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Autore: Cdegel    14/10/2019    5 recensioni
I personaggi di Saint Seiya, utilizzati in questa ff, appartengono al loro autore, M. Kurumada.
I soli personaggi inventati da me sono Umbriel ed Endien, che qui hanno un ruolo del tutto marginale.
In questa long è spiegata la nascita dell’amicizia tra Camus e Agasha, all’incirca coetanea dei Gold Saints e reincarnazione dell’Agasha di LC (già immaginata con qualche anno in più rispetto all’anime). Questa long è parte della ff “Fino in Fondo”, ma si può leggere anche come una storia a sé stante.
…Adesso che erano ragazzi e restavano soli ad allenarsi e a badare all’isba, il loro unico e prezioso rifugio, i divieti riguardavano essenzialmente la disciplina e i doveri, quando Camus si allontanava:
“Niente alcol. Niente risse, specialmente se andate a Kobotec, neanche se qualche idiota vi provoca, Isaak, sono stato chiaro? Non vi avvicinate all’area di costruzione del Santuario, neanche per sbaglio. Evitate di farvi notare da soldati o cavalieri. Non portate nessuno e per nessuno intendo NESSUNO qui all’isba. E tu – puntando il dito verso Hyoga – resti in superficie… guardami. Non devi nemmeno PENSARE di raggiungere quel vascello. Sono stato chiaro?”
Genere: Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Agasha, Aquarius Camus, Nuovo Personaggio, Scorpion Milo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi di Saint Seiya, utilizzati in questa ff, appartengono al loro autore, M. Kurumada.
I soli personaggi inventati da me sono Umbriel ed Endien, che qui hanno un ruolo del tutto marginale.
In questa long è spiegata la nascita dell’amicizia tra Camus e Agasha, all’incirca coetanea dei Gold Saints e reincarnazione dell’Agasha di LC (già immaginata con qualche anno in più rispetto all’anime). Questa long è parte della ff “Fino in Fondo”, ma si può leggere anche come una storia a sé stante.
 
…Adesso che erano ragazzi e restavano soli ad allenarsi e a badare all’isba, il loro unico e prezioso rifugio, i divieti riguardavano essenzialmente la disciplina e i doveri, quando Camus si allontanava:
“Niente alcol. Niente risse, specialmente se andate a Kobotec, neanche se qualche idiota vi provoca, Isaak, sono stato chiaro? Non vi avvicinate all’area di costruzione del Santuario, neanche per sbaglio. Evitate di farvi notare da soldati o cavalieri. Non portate nessuno e per nessuno intendo NESSUNO qui all’isba. E tu – puntando il dito verso Hyoga – resti in superficie… guardami. Non devi nemmeno PENSARE di raggiungere quel vascello. Sono stato chiaro?”
 
Buona lettura!
 
Lui era lontano, e sapevano che non sarebbe tornato presto.
Prima di partire aveva lasciato istruzioni chiare, un programma dettagliato di allenamento che non prevedeva giornate di ozio, (anche se ogni tanto ne concedeva loro qualcuna, raramente in realtà, e solo quando era presente e poteva assicurarsi che sarebbe stata una soltanto) e soprattutto aveva snocciolato una serie, la solita serie, di divieti, che erano cambiati con gli anni.
Quando erano piccoli quei divieti, scolpiti nelle loro menti, erano rivolti soprattutto a non creare disagi a coloro che li ospitavano.
Adesso, che erano ormai ragazzi e restavano soli ad allenarsi e a badare all’isba, il loro unico e prezioso rifugio, questi riguardavano essenzialmente la disciplina e i doveri.
Niente alcol. Niente risse, specialmente se andate a Kobotec, neanche se qualche idiota vi provoca, Isaak, sono stato chiaro? Non vi avvicinate all’area di costruzione del Santuario, neanche per sbaglio. Evitate di farvi notare da soldati o cavalieri. Non portate nessuno e per nessuno intendo NESSUNO qui all’isba. E tu” – puntando il dito verso Hyoga – “resti in superficie… guardami. Non devi nemmeno PENSARE di raggiungere quel vascello. Sono stato chiaro?”
Aveva annuito.
A presto
Camus aveva chiuso la porta dietro di sé, solo dopo averli guardati negli occhi entrambi, per un lungo istante. Era il suo modo per salutarli. Perché lui non li avrebbe mai abbracciati. Non poteva farlo, ma i suoi occhi, Isaak, lo sapeva, quegli occhi blu come il mare, in quel momento, facevano ciò che alle sue braccia non avrebbe mai concesso.
Il maestro aveva un brutto presentimento e non riusciva a capire se riguardasse la missione che era stata affidata a lui e Milo oppure i suoi ragazzi. Non partiva mai a cuor leggere per una missione, ma stavolta avvertiva uno strano senso di angoscia nel lasciarsi alle spalle l’isba. Scacciò il pensiero e si concentro sul suo dovere di Saint.
 
Sapevano bene tutti e tre che, una volta lontano, sarebbe stato difficile per lui controllarli, soprattutto se la missione si fosse rivelata impegnativa come quella dell’ultima volta, dalla quale era ritornato dopo oltre un mese ed era evidente che non doveva essere stata una passeggiata.
Isaak adesso lo aveva guardato allontanarsi dall’isba, lo aveva perduto di vista in un istante, nella tempesta. Sta attento. Aveva appoggiato la fronte al vetro gelido. Era già accaduto le altre volte, accadeva ogni volta, in realtà, lui ormai conosceva quel senso di distacco, che lo attanagliava e che restava lì in un angolo della sua mente, e spariva solo quando Camus riapriva la pesante porta di legno, la sua armatura toccava terra, e, a volte malconcio a volte solamente stanco, il loro maestro tornava da loro, alla loro casa.
Stavolta quella sensazione era forte, come se quello sguardo scambiato tra loro alla partenza fosse stato l’ultimo.
 
Erano trascorse settimane senza che i ragazzi avessero sue notizie, Isaak aveva accantonato la sensazione provata quella mattina, lui e Hyoga si erano attenuti a quanto Camus aveva impartito loro, avevano evitato le risse, più o meno, ed anche la zona di costruzione della grande piramide di ghiaccio, anche se, una volta almeno, Isaak, vinto dalla curiosità, si era avvicinato abbastanza da scorgere le attività in atto e aveva rischiato di essere scoperto. Se lo avessero fatto sarebbe stato nei guai, più per l’ira del maestro, probabilmente, che per altre conseguenze.
 
Hyoga, invece col trascorrere dei giorni, stava diventando inquieto. Isaak sapeva che cosa gli stava passando per la testa
“non farlo, è troppo rischioso”
“l’addestramento è praticamente concluso… se non sono in grado di farlo adesso, vuol dire che tutto il lavoro di questi anni è stato inutile”
“no, è l’armatura a fare la differenza a volte, e tu non ce l’hai, fa la differenza tra vivere e morire, Hyoga”
“…” sarebbe stato difficile dissuaderlo. Camus nell’udire le sue parole, lo avrebbe appeso al muro senza troppi complimenti, ma lui non aveva l’autorità per farlo, per convincerlo che no, non poteva rischiare così tanto. Provò a ricordargli che quello era uno dei divieti del Maestro, glielo aveva detto quardandolo bene negli occhi, assicurandosi che il messaggio gli fosse arrivato forte e chiaro.
“ti ha espressamente vietato di farlo”
“ha vietato anche di farci coinvolgere in risse, e di avvicinarci all’area di costruzione… tu sei stato così corretto?”
“c’è una grande differenza tra il trasgredire e fare a cazzotti e trasgredire e rimetterci la pelle”
“non morirò”
“ti perdonerebbe qualsiasi cosa Hyoga, ma non che butti la tua vita così, quello no, lascia perdere… non ha senso…”
 
Isaak aveva provato in ogni modo a dissuaderlo ancora, poi era uscito ed era andato ad allenarsi, nei programmi di Camus, loro avrebbero dovuto esercitarsi già da almeno un’ora. Via il gatto, i topi ballano. Ha ragione. Al suo ritorno la pagheremo, gli basterà un’occhiata per capire che abbiamo trasgredito… eccome. Sorrise tra sé. Camus gli mancava. Gli mancavano anche i suoi rimproveri. Gli mancava il rientro da una giornata di fatiche, loro due che crollavano e lui invece preparava qualcosa che li riscaldasse dentro, prima di concedersi un po' di riposo.. Gli mancavano quei piccoli gesti trattenuti di cui il maestro era parco. Ma che gli scaldavano il cuore come niente altro riusciva a fare.
Prese ad allenarsi. Il tempo trascorse senza che Isaak si rendesse conto.
 
