Le nuove reclute erano tutte perfettamente in riga, giovani elfi ed elfe pronti a servire il loro nuovo padrone. Numin non sarebbe stato da meno, si era detto, nonostante la giovanissima età. Voleva dimostrare il suo valore, voleva far vedere a tutti che poteva farcela da solo, al diavolo suo padre!
Non aveva bisogno di lui, né di nessun’altro.
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Il Rajelan, il comandante che li addestrava, aveva chiamato a sé una delle reclute, un elfo dall’aria allucinata.
«Pensi di poter servire adeguatamente il tuo padrone, panelan?» sbraitò.
«Si, signore!»
Il comandante fece un gesto con la mano. La terra tremò violentemente, mentre un blocco di pietra prendeva forma davanti agli occhi increduli della recluta.
«Dimostralo panelan! Prendi questo blocco e fai venti volte il giro del tempio.»
L’elfo afferrò il blocco con entrambe le mani e provò sollevarlo, senza successo.
«È troppo pesante, non ci riesco» fu l’ultima cosa che disse, prima che la spada del comandante gli trapassasse il ventre.
«Tu!» disse, indicando Numin «Gettalo nel fiume.»
Numin eseguì senza pensarci, lo stomaco attanagliato in una morsa di ferro mentre trasportava il corpo senza vita dell’elfo e lo gettava nelle acque del fiume.
Sarebbe stato quello il suo destino, se avesse fallito?
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«Quella ti sembra una barriera, panelan?» gridò il comandante, la spada macchiata di sangue.
«No, Rajelan» mormorò Numin tenendosi il braccio ferito, la mano macchiata del suo stesso sangue. Un familiare schiocco alle sue spalle, poi il dolore lancinante alla schiena: la terza frustata per il terzo fallimento di quel giorno.
«Sal!»
Numin chiuse di nuovo gli occhi e alzò le esili braccia davanti a sé, per evitare che il fendente successivo lo colpisse in testa. Di nuovo si concentrò, manipolando l’Oblio, creando una sottile barriera attorno al suo corpo. “Sii dura come l’acciaio, ti prego”, pensava.
Il fendente successivo tagliò la barriera come fosse burro, penetrandogli nella carne. L’urlo inumano che lanciò attirò l’attenzione di tutti i soldati del campo.
«Non riceverai compassione qua dentro, nemmeno per la tua giovane età, panelan» disse il comandante mentre Numin s’accasciava a terra piangendo, il volto sporco di muco e polvere.
Ci fu un altro schiocco, poi il buio.
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«In guardia!»
Numin eseguì, stringendo nervosamente la spada. Uno schiocco, poi il dolore alla mano, bagnata di sangue. La spada svanì.
«Stai stringendo troppo quella spada»
«Agli ordini» rispose, torturandosi il labbro inferiore mentre cercava d’ignorare il dolore. Evocò un’altra spada.
Il comandante gli si avvicinò, scrutandolo con aria severa, prima di assestargli un calcio sulla caviglia. Numin crollò a terra, la caviglia probabilmente slogata.
«Ti sembra una guardia stabile quella?» sbraitò a pochi centimetri dal suo orecchio, «In piedi!»
Si rimise in piedi a fatica e risistemò la guardia, il sapore metallico del sangue in bocca.
«Avanti, panelan» disse il comandante, «Colpiscimi.»
Numin rimase interdetto: il comandante non era in guardia e si trovava a una distanza tale da permettergli di colpirlo con un semplice affondo. Così avrebbe fatto, decise.
«Feldun» mormorò il comandante, scartando di lato con rapidità sovraumana e colpendolo al ventre con una ginocchiata. Cadde di nuovo a terra, boccheggiando, le braccia strette attorno alla vita.
«Non stai facendo progressi, panelan. Cinque frustate e niente cena.»
---------------------------------------------
Numin si strinse nei suoi abiti di lana, sfregandosi le braccia. Aveva appena smesso di nevicare su quella montagna e dalle nuvole intuì avrebbe ripreso presto. Il comandante stava sbraitando qualcosa ma parte della sua voce si disperdeva nell’aria gelida.
Guardò i suoi compagni accanto a lui, una ventina di elfi smunti e infreddoliti. Quella settimana avrebbero imparato a forgiare delle armi di ghiaccio, diceva il comandante.
«Imparerete sulla vostra pelle com’è fatto il ghiaccio. Se non sarà lui ad uccidervi, saremo noi a farlo, in caso di fallimento della prova.»
