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Autore: Izumi V    20/09/2019    6 recensioni
Forse lo volevi.
Forse eri solo stanco di resistere.
E forse l'alcol in corpo ti aveva fatto dimenticare, anche solo per qualche ora, che non ne avevi affatto diritto.
"Dopo, dopo..." hai mormorato.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao :) Non so bene da dove sia nata questa cosa. Qualche pensiero sparso, un po' di malinconia e voglia di happy ending, sicuramente tanta nostalgia di loro.
Vi lascio alla lettura, sperando vi sia gradita.
A presto!



 
To C.
 
 
Out of the Sinking*
 
 
 
Era dal disastroso addio al celibato di John che non uscivate insieme a bere. 
Ed era da quella cena, quella a cui Sherlock non si era presentato perché "aveva delle cose" da fare, che non festeggiavate degnamente il tuo compleanno.
Degnamente.
Non si può mai dire che significati possa assumere questa parola quando si esce a bere con Sherlock Holmes.
Ma tu John lo sapevi bene, vero?
Lo sapevi quando hai acconsentito a quella follia, lo sapevi quando hai affidato Rosie a Mrs Hudson dicendole di non aspettarvi sveglia, lo sapevi quando siete usciti insieme dal 221B di Baker Street.
Lo sapevi ma c'era qualcosa, qualcosa che faceva appello alla parte più profonda di te, che ti spingeva inevitabilmente al sì.
Questa volta nessun percorso a ritroso lungo i luoghi degli omicidi, nessuna provetta di 50 centimetri per misurare l'alcol ingerito. Un unico pub per bere e sbronzarsi fino a dimenticare tutto, perfino il motivo per cui vi trovavate lì.
Perché poi?
Eri sospettoso, John Watson. Ma hai spazzato via il dubbio nel momento preciso in cui Sherlock, guardati fisso negli occhi, ti ha detto "Stasera ti porto a bere."
 
Eppure quella domanda si era depositata lo stesso, da qualche parte dentro di te: perché?
Il senso di colpa ti aveva reso diffidente.
Come poteva Sherlock continuare a ignorare? Come poteva non volerti far pagare ogni santo giorno quell'atto abominevole di violenza, quella bassezza cui non credevi nemmeno di poter arrivare?
Ma Sherlock ti aveva detto "Stasera ti porto a bere". Senza alcuna traccia di odio. 
E hai voluto fidarti, avevi bisogno di farlo, benché il tuo cervello fosse spaccato completamente a metà, tra l'istinto di fuggire e quello di rifugiarti, per la seconda volta nella tua vita, tra le sue braccia.
Oh, se solo ci ripensi. Se solo ripensi alla sensazione nuova, inedita, di benessere assoluto che hai provato allora. 
Non te la meritavi.
 
Al pub avete ordinato una birra, è risaputo che si parte sempre dalla gradazione più bassa. E quando sono arrivate, una Guinness per te e una chiara  per lui - "Cos'hai ordinato?" "Boh, chi si ricorda." - lui ti ha guardato da sopra il boccale, ha fatto un mezzo sorriso e ha inclinato il bicchiere verso di te: "Alla tua, John Watson." 
Ecco, a quel brindisi che non faceva che farti vergognare ancora di più di te stesso, non hai trovato risposta migliore che andargli incontro con la tua scura, facendo tintinnare il vetro e sfoderando un ghigno che di allegro aveva ben poco.
Continuavi a pensarlo.
Non ti eri meritato nulla di quel momento perfetto.
"Sherlock..." 
Tanto valeva dirglielo, no? Torniamo a casa, è meglio. Ma lui non te lo ha permesso. E prima che tu potessi aggiungere altro, ha fermato una cameriera e ha chiesto uno scotch per entrambi.
"S-Sei sicuro?"
"E' il tuo compleanno, John! Fai almeno finta che ti importi."
Perché lo fai, continuavi a chiederti. Era forse una forma subdola e sottile di tortura? Una vendetta consumata lentamente, allo scopo di fare più male?
No, nessuna vendetta nei suoi occhi acquamarina, quando scintillavano alle luci basse del locale e a volte sembravano fuggire dal tuo sguardo, quando lo alzavi verso di lui accorgendoti che ti fissava. Non era rabbia, né rancore, anzi.
Qualcosa di molto simile alla timidezza.
Avevate ormai perso il conto dei bicchieri ordinati quando avete deciso di lasciare il pub e tornare a casa. Già era stata un'impresa fermare il taxi.
"Ssshaxi!"
"Taaassy!"
"TAXI!"
 