 
Hyoga era uscito dall’isba. Non si era diretto laddove Isaak si stava allenando. Sapeva che Camus non avrebbe approvato. Anzi, lo avrebbe rimproverato con forza, probabilmente si sarebbe adirato come non lo aveva mai visto. Sì, sarebbe andata proprio così. Camus gli avrebbe urlato contro, per l’ennesima volta, che il suo obiettivo per diventare cavaliere era troppo fragile e gli sarebbe costato la vita in battaglia. Quasi certamente aveva ragione, Hyoga difficilemnte sarebbe sopravvissuto ad uno scontro reale. In uno scontro in cui l’avversario non fosse stato Isaak, ma uno che volesse la sua testa, per davvero. Ma lui non aveva molte ragioni per vivere, in effetti, e il desiderio di farlo, di rivedere finalmente la sua amata madre, era troppo forte.
Quello era stato il suo obiettivo fin dal primo giorno, lo aveva candidamente ammesso quando Camus gli aveva posto la domanda, e la risposta, nella sua mente almeno, era ancora la stessa di quel giorno, ed era certo che anche Camus ne fosse consapevole. Più volte lo aveva redarguito negli anni, quando i suoi occhi indugiavano più di qualche istante cercando di intravvedere l’oggetto del suo interesse, oltre l’oscurità, oltre le forti correnti. Camus non lo aveva mai cacciato, chissà perché, si era invece intestardito a fare di lui un cavaliere degno di Atena.
Ma lui lo avrebbe inevitabilmente deluso e, forse, in fondo, lo immaginava anche Camus, anzi, sicuramente sapeva in cuor suo che lui avrebbe agito in quella direzione, potrà rimproverarmi, forse mi caccerà, ma non mi importa. Stavolta non torno sui miei passi. Sto arrivando.
Mamma.
Con tutta la forza che aveva in corpo aveva distrutto il giacchio che ricopriva le acque scure. Era entusiasta di esserci riuscito, e, con entusiasmo si era tuffato, con l’entusiasmo con il quale un bimbo corre verso la propria madre. Quando finalmente i suoi occhi si erano abituati all’oscurità, lo aveva intravisto. Si era diretto con sicurezza verso il vascello.
Poi. Il poi erano immagini confuse. Isaak. Sapore di sale e di sangue. Freddo. Lacrime. Ghiaccio. Oscurità.
 
 
 
Settimane dopo quel maledetto giorno Camus si era svegliato madido di sudore e sfinito, come fosse riemerso da un lungo incubo. Aveva faticato a mettere a fuico il luogo in cui si trovava e a collocarlo nello spazio. Aveva impiegato più di qualche istante per riconoscere i visi familiari di Milo e Mu chini su di lui, a decifrare le loro espressioni visibilmente preoccupate.
 
Poi, come un fiume in piena la sua mente si era aperta, aveva lasciato traboccare l’angoscia, la paura, lui aveva ricordato e si era alzato a sedere di scatto, ricadendo del tutto privo di forze su di un lato. Mu lo aveva sorretto.
Un capogiro, la nausea,. Un dolore sordo allo stomaco e, dopo, l'odore di vomito addosso. Le sue mani stringevano il suo capo. Non era stato un terribile incubo. Ogni attimo di angoscia era stato reale. Ogni volta che aveva udito il suo nome, era stata la sua stessa voce a pronunciarlo, mentre la sua inquietudine cresceva.
Ricordava di essersi recato in Siberia al ritorno dalla missione, sebbene ferito, perché, proprio mentre rientravano, aveva avvertito il cosmo forte e pulsante di Isaak affievolirsi fino quasi a scomparire. 
Non era scomparso, del tutto, no. Lo avvertiva ancora, anche adesso, il cosmo del suo allievo, ma sapeva che raggiungerlo gli sarebbe stato ormai impossibile. Quello che sentiva non era che un’eco che si perdeva in fondo agli abissi, in un luogo a lui inaccessibile, almeno al suo corpo fisico.
Ricordava tra le braccia di Mu, che cercava di calmarlo. Ricordava e mormorava frasi sconnesse, ancora troppo sconvolto per riprendere lucidità. Ricordava tutto il dolore, ma neanche una lacrima cadeva dai suoi occhi spenti.
 
Aveva rinvenuto Hyoga privo di sensi vicino ad un enorme foro nel ghiaccio della banchisa. Le pareti portavano ancora tracce del cosmo di Isaak. Lo aveva sollevato da terra e aveva immediatamente compreso quanto era accaduto.
“perché … perché…”
Aveva Hyoga esanime tra le braccia e aveva compreso subito la ragione per cui percepiva il cosmo di Isaak così debole, così lontano, quasi irraggiungibile.
In un istante aveva raggiunto il villaggio, le case erano  innevate e dai piccoli comignoli, in seguito alla tempesta il fumo invece di alzarsi di abbassava lungo le tre strade, mischiando l'odore pungente della legna umida che bruciava con difficoltà, a quello inconfondibile, per lui, della bufera.
Per un attimo aveva fissato il viso arrossato di quel ragazzo così legato alla morte da farne una ragione di vita. Aveva tra le braccia un giovane uomo il cui cuore non era mai riuscito ad afferrare completamente, ma che aveva imparato, suo malgrado, ad amare.
Però, adesso, quel peso che portava in braccio gli gravava sul cuore. Lo stringeva in una morsa dolorosa. 
Camus sapeva che cosa aveva fatto e conosceva quali erano state le conseguenze di quel gesto, che gli aveva vietato di compiere. Era stato chiaro. Diretto. Glielo aveva ripetuto più volte nell’arco di quegli anni.
Morirai
Non era morto lui. Ma Isaak. Una stretta dolorosa gli aveva tolto il fiato.
No. Non è morto... poi aveva chiuso gli occhi per un istante, odorando il fumo che lo aveva circondato, Ma è perduto...e mai lo riavrò indietro... 
Strinse a sé quell'allievo che ora vedeva come uno sciocco. Come un fallimento. Ma non era l’allievo ad avere fallito. Era il maestro a non essere stato all’altezza del suo compito.
Gli occhi bruciavano. Per il fumo. O per la polvere di diamanti che spirava nella tempesta.
 
Bussò alla porta e fu una ragazza bionda ad aprire. Lo fece entrare con urgenza. Aveva adagiato Hyoga sul letto indicato da lei
"Prenditi cura di lui, Katya"
Camus sapeva di non avere le forze né il tempo per farlo. Perché Isaak era ancora là fuori, doveva esserci, da qualche parte, e lui DOVEVA trovarlo. Non si sarebbe arreso così al destino. Ti ritroverò. Ti riporterò a casa.
"Maestro, mi sembrate stremato .. avete bisogno di riposo .. chiedete aiuto .. vi prego"
Non le aveva dato ascolto. Aveva fissato Hyoga per un lungo attimo, come a volersi imprimere nella memoria quel viso.Uscì senza più proferire parola.
 
Non aveva tempo di riposare né di pensare alle sue ferite, benché il dolore costante gli ricordasse la loro presenza. Trovare Isaak, ovunque fosse. Questo era il suo unico obiettivo.
 
Lo aveva cercato per giorni, giorni interi senza concedersi riposo. Aveva percorso chilometri lungo la banchisa, si era tuffato in mare, lottando contro le correnti, da quello stesso punto in cui aveva ritrovato Hyoga, affrontando lui stesso il Kraken che si era preso il suo allievo, e per un istante, un solo istante, aveva desiderato abbandonarsi.
Quando quella corrente lo aveva avvolto, gli aveva annebbiato i sensi, aveva intorpidito il suo corpo e invaso la sua mente, Camus aveva intravisto una realtà diversa. Un'altra possibilità. Un secondo inizio, ma più terribile.
Il ricordo del suo allievo lo aveva scosso dal torpore che probabilmente avrebbe finito con l'ucciderlo, se non sbattendolo violentemente contro la banchisa, togliendogli il fiato che gli restava nei polmoni.
Aveva spinto i muscoli delle gambe in uno sforzo enorme, era riuscito a liberarsi del gelido abbraccio del Kraken ed era risalito in superficie.
Una volta raggiunta si era reso conto che stava boccheggiando, qualche istante ancora e non sarebbe riuscito ad emergere per riprendere fiato.
Le energie erano al limite sentiva le gambe cedere, con le poche forze rimaste si era arrampicato lungo la parete di ghiaccio e si era spinto di nuovo a cercare.
In corpo non aveva altre forze a cui attingere. Erano solo la mente ed il suo cuore, era la disperazione, a spingerlo a muovere ancora dei passi. Ormai aveva capito bene che il suo Isaak non era più lì, tra i ghiacci della Siberia.
Lo avvertiva ancora. Ma nel suo cuore si stava facendo strada la consapevolezza che non lo avrebbe ritrovato.
Del suo Isaak, gli sarebbero restati solo ricordi. Strinse i denti. Strinse le palpebre tanto da farsi male. Neanche una lacrima cadde dai suoi occhi.
Restano solo più i ricordi, gli ripeteva una voce in lui. Quei ricordi che Camus avrebbe rifiutato. Non avrebbe mai riavuto Isaak. Pensò che non sarebbe mai riuscito a perdonare Hyoga. 
Li aveva perduti entrambi, in un solo istante. Il respiro ed il battito accelerarono per un attimo.
Poi la vista si annebbiò. Davanti a lui credette di vedere Isaak. Allungo una mano per afferrarlo, poi cadde nel buio. 
 
