spalla.

L’interno ha un ampio spazio aperto al centro che risale senza fine verso l’alto, con blu metallici e oro lucido e troppi Pacificatori. Riesce a sentire il clamore lontano del tifo e dei cori, e si chiede se ci sarà altra gente di Capitol ossessionata dai Giochi ad aspettarli.

È come se fossero in attesa di raccogliere piccoli frammenti di lui. Frammenti che non esiteranno a scalfire via, come se stessero scavando in cerca d’oro.

Ma si sente a pezzi anche solo a stare qui.

“Andiamo direttamente all’ascensore,” dice Tony, e Peter annuisce. Sente Janet che parla con Michelle qualche passo più in là, spiegandole tutto ciò che faranno qui. L’allenamento, alcune interviste.

Peter entra nell’ascensore e cerca di scacciare la paura. Si volta a guardare i piani che scorrono oltre la finestra di vetro, e sente un fiotto acido nello stomaco.

“Credo che Sam si farà vivo domani,” dice Janet. “È il tuo stilista.”

“Uno di quelli bravi,” dice Tony.

Peter annuisce e chiude gli occhi, premendo la fronte contro il vetro.

 
§

 
Il loro attico è una delle cose più sfarzose che abbia mai visto in vita sua, e quasi gli dà la nausea. Il soggiorno è più grande del suo intero isolato. Il tavolino da caffè sembra d’oro massiccio.

Avanza spaesato fino a un corridoio sul retro, e Tony apre una porta per lui.

“Questa è la tua stanza,” dice. “Uh, hanno i tuoi dati di gennaio, quindi hai un armadio con dei vestiti su misura, per farti sembrare un vero abitante di Capitol. Niente di troppo kitsch, come quel branco di idioti che hai visto oggi. È più… raffinato, adatto ai tuoi gusti. Si spera.”

Le finestre occupano la metà dei muri e non… non mostrano l’esterno. Si vede uno scenario sottomarino, con pesci che si lasciano dietro scie di bollicine, poi muta in un paesaggio montano, con la neve che fiocca nell’aria. Poi si apre su una foresta immersa nella quiete, con le cicale che cantano e il vento che fa stormire le foglie. Gli ricorda il Distretto Dodici. Gli ricorda May e Ned.

C’è un camino che scoppietta nell’angolo, e un letto enorme grande quanto due di casa sua. Si avvicina all’armadio aperto, facendo scorrere il pollice sulla manica di una giacca rossa. Ci sono più vestiti di quanti ne abbia mai avuti.

Gli pulsa la testa. Si gira, fissando Tony ancora là in piedi.

“È tutto così strano,” commenta, scuotendo la testa.

L’ultimo letto in cui dormirà. Gli ultimi vestiti che indosserà. Tony è una delle ultime persone con cui parlerà, eccetto per coloro che decideranno di morire accanto a lui.

“Sì, uh, è–”

“No, intendo… incontrarti in questo modo,” lo corregge Peter.

Tony reclina di lato la testa e assottiglia gli occhi.

Peter si sente sovraccarico, un po’ fuori di sé, mentre tutto gli si riversa addosso in un sol colpo. “Sei da sempre il mio eroe. Da quando riesco a ricordare. Ho dei ricordi che ti riguardano e che sono sicuro di aver inventato, ma da quando ero piccolo tu… tu ci sei stato. Mia zia May ti rispetta, ed è difficile che lei rispetti qualcuno, e mio zio Ben, lui… beh, posso dirti che giocavamo a Iron Man contro Capitol in giardino, prima che ci ordinassero di smettere.”

Peter sente la propria vista annebbiarsi, e non sa se sta piangendo o se stia per avere un infarto. Un sedicenne può avere un infarto? Forse sì, se lo spediscono agli Hunger Games. Forse in quel caso sì.

“E Ben diceva sempre ‘oh, un giorno lo incontreremo’,” continua. “’Lo incontreremo davvero’, diceva. Ci avremmo provato… e sapevamo che sarebbe stato difficile, sapevamo che… che avevi sofferto molto, e non volevamo infastidirti più di quanto già non facessero. Ma poi lui, uh. Poi, lui–”

Peter fa un passo indietro, coprendosi gli occhi con una mano tremante. Ricorda le ustioni su tutto il corpo di Ben. Quanto aveva sofferto, il modo in cui il suo respiro era diventato un rantolo. Quanto ci aveva messo a morire.

“–e poi, uh, dopo… dopo che se n’è andato, è stato come se ci fosse questo vuoto enorme e rumoroso che mi seguiva ovunque. Uno spazio vuoto nel punto in cui ci sarebbe dovuto essere lui. C’erano domande per cui lui avrebbe avuto delle risposte. Delle abitudini di cui faceva parte. Ma se n’è semplicemente… andato. E ti vedevo di sfuggita ogni anno durante i servizi sugli Hunger Games e odiavo vederti così, odiavo pensare a quello che ti obbligavano a subire, ma più di tutto odiavo il fatto che, se davvero ti avessi incontrato, non ci sarebbe stato lui con me. Non potrà mai, mai…” Si schiarisce la gola e strofina il dorso di una mano sulle guance per asciugarsi le lacrime. “È solo un ricordo, adesso. Uno spazio vuoto.”