Per somma grazia, la vostra affittuaria non si era palesata al vostro rientro a casa, ormai verso le tre inoltrate. Non che ci fosse il rischio di una ramanzina, era molto più probabile che vi offrisse un altro bicchierino. E quello no, proprio non lo avreste retto.
Avete risalito le scale ridendo per qualcosa che non ricordavate nemmeno più. Eri abbastanza sicuro che fosse dal viaggio in taxi che stavate ghignando come due ebeti, incapaci di fermarvi e ricominciando più forte ogni volta che uno dei due tentava di dire qualcosa di sensato.
Anziché andare dritto alla propria poltrona, Sherlock si era gettato a peso morto sulla tua.
"Questa è bella..." avevi biascicato in un sorriso ubriaco, osservandolo da sotto le palpebre mezze abbassate. 
Il detective si era stravaccato al meglio che poteva, le lunghe gambe allungate verso l'altra poltrona. Aveva mugugnato qualcosa nella tua direzione, agitando una mano come a dirti "Siediti!"
Ma tu non volevi. Non volevi sederti sulla sua poltrona e sentirla impregnata della sua presenza. Non volevi farlo perché sapevi che non te ne saresti più allontanato. 
Eppure poi hai fatto qualcosa che ti ha smascherato molto più di qualsiasi altro gesto inconsulto. 
Forse lo volevi. 
Forse eri solo stanco di resistere.
E forse l'alcol in corpo ti aveva fatto dimenticare, anche solo per qualche ora, che non ne avevi affatto diritto.
"Dopo, dopo..." hai mormorato a Sherlock, mentre lui ancora gesticolava perché ti sedessi di fronte a lui.
"Dopo," hai ripetuto, chinandoti verso di lui.
Lo hai baciato.
Nel modo più dolce e casto di cui eri capace. Hai premuto le tue labbra contro le sue, inebriandoti del suo profumo dolce, dell'essenza di scotch che ancora gli impregnava la bocca, del suo respiro irregolare a causa dell'ebbrezza. 
Hai inspirato a fondo, perché tutto questo rimanesse dentro di te il più a lungo possibile, e ti sei staccato. 
"Grazie, Sherlock."
L'hai mormorato appena, come se ti vergognassi di ammetterlo, e te ne sei andato, lasciandolo lì sulla tua poltrona. Confuso, stordito, e in una maniera che ancora non era chiara a nessuno dei due, felice. 
Sei andato dritto in camera tua, inciampando lungo le scale, tentando di fare due, tre gradini alla volta per paura che lui ti seguisse. Ma non lo avrebbe fatto, e in realtà lo sapevi. 
Probabilmente fuggivi solo da te stesso, dal fantasma di te che avevi lasciato sulle sue labbra.
 
Non hai dormito, quella notte. O meglio, è stato un continuo cadere nell'incoscienza e ridestarti di soprassalto, con la testa che martellava e la gola secca.
Ogni volta che ti svegliavi era fastidioso renderti conto di quanto fossi sudato. Ti tiravi indietro i capelli fradici, scacciavi via le lenzuola inutili, ti toglievi di dosso uno strato alla volta, fino a che non sei rimasto in mutande, quando già il sole cominciava a fare capolino nel cielo. Ma era ancora presto per alzarti, e tu non ne avevi le forze. 
Ormai eri vecchio per ubriacarti.
Anziché sentire il caldo dentro di te, ti sembrava di esserne avvolto. 
Sono finito all'inferno senza rendermene conto, hai pensato stupidamente, per poi ricordarti che non avevi bisogno che ti ci mandasse qualcuno. Eri bravissimo a creartelo da te, il tuo personalissimo inferno privato. E senza alcuna sbronza. 
Eri in mutande, dentro scottavi, e all'ennesimo risveglio ti sei accorto che non erano gli effetti del doposbornia a spezzare il tuo sonno, ma i sogni di cui esso si riempiva. 
Sognavi lui. Vedevi le sue lunghe gambe stese verso la sua stessa poltrona. Ora nude. Bianche, lisce, perfette. Un accenno di peluria che trovavi quasi infantile. 
Lo vedevi completamente nudo davanti a te, ti si donava con innocenza, chiamando il tuo nome a bassa voce, un sussurro appena udibile. "John... John... sono qui."
E nel tuo sogno non c'era nessun senso di colpa a frenarti, nessuna catena alla tua caviglia dalla pelle già lacera. Ti lasciavi andare perché il desiderio ti consumava da dentro, corrompendoti un pezzetto alla volta fino a demolire ogni tua resistenza. E sembrava tutto maledettamente giusto.
 