Milo lo aveva ritrovato così.
Dal loro ritorno, dopo che si erano separati, aveva avvertito il suo cosmo affievolirsi poco a poco, e infine, assecondando la sua inquietudine, aveva chiesto aiuto a Mu per raggiungerlo. 
Giunto in Siberia, seguendo la traccia debole del cosmo di Camus, lo aveva trovato immerso e sommerso dalla neve, quasi assiderato. 
 
Lo aveva sollevato e, una volta giunto all'isba, con lui esanime tra le braccia, era entrato.
 
L'interno era quel piccolo rifugio era sembrato da subito inospitale, al contrario di ciò che ricordava, un nido sempre caldo, piccolo, modesto, ma accogliente, con le voci dei ragazzi e di Camus, ed il tè caldo, ad attenderli al rientro dagli allenamenti.
Perché il calore perso va recuperato, sempre e conservato. E' questo che ti salva la vita tra i ghiacci, il calore.
Ora invece era freddo, silenzioso, vuoto, non c'era traccia dei suoi due allievi né del calore, di cui era un piccolo tempio.
Lì per li, date le condizioni critiche dell'amico, aveva sottovalutato quel particolare. 
 
Il respiro di Camus era a tratti affannoso a tratti apneico, la temperatura corporea era bassa, troppo anche per lui, che dominava le energie fredde.
Milo lo aveva spogliato rapidamente dei vestiti bagnati che gli si erano congelati addosso, lo aveva avvolto nelle coperte e, dopo aver acceso il fuoco, gli aveva misurato la temperatura, era inferiore a 35°. Il termometro che aveva usato era poco affidabile, poteva essere addirittura più bassa. Possibile che tu non avessi un termometro più preciso?
Ma non c'era davvero tempo da perdere. 
Mentre lo spogliava aveva osservato le ferite riportate nella missione. Non erano state curate. Neanche disinfettate. Da quando lo aveva visto l'ultima volta non si era neanche cambiato. Non si era affatto preso cura di sé da quando era rientrato. Doveva essere accaduto qualcosa di grave, di molto grave.
Per aiutarlo a recuperare calore si era sfilato la maglia e, dopo avere avvolto entrambi nelle coperte, lo aveva stretto a sé, vicino al fuoco. La pelle di Camus era così innaturalmente fredda, sotto le sue dita il suo battito era irregolare. 
Aveva preparato del tè caldo, per farglielo bere non appena di fosse un poco ripreso.
"Svegliati! non mollare!"
Poco dopo Camus aveva iniziato a muoversi in modo del tutto involontario e scoordinato, e non rispondeva ai suoi richiami.
Era trascorsa quasi un’ora quando, finalmente, lo aveva sentito gemere e lo aveva scostato un poco da sè.
"Camus... Ci sei? Che cosa e' successo?"
Lui sembrava emergere da un mondo lontano era visibilmente confuso, provato. I suoi occhi erano spenti
"I-Isaak" riuscì a mormorare, poi farfugliò qualcosa di incomprensibile.
"Non addormentarti, bevi... Coraggio... Camus"
Stava di nuovo perdendo i sensi, ma il calore del tè ed il sapore dolcissimo, Milo aveva volutamente esagerato con lo zucchero, lo invitarono a bere ancora.
Per Milo fu un sollievo, stava riuscendo a fargli sorseggiare del tè caldo. L’altro ancora non era lucido, di tanto si agitava e l'unica cosa che lui riusciva a comprendere era il nome di Isaak, ora invocato ora gridato con le poche forze che aveva. E poi Kraken.
Quella parola fu un colpo al cuore, che gli spezzo il fiato.
Aveva urlato Isaak e Kraken nella stessa incomprensibile frase.
"Cosa e' successo ad Isaak... Camus?"
Era troppo confuso per rispondere. Tremava e farfugliava parole incomprensibili. 
Ma, in fondo, a Milo non serviva sapere altro, perché era già chiaro che cosa fosse accaduto.
Tornò a stringerlo a sé, rendendosi conto che l'assenza dei suoi ragazzi, stavolta,  non era solo il frutto di una delle loro trovate, una delle fughe rocambolesche che mettevano in atto quando lui si allontanava e che poi costavano loro ore di estenuante allenamento in più. 
Milo guardò preoccupato quel viso pallido. Sapeva che cosa lo stava divorando di dentro. Lo strinse, gli accarezzò il viso
"Camus… dove sono i tuoi ragazzi?"
Gli occhi Camus erano serrati e così rimasero, un tremito delle labbra, di tutto il suo corpo precedette a sua risposta
"Pe-perdu-ti"
"Cosa e' successo Camus? …Camus…Riesci a….Camus? Dov'è Hyoga?"
Aveva cercato i suoi occhi e ripetuto la domanda
“Va-scello”
“Dov'è Hyoga?"
"E' vivo..."
"Dov'è? Lo sai?"
"L'ho porta-to al villaggio ..Ka-tya"
Hyoga era in buone mani in quel momento, ed il suo cosmo era meno debole di quello di Camus, che avvertiva appena, nonostante fosse così vicino
"Isaak?"
" I-Isaak... e' ...l'ho p-perso... ..M-Milo"
In poche parole Camus aveva racchiuso tutta la sua disperazione. Il suo mondo era stato spazzato via dal gesto folle di Hyoga. Ne avevano parlato spesso della sua mania. Mai, mai Milo avrebbe pensato che davvero il ragazzo sarebbe arrivato a gettarsi davvero in mare per cercare la madre defunta... E invece lo ha fatto. Ha cercato di raggiungere il vascello. Stupido cocciuto. E Isaak, più forte, si era sicuramente tuffato per riportarlo indietro. E ci era riuscito, se Hyoga ora si trovava a Kobotec, ma doveva essere stato trascinato poi dalle correnti... Fino a perdersi... Ma il suo cosmo era ancora vivo. Anche se lontano. Troppo lontano ormai.
Tornò a guardare Camus, i cui occhi erano di nuovo persi nel vuoto, lo vide serrarli e stringere i denti. Lo senti irrigidirsi in tutto il corpo
"Calmati"
'Non ... Non c'è ... più..." Poi lo senti abbandonarsi completamente. Aveva perso i sensi. Il dolore era stato eccessivo. Camus, sfinito per le lotte e per l’estenuante ricerca del suo allievo, aveva ceduto.
Lo avvolse per bene nelle coperte. Spense il fuoco e lo sollevò dopo essersi rivestito e aver indossato il giaccone. Lo prese tra le braccia. 
Restare lì gli avrebbe fatto solo altro male. Lo portò con sé al tempio.
 
 
Dopo un paio di giorni, in cui aveva versato in uno stato di semi coscienza, in cui aveva alternato confusione totale con brevi momenti di lucidità, finalmente aveva riaperto gli occhi, vividi e lucidi. 
Mu lo aveva aiutato a sedersi e, con Milo, lo avevano aiutato a tirare fuori quanto accaduto, o meglio, quanto era riuscito a ricostruire.
 
Successivamente Milo stesso si era recato personalmente al villaggio di Kobotec, dove Katya gli aveva confermato quanto già sapevano essere accaduto.
La ragazza aveva detto che Hyoga aveva ripreso i sensi e le aveva raccontato tutto tra le lacrime, non riusciva a farsi una ragione del male che aveva causato. Sapeva che Camus non aveva voluto prendersi cura di lui, Hyoga sapeva che il suo maestro non poteva perdonargli di aver causato la perdita di Isaak. Nemmeno lui se la sarebbe mai perdonata.
"Come sta lui?" aveva chiesto Katya, sottovoce
"Camus sta piuttosto male... ma di' al ragazzo che il suo maestro ha un cuore grande"
"Tornera'?"
"Per ora no… deve ancora rimettersi… E' quasi morto assiderato nel cercare Isaak ed era già ferito...E... Credo gli serva tempo per accettare questa perdita..” tirò fuori dalla tasca una busta bianca “dagli questa" le aveva consegnato una lettera per Hyoga, una lunga lettera da parte di Camus.
 