Rabbrividì ma non sapeva dire se per il freddo o per la paura.
Un guardiano consegnò a tutti una sacca con del cibo. Senza farsi scoprire, vi sbirciò dentro: due pagnotte e alcune striscioline di carne essiccata. Troppo poche per una settimana al freddo.
-----------------------------------------------
Il fuoco crepitava appena e finalmente Numin poteva riposarsi al caldo. Aveva trovato un lago sotterraneo, dove il gelo non arrivava in maniera così violenta e in cui poteva bere acqua pulita con facilità.
Sentì un ringhio provenire dall’oscurità, poi due occhi gialli lo fissavano. Un orso svegliato dal letargo e affamato scoperchiò i denti e si alzò sulle zampe posteriori, puntando l’elfo. Numin evocò un pugnale di ghiaccio. “Un ottimo momento per testarlo”, pensò e senza esitazione scattò verso l’orso, mirando al collo.
L’orso cadde a terra, guaendo mentre il sangue caldo usciva dalla gola lacerata. Il pugnale ghiacciato era ancora intatto, il filo della lama mantenuto alla perfezione.
Ce l’aveva fatta.
--------------------------------------------
«Tutto qua?» disse il comandante, esaminando con aria severa il pugnale di ghiaccio.
«No, Rajelan» rispose Numin, evocando una spada. Il comandante non rispose, evocò a sua volta una spada e attaccò l’elfo, che ebbe appena il tempo di parare. La spada di ghiaccio resistette l’assalto con facilità, nessuna incrinatura sulla lama affilata.
«Puoi andare» lo congedò infine. Fu quindi il turno degli altri sopravvissuti, quattro elfi visibilmente raffreddati. Tre di questi non superarono la prova.
Il comandante e il guardiano tornarono al tempio con i due guerrieri rimasti.
-------------------------------------------
«Fortifica la tua mente, panelan!» urlava il comandante, ma Numin non lo sentiva. Odiava gli esercizi di resistenza mentale, odiava gli orrori che era costretto a rivivere, odiava essere del tutto impotente di fronte ad essi.
Dita invisibili lo stringevano, costringendolo a guardare mentre sua madre moriva, mentre la sua casa bruciava, mentre suo padre lo colpiva più e più volte, lo sguardo irato più doloroso di una pugnalata al petto.
«Così non va» disse il comandante, quindi si rivolse al guardiano «Una decina saranno sufficienti.»
L’incubo finì ma il familiare schiocco non tardò ad arrivare. Il dolore lancinante lo costrinse in ginocchio mentre sangue caldo prese a correre lungo la sua schiena.
Un altro schiocco. La vista si appannò per le lacrime che ora scendevano copiose sul suo viso.
«Piangi ancora come un bambino, panelan?»
Un altro schiocco. Si piegò su sé stesso, singhiozzando, incapace di sopportare il dolore lancinante.
«Sei debole»
Un altro schiocco. Lo stomaco lo abbandonò, facendogli rimettere quel poco che aveva mangiato quella mattina.
«Solo i deboli piangono.»
Un altro schiocco. I contorni del suo campo visivo si oscurarono.
«Non m’interessa, ho detto dieci e dieci saranno» sentì dire il comandante, un eco in lontananza appena udibile, prima che il mondo diventasse totalmente buio.
--------------------------------------
Un sapore amaro in bocca lo svegliò dal torpore. Aprì gli occhi ancora appannati, riuscendo a malapena a vedere la guardiana mentre gli portava alle labbra un intruglio a base di radice elfica.
«No, no» mugugnò, tentando di scuotere la testa per allontanare la bevanda, ma con scarso successo.
«Forza, bevi giovanotto!»
«Vi prego, guardiana, lasciatemi qui a morire. Non ce la faccio più.»
«Ti svelo un segreto figliolo» gli sorrise dolcemente questa «Per resistere alle torture mentali è sufficiente pensare a qualcosa di bello.»
«Qualcosa di bello?»
«Si esatto. Qualcosa che ti piace.»
Numin annuì debolmente. Non ricordava niente di bello, ogni suo ricordo piacevole aveva contorni dolorosi. Non ce l’avrebbe mai fatta a resistere agli incantesimi mentali, pensò, preso dallo sconforto.
Il suo campo visivo si stava annebbiando di nuovo. Prima di perdere di nuovo conoscenza, per qualche ragione, gli vennero in mente dei minuscoli fiorellini blu.