Ti sei destato completamente per un barlume di coscienza improvvisamente all'erta. "Sherlock," hai mormorato, col cuore che cominciava a battere all'impazzata. Dov'era lui? Si era svegliato? Ricordava ogni cosa? Ma soprattutto: e adesso?
Giorni, settimane, mesi passati a cercare di buttarsi tutta quella storia alle spalle. A tentare, ora dopo ora, di far tornare tutto alla normalità. Ma qual era, ora, la vostra normalità? Una bambina senza madre di cui prendersi cura, una convivenza che un tempo era la tua unica vita, casi da risolvere in cui non eri sicuro che Sherlock ti volesse.
Non eri sicuro che Sherlock ti volesse più in alcun modo. 
E dopo tutto, come dargli torto? Lo sapevi, eri certo di non meritarti nemmeno di passargli il cappotto.
Ancora una volta hai combinato un casino e a pagarne le conseguenze è lui. L'unica persona che non vorresti mai, mai per nessuna ragione al mondo, ferire in qualsiasi modo. E invece era esattamente ciò che continuavi a fare. Ancora, e ancora, e ancora.
Stupido, inutile, meschino John Watson. 
Sei sceso al piano di sotto ben consapevole di non trovarlo lì. Hai perfino controllato in camera sua, tanto eri sicuro fosse uscito. 
Hai bussato, ma le tue dita stavano già abbassando la maniglia. Ti sei sporto con la testa, volevi costringerti a catturare il meno possibile di quella stanza che non ti apparteneva, e che non ti sarebbe appartenuta mai. 
Semplice e spoglia, eppure tremendamente sua. Hai guardato le pieghe delle lenzuola come ipnotizzato, mentre le tue narici si riempivano della sua fragranza delicata, appena dolce. I tuoi piedi ti hanno condotto all'armadio senza che potessi opporre la minima resistenza.
Lo hai spalancato.
E come un animale sulle tracce della propria preda, disperatamente affamato hai afferrato una delle sue camicie. L'hai accarezzata, l'hai stretta forte tra le dita e l'hai avvicinata al tuo viso.
Ci sei affondato dentro, immergendo il naso nella piega del colletto, nella cucitura sotto l'ascella, sul lembo rigido del polsino. Hai chiuso gli occhi e lo hai sentito lì. Con te, di fianco a te, tra le tue stesse dita. Eri dentro di lui.
Il pensiero ti ha attraversato il cervello come una scarica, hai lasciato cadere la camicia scottato dalla tua stessa avidità. L'hai guardata scivolare a terra in un fruscio, senza battere ciglio, la tua mente già altrove, al passo successivo.
Hai preso il telefono. A chiamare lui non ci hai nemmeno provato, sei passato direttamente al secondo numero della lista.
"John, amico. Che succede?"
"Scusami se ti disturbo, Greg. Hai visto Sherlock?"
"Certo che l'ho visto, è stato qui poco fa. Perchè diavolo chiami me, ha dimenticato il telefono?"
"Mmh beh sì, una cosa del genere. Come l'hai visto?"
Lo hai sentito esitare. "Probabilmente centra col motivo della tua chiamata. Mi è sembrato strano... più strano del solito intendo. E' arrivato come una furia, mi ha chiesto dei vecchi casi irrisolti su cui lavorare, ne ha risolti quattro nel giro di una mezz'ora e ha buttato tutto per aria urlando che non era abbastanza. Poi è sparito."
"...e quanto aspettavi a chiamarmi?!" 
L'agitazione ha cominciato a prendere il sopravvento su di te. Hai alzato la voce e te ne sei reso conto. "Scusami, Greg. Ma è importante."
"Non mi hai nemmeno dato il tempo, di richiamarti! Comunque non preoccuparti, ci sono abituato. Ma ora non so dirti dove sia."
Lo hai salutato di fretta, l'eco di una scusa ancora nella tua voce incerta. Avevi bisogno di trovarlo, trovarlo e nient'altro. Anche solo per averlo davanti ai tuoi occhi. Inventare una scusa qualsiasi e fargli capire che non doveva preoccuparsi, che non sarebbe cambiato niente, che eri stato semplicemente un coglione. Speravi, anzi, che non ricordasse proprio niente. Ti saresti accollato tu quella responsabilità, ti saresti portato quel segreto nella tomba, quel peso sulle spalle per tutto il tempo necessario: avresti accettato tutto pur di non farlo soffrire ancora. 
Ma per fare tutto questo, dovevi trovarlo.
Ti sei fermato e hai usato il cervello, o almeno ci hai provato. Cosa avrebbe fatto Sherlock al tuo posto? Poi un'idea, abbastanza stupida per essere verosimile, ti è arrivata. E questo perché - ti sei concesso di ammettere con te stesso - un po' Sherlock lo conosci.
O forse un po' conosci te stesso.
Sì.
Perché a volte avevi l'impressione che Sherlock fosse te molto più di quanto non lo fossi tu stesso. 
Hai afferrato al volo la giacca e ti sei fiondato per strada, fermando un taxi al primo colpo.
"Dove andiamo?"
"Al cimitero."
 