Erano passate alcune settimane. Questa situazione non era semplice e non si sarebbe risolta certamente nell’immediato.
 
Col passare dei giorni, infatti, Camus si era fatto più freddo e distaccato di quanto già non fosse.
Non menzionò più Isaak, né Hyoga, né quanto fosse accaduto, nemmeno con il suo più caro amico.
 
Milo sapeva che, come tutto ciò che lo faceva soffrire, anche Isaak e, probabilmente, Hyoga con lui, erano stati seppelliti in un anfratto della sua anima. Sepolti in un abisso dal quale lo avrebbero straziato all'infinito, senza che da Camus trapelasse alcun segno di tutta quella sofferenza.
Anzi, qualcosa all'esterno era evidente. Una scorza più dura. Aveva edificato una nuova barriera su quella esistente tra lui e il resto del mondo, se mai ce ne fosse stato il bisogno.
Camus avrebbe avuto bisogno di calore. Invece lo stava respingendo più di prima.
 
Milo si sentiva allontanare ogni giorno di più. Il cavaliere di Aquarius stava diventando un’isola inavvicinabile, in balia della tempesta che aveva dentro e che gli impediva di rivolgersi verso l’esterno. Niente di ciò che capitava intorno ormai lo scalfiva.
 
Era tornato all'undicesima casa. Aveva fatto rapporto sulla missione e di quanto accaduto in Siberia. Nessuno, nemmeno Milo, aveva saputo che cosa si fossero detti lui ed il Pope, quando era andato da lui per rapportare il tutto.
 
Eseguiva il suo dovere di Saint con assoluta dovizia. Irreprensibile. Inattaccabile. 
 
Il suo cuore, il cuore di Camus, era stato sommerso dal ghiaccio. Milo aveva impiegato innumerevoli anni e non poteva contare i tentativi falliti per arrivare a toccarlo quel cuore. A sentire nelle sue mani la fragilità di quell’anima. Camus, un tempo, gli aveva permesso di conoscerlo. Di superare la barriera e ascoltare il suo dolore. Camus aveva sofferto tanto, nella vita. Strappato poco più che bambino ai suoi affetti, facendolo credere morto, era stato avviato sulla strada di Saint dell’Acquario da un uomo privo di scrupoli, privo di pietà, che lo aveva iniziato ai ghiacci facendo su di lui una violenza inaudita, di cui Camus portava i segni addosso, come indelebili cicatrici che non risparmiavano alcuna parte del suo corpo.
La fiamma che ardeva in lui, che Milo aveva appena accarezzato e cullato, era circondata dal gelo che, adesso, poco a poco, l'avrebbe divorata fino ad estinguerla.
Spenta quella debole fiamma che ancora resisteva, la preziosa umanità, la dolcezza di Camus, sarebbero state perse per sempre, con Isaak ed Hyoga e tutto ciò che Camus custodiva dentro di sè. Ti prego lascia che ti aiuti.
 
Milo non voleva, non poteva rassegnarsi a perderlo, così lo assediava ormai da giorni per convincerlo ad andare a bere qualcosa a Rodorio con Endien. 
 
Il ricercatore, il cui padre era originario di Rodorio, era amico di Milo fin dall'infanzia.
Spesso Tempio aveva incaricato Endien di svolgere missioni, in collaborazione con alcuni professori dell'Università di Atene.
 
Era rientrato da poco da un campo archoeologico e sicuramente Milo gli aveva parlato dell'accaduto. I due facevano squadra quando Milo era in difficoltà nello stanare Camus. A loro talvolta si univa Umbriel, che aveva lo speciale potere di mandare Camus in furia con poche battute, situazione che permetteva agli altri due di farlo capitolare.
Camus aveva legato con entrambi gli amici del cavaliere di Scorpio, anche se solo Milo era in grado di leggergli dentro, sebbene lui non sapesse in quale modo riuscisse a farlo.
 
Quella sera aveva subito l'ennesimo assalto da Milo. Erano seduti sui gradini dell'undicesima casa.
"No Milo, stasera resto qui, sto bene da solo"
"No non e' così e lo sai!... Ti stai richiudendo in te stesso e non ti fa per niente bene...credimi maledizione!"
"Stasera non sarei una buona compagnia"
"Ma tu non lo sei mai... Camus" aveva provato a provocarlo, ma la sua reazione-non-reazione gli aveva tagliato le gambe
"Allora non ci perdete nulla se resto qui.. divertitevi Milo... Salutami Endien"
"Ci sarebbe anche Umbriel"
"Lo so, mi ha CHIAMATO” calcò il fatto che Umbriel gli avesse fatto una lunga telefonata, e rincarò la dose, tanto per non lasciare spazio ai dubbi “Lo sanno già... E chissà chi glielo ha riportato...”
Milo fece spallucce. Chi vuoi che glielo abbia detto.
“E tanto per essere chiari... non mi sta bene che tu gli dica cose che riguardano solo me..."
"Sono tuoi amici come lo sono io" aveva strepitato Milo “sono… SIAMO preoccupati per te”
"loro non sono Saint e soprattutto non voglio che gli racconti cose che riguardano me. Solo me... NON te… NON Endien e NON Umbriel." Adesso sì, che si stava scaldando il ragazzo. Milo era scattato in piedi, e sovrastava Camus seduto come a volerlo schiacciare
"Fammi capire Camus... ho fatto male a venire a cercarti?!?  Avrei dovuto restare qui mentre tu morivi?! E' questo che stai cercando di dirmi? E guardami maledizione!"
Gli aveva preso il viso con una mano e lo aveva sollevato a forza verso di sé
"Si avresti dovuto fare così" gli occhi di Camus erano freddi, del tutto inespressivi
"Sei proprio un coglione"
Milo lo aveva spinto fino a terra, gli aveva volutamente fatto sbattere la testa sulla pietra, non tanto da fargli danni, ma abbastanza perchè ricordasse quel momento per qualche giorno toccandosi la nuca, e se ne era andato. E lo aveva lasciato così. Solo. Schiacciato a terra, con gli occhi spenti rivolti al sole che tramontava. Era rimasto lì. Immobile, svuotato, per un tempo indefinito.
 
A sera inoltrata il cielo si era fatto scuro. Camus si sentiva morire dentro ed insieme avrebbe voluto esplodere. Aveva provato a mangiare qualcosa ma il suo stomaco era chiuso. Gli girava la testa, probabilmente perché non mangiava nulla dal giorno precedente, si era fatto una doccia gelata, ma non ne aveva avuto alcun giovamento, aveva aperto l’acqua calda, bollente. Odiava la doccia calda. Non si era preoccupato di asciugarsi. Era uscito dal bagno e si era buttato sul letto sfatto. Aveva provato a leggere ma un istante dopo il libro era volato verso il muro, spaccandosi in due. Peccato, era uno dei suoi preferiti. Si rese conto che stava perdendo il controllo su di sé.
Chiuse gli occhi e si impose di respirare profondamente. I capogiri non lo lasciavano, tuttavia si era vestito, con i primi abiti che aveva trovato a portata di mano, non necessariamente puliti, ed era uscito nel buio della sera autunnale.
Aveva sceso le scale delle dodici case ed era arrivato a Rodorio. Sapeva bene dove fossero i suoi amici. Sapeva che se li avesse raggiunti forse, ne sarebbero stati contenti, ma non riusciva a convincersi a farlo. Nella sua mente sentì il calore della risata di Milo, avvertì il desiderio di sentirla anche nelle sue orecchie quella risata, perché gli scaldava l’anima, ma prese la strada per il porto, che distava parecchio dall’abitato. 
 