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Panelan: guerriero, soldato
Rajelan: comandante, capo
Sal: ancora, di nuovo
Feldun: lento (nei movimenti), lett. “corpo lento”
Non aveva bisogno di lui, né di nessun’altro.
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Il Rajelan, il comandante che li addestrava, aveva chiamato a sé una delle reclute, un elfo dall’aria allucinata.
«Pensi di poter servire adeguatamente il tuo padrone, panelan?» sbraitò.
«Si, signore!»
Il comandante fece un gesto con la mano. La terra tremò violentemente, mentre un blocco di pietra prendeva forma davanti agli occhi increduli della recluta.
«Dimostralo panelan! Prendi questo blocco e fai venti volte il giro del tempio.»
L’elfo afferrò il blocco con entrambe le mani e provò sollevarlo, senza successo.
«È troppo pesante, non ci riesco» fu l’ultima cosa che disse, prima che la spada del comandante gli trapassasse il ventre.
«Tu!» disse, indicando Numin «Gettalo nel fiume.»
Numin eseguì senza pensarci, lo stomaco attanagliato in una morsa di ferro mentre trasportava il corpo senza vita dell’elfo e lo gettava nelle acque del fiume.
Sarebbe stato quello il suo destino, se avesse fallito?
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«Quella ti sembra una barriera, panelan?» gridò il comandante, la spada macchiata di sangue.
«No, Rajelan» mormorò Numin tenendosi il braccio ferito, la mano macchiata del suo stesso sangue. Un familiare schiocco alle sue spalle, poi il dolore lancinante alla schiena: la terza frustata per il terzo fallimento di quel giorno.
«Sal!»
Numin chiuse di nuovo gli occhi e alzò le esili braccia davanti a sé, per evitare che il fendente successivo lo colpisse in testa. Di nuovo si concentrò, manipolando l’Oblio, creando una sottile barriera attorno al suo corpo. “Sii dura come l’acciaio, ti prego”, pensava.
Il fendente successivo tagliò la barriera come fosse burro, penetrandogli nella carne. L’urlo inumano che lanciò attirò l’attenzione di tutti i soldati del campo.
«Non riceverai compassione qua dentro, nemmeno per la tua giovane età, panelan» disse il comandante mentre Numin s’accasciava a terra piangendo, il volto sporco di muco e polvere.
Ci fu un altro schiocco, poi il buio.
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«In guardia!»
Numin eseguì, stringendo nervosamente la spada. Uno schiocco, poi il dolore alla mano, bagnata di sangue. La spada svanì.
«Stai stringendo troppo quella spada»
«Agli ordini» rispose, torturandosi il labbro inferiore mentre cercava d’ignorare il dolore. Evocò un’altra spada.
Il comandante gli si avvicinò, scrutandolo con aria severa, prima di assestargli un calcio sulla caviglia. Numin crollò a terra, la caviglia probabilmente slogata.
«Ti sembra una guardia stabile quella?» sbraitò a pochi centimetri dal suo orecchio, «In piedi!»
Si rimise in piedi a fatica e risistemò la guardia, il sapore metallico del sangue in bocca.
«Avanti, panelan» disse il comandante, «Colpiscimi.»
Numin rimase interdetto: il comandante non era in guardia e si trovava a una distanza tale da permettergli di colpirlo con un semplice affondo. Così avrebbe fatto, decise.
«Feldun» mormorò il comandante, scartando di lato con rapidità sovraumana e colpendolo al ventre con una ginocchiata. Cadde di nuovo a terra, boccheggiando, le braccia strette attorno alla vita.
«Non stai facendo progressi, panelan. Cinque frustate e niente cena.»
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Numin si strinse nei suoi abiti di lana, sfregandosi le braccia. Aveva appena smesso di nevicare su quella montagna e dalle nuvole intuì avrebbe ripreso presto. Il comandante stava sbraitando qualcosa ma parte della sua voce si disperdeva nell’aria gelida.
Guardò i suoi compagni accanto a lui, una ventina di elfi smunti e infreddoliti. Quella settimana avrebbero imparato a forgiare delle armi di ghiaccio, diceva il comandante.
«Imparerete sulla vostra pelle com’è fatto il ghiaccio. Se non sarà lui ad uccidervi, saremo noi a farlo, in caso di fallimento della prova.»
Rabbrividì ma non sapeva dire se per il freddo o per la paura.