La tomba di Mary si trovava vicino a un filare di cipressi, al limitare est. Per chiunque era solo una lapide in mezzo a tante altre, si confondeva nella sua anonimità. Ma per te era unica. Unica e pesante come la trasportassi sulla schiena ogni giorno della tua vita. 
In fondo, era giusto così.
Non hai avuto nemmeno bisogno di guardare in quella direzione. Nel momento stesso in cui hai varcato il pesante cancello di ferro battuto e messo piede sull'erba umida del cimitero, hai capito. Hai sentito che Sherlock era lì. Cosa stupida, forse, ma la sua presenza ti era ormai percepibile a distanza. Come un'estensione stessa del tuo essere. 
Dove non c'era, mancava. 
Poi l'hai scorto, e il cuore ha fatto un salto dritto nella tua gola, quasi tentasse di fuggire. 
Dopo tutto, l'hai martoriato, usato, strappato, ricucito alla bell'e meglio. Ora era stanco. Il tuo cuore non ce la faceva più.
Hai proseguito fino a lui, con una forza che non sapevi neanche da dove ti arrivasse. Le ginocchia tremavano a ogni passo, minacciando di cedere da un momento all'altro. Poi, d'un tratto, più nulla. Non appena il suo profumo leggero ha colpito le tue narici, e i suoi ricci scuri non sono stati a portata di mano, e perfino il suo respiro non è stato udibile, tutto dentro di te si è placato. Come fossi tornato a casa.
Sherlock era l'unico posto cui sentivi davvero di appartenere, e il tuo cuore lo sapeva. 
Nulla sarebbe potuto andar male, se fossi rimasto con lui - questo diceva il tuo battito cardiaco, ora regolare, calmo, ritmico. 
Ti sei affiancato a lui come fosse la cosa più naturale del mondo, come se vi foste dati appuntamento lì. 
Il detective, il tuo amico, ti aveva sentito arrivare. Non si è nemmeno voltato. 
"Sapevo che ti avrei trovato qui."
"Sì. Immaginavo."
Ti sei permesso di alzare lo sguardo su di lui e lo hai notato, un angolo della sua bocca sollevarsi appena in un sorriso trattenuto a fatica.
Sveglio, intelligente John, pareva dire.
Qualcosa dentro di te si era risvegliato all'improvviso. Un formicolio, un pizzicore di vita che ti invadeva, penetrato nei pori della tua pelle direttamente dal suo viso di porcellana, inciso da quel sorrisetto sghembo che in fondo sapevi essere solo per te.
E subito dopo tutto questo, il dolore. Il veleno del senso di colpa che tornava a sporcarti il sangue e il respiro, facendoti contorcere lo stomaco.
Non ne avevi alcun diritto.
Eppure...
"Vengo spesso qui," hai esordito. La tua bocca ha iniziato ad articolare i suoni prima ancora che prendessero forma nella tua coscienza. 
"Sì, lo so."
"Quando...?"
"Tutte le volte."
Sherlock ti ha sempre seguito. Tutte quelle volte in cui credevi di essere solo, in cui hai pensato, forse con una punta di autolesionistico orgoglio, di poterlo escludere dalla tua vita, per avere finalmente tempo di commiserarti a dovere, lui c'era. 
Sherlock c'è sempre stato.
"Sai cosa le chiedo, quando vengo qui?" gli domandi allora, incapace di frenarti oltre.
Doveva sapere.
Lui ha fatto appena un cenno, spostando quel suo sguardo cristallino su di te.
"Se, secondo lei, tu potrai mai perdonarmi."
Infine, lo hai detto.
John Watson ha confessato.
E Sherlock, Sherlock ha abbassato la testa, come inchinandosi a un potere più grande di lui, sospirando. 
"Andiamo a casa, John."
 