Percorse tutta la banchina, fino al frangiflutti. Scese tra gli scogli, fin quasi alla spiaggia. Negli anfratti, tra un masso e l’altro, si accumulava tutto ciò che le persone gettavano in mare, e non solo in mare, come rifiuto. In un altro momento li avrebbe maledetti. Adesso invece si costrinse a non pensare oltre, a non lasciare che la sua mente vagasse, che tornasse a quel giorno, a ciò che lui invece aveva PERDUTO in mare.
Sedette su un masso, portandosi le ginocchia verso il petto e circondandosi le gambe con le braccia. Affondò la testa nelle sue ginocchia. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Serrò le palpebre e le cacciò indietro.
Non faceva freddo quella sera e lui non avrebbe comunque potuto, non avrebbe dovuto, provare brividi di freddo in Grecia, lui, che era abituato a temperature ben più rigide. Tuttavia Camus tremava.
Sollevò il capo guardando, nemmeno lui sapeva cosa, verso l’orizzonte che si stagliava di fronte.
In lontananza fulmini facevano presagire l'arrivo imminente di un temporale. Lo vide avanzare, poco a poco, verso terra, dal mare, prima giunse il vento, dopo a breve distanza, fu la volta della pioggia che cominciò a cadere, dapprima leggera, come una carezza, sulla sua pelle, sui capelli, poi più insistente, concentrata, e adesso la sentiva colpirlo goccia a goccia con violenza.
I pochi, rari, turisti che si erano avventurati ad ammirare la notte al porto erano fuggiti velocemente, proteggendosi con giacche e ripari di fortuna. Camus non si era mosso di un centimetro. Era rimasto lì, da solo. Era rimasto seduto rivolgendo il viso al cielo, accettando quei piccoli colpi sulla pelle. I capelli in un attimo gli si erano incollati in testa, sulla faccia. Li aveva scostati continuando a cercare la pioggia. Quasi potesse lavare via da lui, dal suo corpo, dal suo cuore, quel dolore, il torpore che lo avvolgeva, quell’odore di fumo che ancora si sentiva addosso da qual giorno a Kobotec.
Gli abiti ormai erano completamente inzuppati. La temperatura dell’aria si era raffreddata. Sulla sua pelle accaldata sentiva raffreddarsi il tessuto.
Quella sensazione gli ricordava quando, immerso nella nebbia dell'incoscienza, era circondato dal freddo, quando il calore del suo corpo era scivolato via, assorbito dalla neve, si sentì esausto come allora.
Quel giorno, se Milo non lo avesse soccorso, non sarebbe sopravvissuto.
Stavolta non rischiava certo l'assideramento, tuttavia di stava sentendo morire dentro. Milo non sarebbe arrivato stavolta, era offeso dalle sue parole.
Abbassò gli occhi. Ascoltò il rumore della pioggia che scrosciava. Osservò le gocce che si infrangevano sulle rocce al chiarore debole delle luci lontane. Le gocce che si schiantavano con violenza in mare. Acqua nell’acqua. Le gocce che colpivano le sue mani per poi cadere in piccoli rigagnoli.
Sarebbe rimasto così, ad osservare la pioggia come se dalle geometrie che disegnava sulla superficie agitata del mare potesse indovinare il futuro, come se la schiuma biancastra potesse riportargli… Isaak e Hyoga.
Nascose di nuovo la testa tra le ginocchia. Di nuovo serrò le palpebre e trattenne il respiro.
Una forte emicrania aveva iniziato a martellargli le tempie.
Era concentrato a trattenersi, molto concentrato, tanto da non rendersi conto che, al rumore ipnotico delle pioggia, si era sovrapposto un lieve guaito, che poco a poco si intensificò.
Sollevò lentamente il capo, gli occhi semichiusi.
Trasalì.
Non si aspettava di vedere ciò che i suoi occhi stanchi stavano osservando. Ne fu sorpreso, per un attimo inarcò le sopracciglia, contrariato. Cosa mi sta succedendo? Sono un cavaliere d’oro… e… e mi faccio prendere alla sprovvista… da un cane?
 
Chissà da quanto tempo era lì, certamente pochi secondi, almeno prima che lui si accorgesse del guaito, però. La bestiola lo stava osservando da chissà quanto tempo?
 
Camus lo guardò a lungo, senza muoversi. Sentiva la testa dolente e pesante.
Il cane era fradicio, come lui. Il lungo pelo gocciolava in ogni punto incollato al corpo. Eppure se ne stava lì, tranquillo, sotto la pioggia, a pochi centimetri dal punto in cui le onde si infrangevano sui massi.
Era lì, seduto di fronte a lui. Immobile, come lui. La bocca appena aperta e la linguetta fuori, rosea.
Guaì più forte, alzando una zampa e sbattendo la coda nella schiuma del mare, che di tanto in tanto lo raggiungeva, ma sembrava non turbarlo, dato che tutta la sua attenzione era catturata da LUI.
Abbaiò una volta, verso Camus. Poi, vedendo che non otteneva alcuna reazione, abbaiò un’altra, e un’altra ancora. La zampa alzata. Occhi nei suoi occhi.
Camus allungò lentamente una mano.
Il cane istintivamente si allontanò, senza però perdere il contatto visivo con lui.
Abbaiò di nuovo, ora dritto sulle sue quattro zampe, scodinzolando ma arretrando lentamente. Sembrava diffidente. Che ragioni ha di fidarsi di me?
Ritirò la mano, appoggiò la testa alle ginocchia. Le gambe e iniziavano a dolore nel rimanere seduto in quella posizione. Ma non gli importava. Camus osservava il cane e questi osservava lui.
Poi chiuse gli occhi. Sarebbe andato via così come era venuto. Sotto la pioggia. Bagnato fino nell’anima. Come lui. Chissà se apparteneva a qualcuno. Se qualcuno lo stava cercando oppure se si era smarrito e nessuno mai lo avrebbe ritrovato. Come me. Serrò le palpebre.
Avvertì un primo colpetto, sulla fronte e subito dopo un altro, un poco più forte. Sollevò il viso. Una zampa si posò con impeto sulle sue mani, avvertì un’unghia rigargli la pelle.
Non era andato via.
Il tartufo bagnato si appoggiò al suo naso. Poi il cane si fece largo, slegando le sue braccia dalle gambe, allargando le sue ginocchia fino ad arrivare a lui, a toccare con il muso la base del suo collo, costringendo Camus a poggiare le sue mani sul suo dorso.
L’odore del pelo bagnato. Da quanto tempo quel ricordo era seppellito in fondo alla sua anima. Istintivamente lo abbracciò stringendolo a sé, affondando il viso nel mantello del cane. Odore di pelo bagnato.
Non si rese conto che gli sfuggì un singhiozzo. Poi un altro. E ancora. Poi pianse, finalmente, tutta la sua disperazione. Il grosso cane lo lasciò fare, non ebbe timore quando la sua stretta si fece più forte, né quando urlò forte il nome di Isaak e Hyoga con il viso affondato nel suo pelo, che sentì quella voce entrargli nella carne. Non si mosse, perché il cucciolo che aveva trovato era smarrito e aveva paura e probabilmente quel pianto era la sola cosa che potesse fare per comunicare a lei quanto avesse bisogno di aiuto.
Oro la sentiva la paura che trasudava dalla sua pelle. Lo sentiva tremare mentre le sue mani si aggrappavano a lei. E lei era lì, e non sarebbe andata da nessuna parte finchè lui non si fosse calmato, poi lo avrebbe costretto ad alzarsi. Poi lo avrebbe condotto a casa. Perché casa odorava di buono. Perchè a casa non c’era paura. Perché a casa c’era una mano che accarezzava con dolcezza ed era sicura. E anche lui sarebbe stato bene. A casa. Non avrebbe più odorato di paura, non avrebbe più tremato. Perché quando Oro era arrivata a casa aveva dimenticato paura e fame e freddo. A casa. A casa c’era anche una cuccia calda, asciutta e morbida su cui dormire. E una più grande, segreta, al piano di sopra, che odorava di buono. Ma lì, lì, no, non lo avrebbe portato, perché quella era sua ed era un segreto.
 