Un guardiano consegnò a tutti una sacca con del cibo. Senza farsi scoprire, vi sbirciò dentro: due pagnotte e alcune striscioline di carne essiccata. Troppo poche per una settimana al freddo.
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Il fuoco crepitava appena e finalmente Numin poteva riposarsi al caldo. Aveva trovato un lago sotterraneo, dove il gelo non arrivava in maniera così violenta e in cui poteva bere acqua pulita con facilità.
Sentì un ringhio provenire dall’oscurità, poi due occhi gialli lo fissavano. Un orso svegliato dal letargo e affamato scoperchiò i denti e si alzò sulle zampe posteriori, puntando l’elfo. Numin evocò un pugnale di ghiaccio. “Un ottimo momento per testarlo”, pensò e senza esitazione scattò verso l’orso, mirando al collo.
L’orso cadde a terra, guaendo mentre il sangue caldo usciva dalla gola lacerata. Il pugnale ghiacciato era ancora intatto, il filo della lama mantenuto alla perfezione.
Ce l’aveva fatta.
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«Tutto qua?» disse il comandante, esaminando con aria severa il pugnale di ghiaccio.
«No, Rajelan» rispose Numin, evocando una spada. Il comandante non rispose, evocò a sua volta una spada e attaccò l’elfo, che ebbe appena il tempo di parare. La spada di ghiaccio resistette l’assalto con facilità, nessuna incrinatura sulla lama affilata.
«Puoi andare» lo congedò infine. Fu quindi il turno degli altri sopravvissuti, quattro elfi visibilmente raffreddati. Tre di questi non superarono la prova.
Il comandante e il guardiano tornarono al tempio con i due guerrieri rimasti.
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«Fortifica la tua mente, panelan!» urlava il comandante, ma Numin non lo sentiva. Odiava gli esercizi di resistenza mentale, odiava gli orrori che era costretto a rivivere, odiava essere del tutto impotente di fronte ad essi.
Dita invisibili lo stringevano, costringendolo a guardare mentre sua madre moriva, mentre la sua casa bruciava, mentre suo padre lo colpiva più e più volte, lo sguardo irato più doloroso di una pugnalata al petto.
«Così non va» disse il comandante, quindi si rivolse al guardiano «Una decina saranno sufficienti.»
L’incubo finì ma il familiare schiocco non tardò ad arrivare. Il dolore lancinante lo costrinse in ginocchio mentre sangue caldo prese a correre lungo la sua schiena.
Un altro schiocco. La vista si appannò per le lacrime che ora scendevano copiose sul suo viso.
«Piangi ancora come un bambino, panelan?»
Un altro schiocco. Si piegò su sé stesso, singhiozzando, incapace di sopportare il dolore lancinante.
«Sei debole»
Un altro schiocco. Lo stomaco lo abbandonò, facendogli rimettere quel poco che aveva mangiato quella mattina.
«Solo i deboli piangono.»
Un altro schiocco. I contorni del suo campo visivo si oscurarono.
«Non m’interessa, ho detto dieci e dieci saranno» sentì dire il comandante, un eco in lontananza appena udibile, prima che il mondo diventasse totalmente buio.
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Un sapore amaro in bocca lo svegliò dal torpore. Aprì gli occhi ancora appannati, riuscendo a malapena a vedere la guardiana mentre gli portava alle labbra un intruglio a base di radice elfica.
«No, no» mugugnò, tentando di scuotere la testa per allontanare la bevanda, ma con scarso successo.
«Forza, bevi giovanotto!»
«Vi prego, guardiana, lasciatemi qui a morire. Non ce la faccio più.»
«Ti svelo un segreto figliolo» gli sorrise dolcemente questa «Per resistere alle torture mentali è sufficiente pensare a qualcosa di bello.»
«Qualcosa di bello?»
«Si esatto. Qualcosa che ti piace.»
Numin annuì debolmente. Non ricordava niente di bello, ogni suo ricordo piacevole aveva contorni dolorosi. Non ce l’avrebbe mai fatta a resistere agli incantesimi mentali, pensò, preso dallo sconforto.
Il suo campo visivo si stava annebbiando di nuovo. Prima di perdere di nuovo conoscenza, per qualche ragione, gli vennero in mente dei minuscoli fiorellini blu.
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Panelan: guerriero, soldato
Rajelan: comandante, capo
Sal: ancora, di nuovo
Feldun: lento (nei movimenti), lett. “corpo lento”