Non ti ha dato una risposta, lì al cimitero.
E come avrebbe potuto? Come poteva perdonarti? Tuttavia avevi bisogno di sentirtelo dire, di vedere quelle labbra articolare una semplice parola: "Vattene."
Lo avresti fatto. Eri pronto. Ma avevi bisogno che Sherlock te lo dicesse. 
Il tragitto verso casa è stato silenzioso, pesante, pregno di parole non ancora dette ma ormai prossime all'implosione. 
Attendevi quel crollo con ansia.
Il tuo crollo.
La tua fine.
Ma che almeno fosse una fine. 
 
Avete salito i gradini lentamente, quasi che entrambi temeste il momento in cui quelle parole avrebbero dovuto veramente uscire. 
Essere di nuovo in Baker Street implicava troppe cose. Ma più di ogni altra, un confronto.
E ancora ti tenevi stretta una minuscola, stupida speranza che lui non ricordasse niente. Ma certo, sì, poteva tornare tutto come prima.
Ma davvero lo volevi? Non era vita, era sopravvivenza. 
Sopravvivevi al tuo senso di colpa, al tuo desiderio di lui, alla fame che ti consumava piano piano.
Non potevi placarla in alcun modo, se non con lui. 
Sherlock è entrato per primo, facendosi strada fino al camino. Ha gettato un occhio sul violino, appoggiato con cura sulla propria poltrona. Aggrottando la fronte, ti ha guardato in una muta richiesta che non ha mai formulato - perché la risposta gli è arrivata una frazione di secondo dopo.
Ce l'hai messo tu, lì. 
L'avevi trovato abbandonato sul tavolino, l'archetto che minacciava di cadere a terra. Non volevi che si rovinasse.
E quasi glielo hai letto negli occhi, in quelle pozze ghiacciate sempre troppo distanti, altrove. In un mondo inaccessibile che tuttavia volevi penetrare ed esplorare, per non lasciarlo mai più.
Glielo hai letto negli occhi, il suo pensiero. 
Sai che ti ha immaginato farlo: notare il violino nel momento di uscire, facendo magari un'espressione sofferente - quella che si è abituato a vederti sul volto segnato - seguita da una più dolce. Il tuo modo di prenderti cura di lui, silenzioso ma costante, fin dalle più piccole cose.
Avevi sfiorato il suo violino con la punta delle dita, sentendoti su un territorio sacro che i tuoi sudici piedi non avevano diritto di calpestare. Te lo sei accostato alle labbra e vi hai impresso un bacio, proprio lì dove si poggia il suo mento elegante. Avevi sognato così di baciare lui. Poi lo hai poggiato, nel punto esatto dove ora Sherlock lo ha trovato.
E ora ti guardava, con il suo sguardo fisso e intento che sapeva aprirti una voragine nel petto, lì dove il tuo residuo di cuore batteva, e scandagliarti ogni più remoto angolo dell'anima.
Fai pure, pensi quasi con sfida. Avanti.
Ma Sherlock seguiva il proprio di gioco, non il tuo.
Si è voltato di nuovo verso il camino, lasciandosi ipnotizzare dai residui di cenere ormai lì da tempo immemore.
Poi ha mormorato qualcosa, non voce distante, proveniente da quell'altrove che cercavi come la terra promessa. Non hai capito.
 