Gli leccò il collo, dietro un orecchio. Facendogli solletico. Lui mosse la testa, ma non si allontanò da lei. Odore di pelo bagnato. Il cucciolo sembrava più tranquillo ora, le mani che prima la stringevano piene di angoscia adesso accarezzavano il suo pelo, i singhiozzi si stavano acquietando. Gli leccò il viso. La pioggia che bagnava le sue guance aveva un sapore diverso da quella che sbatteva sul suo tartufo nero.
Infine lo richiamò.
Si allontanò all’improvviso, fece qualche passo e si voltò indietro
Camus era ancora lì seduto, con il viso sfatto dalla pioggia e dal pianto e nelle narici il suo odore
“mi lasci qui?”
Tornò verso di lui, prese tra i denti la sua manica e iniziò a tirare, dapprima lievemente, poi con decisione, costringendolo ad alzarsi. Le gambe dolevano e subito le sentì cedere, si aggrappò al grosso cane. Lei rimase lì a sostenerlo, finchè lo sentì reggersi da solo. Poi prese il bordo inferiore della maglia e lo tirò ancora
“dove vuoi andare?”
Camminava lentamente, risalendo la strada che dal porto riportava all’abitato. Il grosso cane si assicurava che lo seguisse, di tanto in tanto lo tirava afferrando la maglia o i pantaloni, a volte con troppa foga pizzicandogli la pelle
“piano, ti seguo…”
La testa doleva e avrebbe voluto soltanto chiudere gli occhi. Era stanco e infinitamente debole. Milo aveva ragione. Si stava lasciando andare e non poteva permetterselo. La salita gli aveva spezzato il fiato. Il cane aveva allungato il passo e anche lui aveva dovuto aumentare l’andatura.
Si erano addentrati in un sentiero che conduceva al bosco, e dopo, seguendo percorsi noti a pochi, lui sarebbe tornato al tempio.
La pioggia aveva continuato a cadere. Chissà se Milo era già tornato e si stava godendo il sonno dei giusti, come lo chiamava lui, il suo dormirci su quando litigavano. Perché Milo non aveva mai torto e lui mai ragione. Sorrise amaramente rendendosi conto che nella maggior parte dei casi era proprio così. Il cane drizzò le orecchie. Poi iniziò a scodinzolare.
Camus si voltò nella direzione verso la quale si era rivolto il cane.
Una persona stava camminando sotto la pioggia. Era incappucciata e avvolta in un improbabile impermeabile rosso fuoco. Il cane aveva iniziato a scodinzolare con più energia e a guaire quasi impercettibilemente
“sei scappato?” chiese Camus
Doveva averli visti, quella persona, perchè aveva iniziato a correre, anche il cane era andato di gran carriera verso di lei.
“Oro!”
L’aveva chiamato e si era inginocchiata ad abbracciarlo.
Camus sorrise. Restò lì, per qualche minuto, si sentì abbandonato. Deluso. Che stupido. Era davvero stupido provare una simile sensazione. Era solo un cane. E quel cane era di qualcuno. E ovviamente era tornato a casa. Sentì di nuovo le lacrime farsi strada furtive tra le sue ciglia. Basta. Si impose a sé stesso. Si voltò e iniziò a risalire il sentiero lentamente. La stanchezza che già sentiva gli era crollata tutta improvvisamente sulle spalle, ora che la strada che conduceva al tempio, avrebbe dovuto percorrerla solo.
Si sentì afferrare di nuovo all’improvviso e si voltò
“Oro! No!... lascialo!”
Li aveva raggiunti, ma non abbastanza velocemente per impedire al cane di agguantare di nuovo Camus per la maglia, alle spalle
“le ha fatto male?”
Subito non rispose, perché il cane si era alzato sulle zampe posteriori e appoggiato quelle anteriori su di lui
“Oro, no! ferma! ... mi scusi… mi scusi… le ha fatto male?”
Non le aveva ancora risposto. Alzò lo sguardo incrociando il suo
“no”
Sorrise imbarazzato.
“non mi ha fatto niente”
Il cane abbaiò. Verso di lui. Poi si diresse verso casa.
Superò la recinzione infilandosi nell’angusto spazio tra questa e un cespuglio di mirto.
Abbaiò di nuovo scodinzolando nella loro direzione.
Camus sospirò involontariamente. Lui non avrebbe voluto andare via. Avrebbe DOVUTO prendere la via che conduceva al tempio. Stava facendo violenza su stesso per riprendere quel cammino. Ma aveva bisogno di sentire ancora l’odore di pelo bagnato e di provare, di sentirsi addosso, un po' di quel calore. Come prima sulla spiaggia. Sotto la pioggia. Ma il cane era già andato oltre la recinzione. Il cane era tornato a casa. Lui no. Lui aveva perso la sua Casa. Per sempre.
La ragazza si voltò ad osservarlo. Mentre lui guardava a terra.
Era fradicio, bagnato senza pietà dalla pioggia che continuava a cadere imperterrita. Aveva gli occhi gonfi e il viso arrossato, probabilmente aveva la febbre o aveva freddo. Le aveva riportato Oro. Poteva voltargli semplicemente le spalle? O forse era Oro ad avere portato lui?
Non sarebbe stata la prima volta che Oro portava a casa qualcuno. Un mese prima, più o meno, poco dopo il suo arrivo a casa, aveva condotto lì una vecchietta che era uscita giorni prima di casa, a Rodorio, senza ricordare chi fosse o dove abitasse. L’aveva condotta da lei in una notte di pioggia, proprio come ora. Quella persona aveva bisogno di aiuto e lei non glielo aveva negato. Ma la vecchietta era indifesa e lei l’aveva accolta in casa, dandole un letto ed un pasto caldo, e conducendola al posto di polizia la mattina seguente, dove aveva ritrovato i suoi famigliari.
Lui … beh, lui era un uomo, intanto, e sotto gli abiti leggeri appiccicati al corpo dalla pioggia, aveva muscoli ben delineati, indifeso proprio no. Tuttavia non aveva un aspetto minaccioso, sembrava piuttosto un pulcino bagnato, nonostante i muscoli, nonostante la statura, la sua forma statuaria. Era quel viso triste, abbattuto, a dargli quell’aspetto. E poi c’era Oro che sembrava chiamarlo, invitarlo ad entrare, a seguirla. Oro era tornata sui suoi passi e abbaiava, insisteva, lo aveva di nuovo preso per l’orlo della maglia. Ma lui adesso era fermo, non si muoveva né la invitava a lasciarlo andare. Sembrava attendere una sua decisone.
Non poteva seguire Oro, certo, se non fosse stato invitato dalla padrona di casa ad entrare. E in cuor suo ci sperava. Sapeva che non lo avrebbe  fatto,  ma ci sperava, in quell’invito, per poter ricevere ancora quell’affetto che lo riportava ad un tempo in cui non conosceva la sofferenza. Questa sofferenza.
Lei era indecisa. Il guaire di Oro in mezzo alla strada e questo ragazzo bagnato come un pulcino, visibilmente stanco, in piedi sotto la pioggia, a fissare un punto sotto i suoi piedi. E pensare che potevo essere a casa di Ariel a guardare l’ultima puntata della serie…Che situazione assurda.
Ma davvero, dopo quel giorno, dopo quello che era successo secoli prima, davvero poteva pensare che l’assurdo non facesse parte della quotidianità della vita di chiunque? Della sua? Eppure adesso era lì, da sola, con uno sconosciuto di fronte, indecisa se aprigli o meno la porta della sua casa… poteva fidarsi dell’istinto di un cane? Di QUEL cane? Di ORO? Assolutamente sì, si disse. Mi difenderai tu se dovesse rivelarsi una cattiva persona. Lo prederai e lo caccerai, e tu sai mettere paura
Allungò una mano verso di lui.
“non vuole che te ne vada… ti va una cioccolata calda? Mi sembri infreddolito” gli sorrise
Camus fu sorpreso. Avrebbe dovuto dire no. Perché era suo dovere tornare al Tempio, anche se nessuno gli aveva imposto di dormire al tempio quella o altre notti, dato che non c’erano minacce in corso.
“io… non  ..non disturbo?”
Scosse la testa “no” sorrise, aprì il cancello, e lo invitò ad entrare. Camus era evidentemente imbarazzato, non meno di lei, che gli fece strada senza riuscire a spiccicare un’altra parola.
Si sentiva in debito verso di lui e, se lo avesse semplicemente ringraziato e lasciato lì, sotto la pioggia, si sarebbe sentita in colpa verso quello sconosciuto che le aveva restituito il tesoro trovato tra le rovine della città colpita dall’eruzione.
Or de ruines. Così l’aveva chiamata quando finalmente l’aveva presa in braccio, e prendere in braccio quel cane, che non era esattamente tascabile, e portarla fino al campo base, era stato faticoso, ma non l’avrebbe lasciata
“mettila per terra, pesa quasi come te”  aveva detto Umbriel
“quanto vuoi che pesi, povera bestiola”
L’aveva allontanata dalle macerie tra le quali si aggirava, era riuscita ad ottener la fiducia di quel cagnolone diffidente, adesso non sarebbe più stata sola. Lei o io?
Oro abbaiò nella loro direzione festosa, corse verso Camus, gli diede un colpetto sotto la mano, poi corse in avanti, raggiungendo la porta, mentre lei l’apriva, si scrollò l’acqua di dosso” nooo! No! si fa prima non sull’uscio! mentre apro la porta!...io e te domani parliamo” Camus sorrise. Lei avrebbe parlato con Oro. Anche lui parlava sempre con Baron, da bambino.
Poi la ragazza si voltò verso di lui, ancora sotto la pioggia
“vieni”
“io non sono molto più asciutto…” stava gocciolando davanti all’ingresso
Scosse la testa, gli sorrise ed allungo la mano, nella sua direzione, stavolta lui l’afferrò, e si lasciò guidare. Entrò. Oro gli stava già portando uno dei suoi giochi.
“dopo Oro, prima si deve asciugare…” poi si rivolse a lui “aspetta un momento”
Corse sulle scale, aveva lasciato un perfetto sconosciuto da solo in casa sua. E sì che c’era Oro, ma la cosa un poco, in fondo, la turbava.
Cacciarlo fuori adesso, anche se era assalita dai dubbi, era fuori discussione. L’avrebbe presa per una pazza. Anche per averlo fatto entrare, forse, l’avrebbe presa per una pazza, o forse avrebbe frainteso. Si diede della stupida. No, non ci aveva pensato. Ma sembra piuttosto stanco, non credo abbia strane intenzioni. Ma stai attenta si disse. Guardò il suo telefono. Forse avrebbe potuto chiamare Endien, e, se fosse stato ancora sveglio e in vena di uscire, avrebbe potuto invitarlo da lei. Lui, sì, avrebbe certamente frainteso, ma poi, trovandosi lo sconosciuto davanti, avrebbe capito. E mi darà della stupida. Avrebbe torto?
Agguantò un asciugamano e il cambio che l’amico aveva infilato nel suo zaino prima di tornare. Lei lo aveva lavato e stirato, ma lui non l’aveva ancora reclamato indietro, quindi poteva prestare tutto al pulcino bagnato, così da evitargli un raffreddore. Come si chiama? Ma neanche il nome gli ho chiesto? Cretina….
Scese di corsa le scale. La scena che le si parò davanti era così tenera che si immobilizzò a guardarla. Il ragazzo era seduto a terra, abbracciava Oro, che gli leccala il viso, proprio come avrebbe fatto con un cucciolo. Proprio come aveva fatto con lei, quel giorno.
Si abbassò vicino a loro. Oro doveva avere sentito che in lui non c’era niente di “sbagliato” Agasha ne era assolutamente convinta, Oro certe cose le sente, davvero. Come con la vecchietta.
Porse a lui asciugamano e ciò che Endien aveva lasciato nel suo zaino.