Peter sente Tony fare un passo avanti. “Ragazzo–”

“Non voglio essere uno spazio vuoto,” dice Peter, alzando lo sguardo verso di lui e strizzando gli occhi. “Non voglio che… May giri per casa con questo… vuoto assordante dove c’ero io. Non voglio che Ned si sieda accanto a un banco vuoto. E adesso, tu, tu che sei stato il mio eroe sin da quando ero piccolo, non– non voglio essere un vuoto anche per te,” dice Peter, respirando a fatica. “So che ne hai già abbastanza. Dappertutto, intorno a te, tutta quella gente, e non voglio– non voglio essere un’altra ombra. Non voglio essere un altro ragazzino morto.”

Si sente talmente in imbarazzo, ora che l’ha detto, ora che le parole sono appese nell’aria. “So che è egoista,” dice, più piano, chinando il capo. “Per Michelle e tutti gli altri che non se lo meritano…”

Tony si avvicina, allunga una mano e la stringe attorno al suo polso. “Non è egoista,” dice, con fermezza. “Non lo è. Neanche lontanamente.”

Peter si fa silenzioso, e tutto ciò che riesce a sentire è la voce di May.

Tony Stark. Non ti lascerà morire.
È un eroe, piccolo. È un eroe.

Un ricordo che non è sicuro sia reale. E ritorna a galla come un fatto.

“Tu non morirai,” dice Tony. “Non morirai.”

Peter lo fissa e basta. “Io… non ho neanche visto gli altri, ma so di non essere migliore di loro. So che non sono–”

“Non mi importa,” dice Tony, stringendogli ancora il braccio. È stranamente rassicurante. “Tu vincerai.”

Peter fa un verso scettico, e Tony scuote la testa. “Mi dispiace, ragazzo. Mi dispiace che tu non mi creda. Ma è quello che succederà.” Stringe appena il polso di Peter, lo guarda dritto negli occhi, come se stesse cercando di convincerlo del tutto. Poi lo lascia andare, gira i tacchi ed esce dalla stanza, lasciando la porta aperta dietro di sé.
 
§
 

Circa un’ora dopo, Tony sta premendo la fronte contro il muro accanto alla porta della veranda, che non si può aprire, giusto in caso a qualcuno venisse qualche brillante idea. Tutti gli altri sono andati a dormire, ma lui non ci riesce. Nella sua mente ci sono fuoco e fiamme, tuoni e fulmini e vecchie ossa. Lui stesso, che si fa largo tra le ombre.

“Che stai facendo?” chiede Janet, vicino a lui.

Lascia andare un respiro secco attraverso il naso.

“Di nuovo mal di testa da Capitol?” gli chiede. “Troppo Hammer? C’è sempre troppo Hammer. Sam sarà qui domani, sistemerà un po’ di cose.”

“Non è Hammer,” dice Tony. “Me ne sbatto di lui e dei suoi completini rosa shocking.”

“Già, poteva evitare di farci vedere cosa indosserà domani,” dice Janet. “Saremo… saremo comunque con lui.”

Tony scuote la testa, premendola con più forza contro il muro. Ci sono fantasmi ovunque in questo maledetto attico, e Peter ha ragione. Ci sono così tanti vuoti, così tanti spazi vuoti che lo circondano che riesce a malapena a respirare.

Non ne avrà un altro. Non questo.

“Cosa c’è?” chiede Janet, in tono più dolce.

“Lui lo devo salvare, Jan,” dice Tony, senza guardarla, perché ha paura di vedere la sua espressione. “Non posso… non posso lasciar morire Peter Parker.”

Ogni anno, si è tenuto a distanza. Si è dissociato, ha cercato di non conoscerli, li ha trattati come parte del proprio lavoro. Non ha permesso loro di avvicinarsi, o almeno ci ha provato. Ognuno di loro ha inflitto una crepa nel muro che si è costruito, ma ha sempre saputo che non sarebbe mai stato in grado di salvarli. Si è ripetuto che stava semplicemente cercando di essere realista, che erano bloccati in una ruota che avrebbe continuato a girare a dispetto di tutti i suoi sforzi.

Ma adesso vuole rompere la ruota. Perché Peter… Peter è stato dall’altra parte del muro sin dal giorno in cui Tony è tornato a casa anni fa. Il ragazzo non se lo ricorda nemmeno con chiarezza. È lì, dietro lo sguardo di un bambino di quattro anni, come un ricordo diafano che potrebbe essere inventato. May Parker l’ha dissepolto, l’ha illuminato a giorno. Gli ha ricordato della sua importanza. La faccia del ragazzo, adesso e allora, gli fa capire che non può più scappare.

Peter Parker non è come gli altri. Ha avuto un posto nel cuore di Tony per molto più tempo, e l’atrocità di questa situazione gli è più che evidente. Dal modo in cui parla. Da ogni passo che compie. Non è questo il suo posto.

E Tony deve salvarlo.




 
*



Tradotto da: ever in your favor: empty space, di iron_spider da _Lightning_


Note:

[1] Sue Storm: la Donna Invisibile, membro dei Fantastici 4.



Note della traduttrice:

Cari Lettori, 
ringrazio tutti voi che avete letto e che avete mostrato apprezzamento per la traduzione, mi avete davvero resa felicissima <3 Scusate il ritardo delle risposte singole (arriveranno, giuro), ma è un periodo in cui il tempo scarseggia :')
Grazie ancora, e spero che questo capitolo vi piaccia quanto il primo!

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