"C-Come hai detto?" Ti sei sentito un idiota, e hai fatto un passo verso di lui.
"Ti ho chiesto, John, se intendevi farlo davvero."
"Di che parli?"
"Smetti di fare l'idiota, non lo sei." Una pausa. "Non quanto gli altri, per lo meno."
"Allora ricordi."
"Avresti preferito di no?"
"Avrei preferito... non averlo fatto."
"Mmh. Capisco."
Il suo tono ti ha colpito come una pugnalata. Non eri sicuro che volesse che tu lo capissi, ma lo hai capito lo stesso. Sherlock si stava trattenendo. Stava cercando di rinchiudere dentro di sé qualcosa che premeva per uscire. 
E il semplice averlo capito ti ha fatto male. Perché ora lo leggevi così bene? Perché ti sembrava di vedere te stesso?
Hai deglutito cercando di ricacciare giù il tuo cuore che ancora una volta tentava di scappare.
Basta, basta farmi del male. Lasciami stare! - gridava in fondo alla tua gola. 
Solo allora hai compreso. Lui ha ragione.
Smettila di arrecare dolore.
Smettila di far del male a chiunque: a Sherlock, al tuo cuore, a te stesso.
Forse, dopo tutto questo tempo, te la puoi concedere. 
Una sola, solo una.
Una seconda possibilità.
 
Ti sei avvicinato ancora, fino a toccargli la schiena col tuo petto.
Lo hai stretto a te.
Non avevi bisogno di guardarlo in faccia, di cercare una sua reazione. Ti è bastato che le sue mani corressero alle tue, intrecciando le vostre dita, stringendole fino a far male.
Ma era un dolore buono, questa volta.
Ti sei appoggiato con la fronte a lui, incastrandoti tra le sue scapole. Spingendoti contro di lui come a volerlo attraversare. Entrare in lui.
Un unico essere, una cosa sola.
Non solo Sherlock, non solo John. Entrambi.
"Intendevo farlo, Sherlock. E lo rifarei ancora. Ma non voglio farti del male, non voglio farlo mai più."
Ti è scappato un singhiozzo, che ha percosso entrambi come una scossa di terremoto. 
Poi Sherlock ha iniziato a parlare, a la sua voce suadente, profondamente erotica, ha vibrato dentro di te, che avevi ancora la tua fronta incuneata nella sua schiena.
"Quello che chiedi a Mary è una domanda senza senso, per me. Ma sei hai bisogno di sentirtelo dire, John... io ti perdono. Certo che ti perdono."
Poi si è voltato, scostandosi da te quel tanto che bastava per afferrarti le spalle. 
"Ma te lo ripeto. Per me non c'è niente che io debba perdonare."
Ha sospirato, in quello stesso gesto che gli hai visto fare al cimitero. Chinando la testa a qualcosa di più grande.
"Io sono qui anche per questo. Mi farò carico della tua rabbia perché sono l'unico che può farlo."
"Ma io non voglio, Sherlock. Non voglio più essere arrabbiato."
La voce ti si è spezzata nello stomaco, risalendo a fatica con un altro singhiozzo che non avevi più la forza di trattenere. 
"Lo so. Ma troveremo un modo, lo troveremo insieme. Te lo prometto."
Non c'era altro da aggiungere, nient'altro da fare. Gli hai preso il viso tra le mani e lo tirato giù verso di te.
Lo hai baciato come se in quell'incontro di labbra, denti e lingua avessi dovuto donargli la tua stessa anima. Che, dopo tutto, gli è appartenuta dal primo momento in cui vi siete incontrati. 
In fondo, era solo una restituzione.
 
"John..." 
Ti ha invocato in quel bacio. Il tuo nome sulle sue labbra aveva il potere di risvegliare la vita dentro di te. Hai sentito una fiamma accendersi, la luce pervaderti dall'interno fino a spingere per uscire fuori.
Quel "John" era anche un "prendimi".
E così hai fatto. Siete finiti insieme sul tappeto, placando uno sull'altro la fame che vi attanagliava. Invocando reciprocamente i vostri nomi, quasi per accertarvi che fosse tutto vero.
         John. Sei davvero qui.
                  Sherlock. Sì, sei proprio tu.
E hai scoperto il suo mondo, ne sei diventato parte e vi hai messo radici. Lasciando che lui scoprisse te, definitivamente e totalmente.
Ti ha stretto a sé imprigionandoti tra le sue gambe, mentre tu affondavi in lui, finalmente libero
Siete diventati uno.
Lui parte di te e tu parte di lui. 
Identità mischiate, fuse e ricomposte in modo nuovo.
E insieme siete rinati. 
 
 
Late at night
When the world is dreaming
Way past the stars
That ignore our fate, all twinkle too late to save us
So we save ourselves.*
 
 
 
 
*Il titolo della fic è il titolo di una canzone di Paul Weller, da cui sono tratte anche queste poche righe.
  
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