“sei tutto inzuppato, il bagno è in cima alle scale”
Lui la guardò con aria interrogativa
“ma..”
“… stai tremando”
Sì stava tremando. Aveva i brividi, anche se sapeva che non erano dovuti al freddo. Sperava che la debolezza che sentiva addosso non lo tradisse proprio in quel momento. Crollare lì, avrebbe complicato molto le cose a lei, e non era ciò che Camus voleva. E’ così gentile. Salì le scale, si spogliò dei suoi abiti fradici, era bagnato fino alle mutande.
Si chiese se non fosse troppo permettersi di fare una doccia. Calda. Ne aveva bisogno. Svenire o sembrare sfacciato. Scelse la seconda opzione.
Aprì l’acqua e si sentì scaldare la pelle. Giusto un istante. Si vestì e scese le scale.
Lei era seduta a terra, con Oro che la guardava adorante mentre si godeva le coccole e qualche biscotto
“non devi scappare, ti ho cercata ovunque.. e se ti prende qualche malintenzionato…come…come torni a casa?”
La fronte contro la testa di Oro. Fortunata Oro. Fortunata Lei.
Alzò il viso verso di lui “va meglio?”
Annuiì. “Grazie”
“di nulla… sul tavolo hai la cioccolata..”
“non dovevi disturbarti tanto… è…troppo”
Il suo stomaco non era evidentemente d’accordo. Lo sentì brontolare anche lei “non credo …”
Rise
“mi spiace” rispose imbarazzato
“questo è uno stomaco che brontola perchè ha fame, non è sufficiente la cioccolata”
Si alzò e prese la scatola dei biscotti, portandolo davanti a lui sul tavolo
Oro ne fu subito attratta, corse verso di lei scodinzolando
“non sono per te”
“ecco” gli sorrise. Camus la osservò per un solo istante, poi abbassò gli occhi imbarazzato.
“grazie” non riusciva a dirle altro. Prese timidamente un biscotto dalla scatola. Poi si voltò. Di fianco a lui, Oro, perfettamente composta attendeva fiduciosa.
“se le dai quel biscotto, sappi che farete a meta dell’intera scatola, purtroppo non sono molti e in casa non ne ho altri, quindi valuta quanta fame hai tu, perché lei non ha fondo…”
Oro, ovviamente non era interessata a ciò che lei diceva. Lui sembrava indugiare. Aveva quel biscotto invitante in mano, profumava di mandorle, e la cagnolona che lo aveva soccorso era lì, e sembrava affamata almeno quanto lui, anche se era evidente che fosse viziata più che affamata. Lo spezzò a metà. Oro aveva già capito che spezzare il biscotto significava fare a metà. Il cucciolo non aveva deluso le sue aspettative. Lei rise.
Lui si rivolse alla ragazza
“posso darglielo?”
“certo… ma adesso non riuscirai a mangiarne uno intero, tu”
In effetti fu davvero costretto a fare a metà dei biscotti, e sì, in breve finirono la scatola.
Lo osservò, sembrava essersi riscaldato, ma il viso era ancora arrossato
“stai bene?”
“si.. adesso va… molto meglio… sei… sei molto gentile… e … io… mi spiace averne approfittato… scusami” abbassò lo sguardo mentre parlava
“non devi scusarti… mi hai riportato Oro… la cercavo da ore… sono io ad essere in debito” si avvicinò a lui “grazie…”
Gli sorrise. Ricambiò debolmente il suo sorriso. A malincuore parlò
“devo… devo andare…”
Si alzò, ma le gambe cedettero  e fu ancora Oro a sorreggerlo, poi lei lo guidò al divano dove lo fece sedere
Scosse la testa “mi è passato, è stato solo un capogiro”
“c’è qualcuno che ti aspetta? O che può venire a prenderti?”
Scosse la testa
“resta qui tranquillo”
Lo aiuto a distendersi e si rese conto di una smorfia di dolore, quando gli aveva toccato la schiena
“ti ho fatto male?”
“no…”
Lo coprì. Oro gli appoggiò il tartufo al naso
“lascialo tranquillo Oro”
“non .. non posso disturbarti ancora”
“non credo tu possa arrivare lontano così. Non ti reggi in piedi. Riposati un po', domani starai meglio e tornerai a casa”
Casa. Casa era in Siberia. Fino a poche settimane prima. Ora era solo una costruzione vuota. Strinse le palpebre e senti cadergli addosso di nuovo la sofferenza. Si sentì di nuovo soffocare dalla sua assenza. Nascose il viso nel cuscino senza rendersi conto che la ragazza era lì vicino a lui. Oro posò il muso vicino a lui uggiolando. L’umano stava di nuovo cadendo nella condizione in cui lo aveva trovato in spiaggia. La sua pelle odorava di nuovo di paura.  Eppure adesso era a Casa, non avrebbe dovuto avere paura. Uggiolò più forte. La mano di lui si posò sul suo mantello, ora morbido, lanoso, e la strinse a sé, raggomitolandosi verso di lei.
“stai male?”
Solo allora ricordò che la ragazza era lì, vicino a lui. Trasalì. In che condizioni si stava mostrando, un cavaliere d’oro? Dov’era finita la sua dignità?
Si alzò a sedere di scatto.
“piano, così crolli di nuovo, calma”
“devo…”
“andare?... senza qualcuno che ti accompagni non arriveresti lontano…dormi”
Si lasciò andare sul cuscino.
Lei  e Oro restarono lì, spense la luce e accese un abat-jore per non disturbarlo. Poi volse lo sguardo al cane. Sei attratta dai casi umani? La vecchietta, lui… una sorpresa al mese?
Poco dopo Oro si alzò e andò verso la sua cuccia
“no, vieni qua cane…”
Oro si alzò svogliatamente
“tu lo hai portato, tu lo vegli mia cara”
Sembrava essersi addormentato. Di tanto in tanto si muoveva in piccoli scatti. Prese un libro.
All’improvviso lo sentì agitarsi. Urlò un nome. Poi un altrò. Si svegliò grondante di sudore affannato. Tremava. Gli posò una mano sulla testa
“calma… è stato solo un brutto sogno…”
“no… no…non è stato… un sogno…”
Oro saltò sul divano, costringendolo a spostarsi un poco. Si accucciò vicino a lui, così che potesse di nuovo stringersi a lei, come aveva fatto sulla spiaggia. Perché l’umano tremava di paura non per il freddo. L’avvertiva nelle narici quella paura che l’umana non era in grado di distinguere così nettamente dagli altri odori.
Il ragazzo aveva cominciato a parlare, come un fiume in piena. A raccontare. A piangere e ad incolparsi. Il suo racconto era confuso, come confusi dovevano essere i suoi pensieri. Da quello che sentì si rese conto che il suo legame con il Grande Tempio era più vivo che mai. E’ uno dei cavalieri d’oro, senza dubbio. Che gli sia andato in pappa il cervello?
Non sapeva davvero che cosa fare. La chiamata fu indirizzata ad Endien. Squillò a lungo, prima che una voce assonnata, dall’altra parte rispondesse
 “Endien, benedetto Endien, vieni subito a casa mia! Non perdere tempo a fare domande”
“che succede?”
“muoviti, muoviti, te lo dico quando sei qui, sbrigati!”
“cosa sta succedendo Agasha?!”
“uno dei cavalieri d’oro… è a casa mia…una storia lunga, ti prego vieni, delira assurdità… parla di Siberia di kraken…non …non so cosa fare”
“arrivo subito, sto già salendo in auto, due minuti e sono lì… descrivimelo”
“che cosa”
“il ragazzo”
“ma che te ne frega della sua descrizione Endien! Ha il cervello in pappa!”
“come si chiama!?”
“non lo so… non gliel’ho chiesto”
“ma tu ti scopi uno senza neanche chiedergli come si chiama! ma Agasha!”
“no guarda non hai capito niente, va a dormire va!”
Gettò a terra il telefono, che fortunatamente si limitò a smontarsi. Tempo dopo, quello scatto lo avrebbe ricordato a lungo.
Tornò a concentrarsi su di lui che ora sembrava avere smesso di delirare. Si limitava a stringersi al cane e singhiozzare. Gli voltò il viso. Non stava piangendo. Probabilmente era dovuto all’agitazione.
La porta si aprì all’improvviso, Endien entrò di corsa e si abbassò sul ragazzo. Non la salutò nemmeno
“si chiama Camus”
“lo conosci?”
“si, è il cavaliere di Aquarius… è un mio caro amico”
“e’ completamente andato Endien, delira di Siberia Kraken… Ryoga… Isaac… ma vi siete fumati qualcosa di pesante a casa tua?...vi drogate? Bevete? Che fate?!... vi è scappato… l’ha portato fin qui Oro… non so dove lo abbia recuperato…”
Endien non le diede ascolto
“ma che drogarci?! Tu dai troppa retta alle cazzate che racconta Umbriel…Scusami, mi occupo di lui, e poi ti do tutte le spiegazioni, tranquilla è tutto sotto controllo. Prendimi dell’acqua, ha la gola secca… rantola”
Gli porse un bicchiere con cui lui cercò di far bere l’altro.
“Camus… Camus… svegliati un attimo” poi il ragazzo si rivolse al cane “Oro scendi” la risposta fu muta. Gli mostrò i denti. “Oro non si fa, scendi dai” la redarguì Agasha. Ubbidì.
Endien sistemò meglio Camus. Lo chiamò di nuovo, finchè aprì gli occhi
“Camus, sono…”
“E-Endien” poi si guardò intorno come spaesato, cercando di rialzarsi
“va tutto bene, sta tranquillo, sei a casa di una mia amica…bevi”
“ma…”
“…adessi stai tranquillo …dormi”
Lui si guardò intorno, poi allungò una mano verso Oro. Lei si avvicinò, spostando di fatto Endien. Gli mise il muso sotto il collo, poi, senza degnare lui di uno sguardo, d’altronde quella era Casa e lui era solo un estraneo, riprese il suo posto vicino a Camus.
“cos’è? Lo hai adottato?” la schernì Endien cercando di farla scendere dal divano
Gli mostrò nuovamente i denti ”guarda che questo non è cuccioletto indifeso”
“probabilmente per lei lo è, vedi di non farti mordere”
Endien sedette a terra, appoggiando la testa al divano. Lei si sedette al suo fianco, poggiandosi alla poltrona.
“come è arrivato qui?”
“cercavo lei da questa mattina”
“perché non me lo hai detto?”
“hai sempre troppo da fare”
“ma adesso mi hai chiamato nel cuore della notte”
“mi spiace, non sapevo che fare”
“è andata bene così, sono giorni che cerco di vederlo”
“come mai?”
“te ne parlerà lui, se …se vorrà spiegarti che cosa ci faceva un francese in Siberia e che c’entrano con lui Isaak, Hyoga, non Ryoga, e il Kraken… prova a chiederglielo, quando starà un po' meglio… se domani non dovesse ancora essersi ripreso…”
“se ci stai tu allora può stare qui anche lui, per tutto il tempo necessario. Da solo… da solo meglio di no… e poi sarebbe in imbarazzo. E anche io”
“lei  lo ha adottato”
“lei ama i casi umani evidentemente la vecchietta… lui…”
“te…”
“io non sono un caso umano”
“ma sei un caso strano”
“scusa?”
“vogliamo parlare di quello che c’è su quel tomo? E del fatto che sembra una reliquia storica che dovrebbe stare in un museo invece che nelle tue mani? E che sembra scritto dalla stessa mano e datato secoli, letteralmente, indietro?”
Restarono in silenzio.
Di tanto in tanto Camus gemeva.
“domani mattina verrà anche Umbriel sistemiamo la recinzione, così non scapperà più” Endien ruppe quel silenzio forzato
“meno male”
“eravamo preoccupati per lui Agasha… Oro ci ha fatto un gran favore portandolo qui…”
“mh”
“verrà anche un altro nostro amico, a darci un aiuto”
“ma siamo in tre Endien, abbiamo otto pali da piantare…”
“si ma con Milo faremo più in fretta”
“se lo dici tu”
“dormiamo un po'”
“e lui?”
“lui dorme e ha il quadrupede vicino. Se dovesse avere qualcosa che non va si farà sentire”
Lei si accoccolò sulla poltrona, lui prese qualche cuscino e si costruì un giaciglio di fortuna.
Spensero la luce.
 
Il giorno seguente Camus aprì gli occhi attirato dal profumo del caffè che si diffondeva nella piccola abitazione. Ritrovò un Milo sorridente vicino a lui, che lo abbracciò e lo strinse, e non ebbero bisogno di altre parole.
 
Milo, in effetti, non piantò un solo palo della recinzione, che fu sistemata da Umbriel ed Endien.
 
Milo restò con Camus, al quale Agasha offrì una tazza fumante. Davanti a quella bevanda calda e scura il ragazzo lasciò che le parole fluissero seza regole, a caso a volte, permettendo a Milo di comprendere ciò che era avvenuto non solo nei giorni scorsi, ma anni addietro e che aveva fatto di un ragazzino del tutto normale l’uomo chiuso e difficile che aveva di fronte.
Permise ad Agasha di comprendere tutta l’angoscia che aveva avvertito la notte precedente in lui. Lei aveva fatto una scelta, secoli addietro, dettata da ciò che provava per Albafica, da come lo aveva ridotto il giudice infernale, ma quel corpo devastato, tutte quelle ferite, non avrebbe voluto più vederle su nessuno dei Saint di Atena, nemmeno su questi ragazzi, che avevano raccolto l’eredità di quei coraggiosi guerrieri.
 
Gli strinse una mano “ritroverai il tuo allievo”
“io…potrebbe essere troppo tardi”
“che cosa ti dice il tuo cuore?”
A quella domanda i suoi occhi si fecero lucidi “lo ritroverò”
Lo avrebbe ritrovato davvero, a distanza di molti mesi, al termine della battaglia con l’altro suo allievo, nella quale lo aveva spinto a raggiungere il settimo senso, fino a farsi annientare.
Prima di spegnersi, aveva raccolto tutto il suo cosmo. Aveva percorso tutta la sua Costellazione e si era spinto fino a lui, con il suo corpo cosmico. Lo aveva avvolto e riportato all’isba. Isaak era finalmente a casa. Lui si era spento serenamente. Salvo ritrovarsi sveglio e raffreddato qualche giorno dopo. Ma c’è una ragione per cui le cose accadono, e c’è una ragione per cui la sua vita si è intrecciata con quella di questa ragazza, che lui scoprirà essere un’esperta di storia, mitologia e alchimia.
La proporrà, insieme ad Endien ed Umbriel al Gran Sacerdote in persona, che sta cercando qualcuno a cui affidare la ricerca del tredicesimo cavaliere d’oro.
 
 
Nota: così è nata l’amicizia tra Camus e Agasha, che non ha alcun risvolto sentimentale.
Questa è una storia laterale collegata a “Fino in Fondo”, in alcuni passaggi può sembrare che Camus sia geloso di Albafica, ma non è così, solo non accetta che il cavaliere che dice di essere un pericolo mortale per chiunque, rischi di far soffrire Agasha con quello che, ai suoi occhi, è solo un gioco impossibile.
Sì, perché Camus ha vuotato il sacco, quella notte e poi quella mattina, ma Agasha no, quindi lui non può sapere che i due hanno già avuto qualche contatto, seppure del tutto platonico, nel tempo in cui lui era il cavaliere di Pishes e lei la figlia di un fioraio.
Non sa che quel tomo sul quale lei scrive è uno scritto lungo due secoli, e che lei ha uno scopo che riguarda anche lui, non solo Albafica, può solo immaginare ma nessuno, al momento, sa tutto ciò che Agasha ha in mente di fare per proteggere il suo cavaliere e anche gli altri Gold Saints.
A presto! :) 
   
 
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