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Autore: ChiiCat92    22/12/2019    0 recensioni
"Chi l’avrebbe detto che una biblioteca potesse essere così rumorosa.
Agito le gambe, cerco davvero di concentrarmi, le dita bloccate a forma di artiglio sulla tastiera del pc.
Niente, non riesco a buttar giù neanche una riga.
Se non consegno almeno tre capitoli entro la fine del mese il mio editore strapperà il contratto."
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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19/12/2018

 

Bookworm


Non posso farcela. Davvero, non posso. 

Il mal di testa lancinante che mi martella le tempie da stamattina sta diventando insopportabile, e non ho neanche una pidocchiosa compressa da prendere per sentirmi meglio. 

Il via vai di passi sul parquet comincia a infastidirmi, a farmi venire la pelle d’oca. Mi distrae.

Chi l’avrebbe detto che una biblioteca potesse essere così rumorosa. 

Agito le gambe, cerco davvero di concentrarmi, le dita bloccate a forma di artiglio sulla tastiera del pc.

Niente, non riesco a buttar giù neanche una riga.

Se non consegno almeno tre capitoli entro la fine del mese il mio editore strapperà il contratto. 

Ma cosa avevo in testa quando ho mollato gli studi e mi sono dedicato completamente alla scrittura? Non sono Stephen King e neanche J.R.R. Tolkien, sono solo un coglione, ecco cosa sono. E adesso ho un romanzo di 500 pagine da scrivere di cui non riesco ad imbastire la trama.

Mi frustra non poter strillare o scaraventare il portatile contro una parete, fossi stato a casa probabilmente l’avrei fatto. Ma se fossi rimasto a casa non avrei neanche acceso il computer, dato che trovo qualsiasi scusa per non mettermi a lavorare. 

Almeno qui sono obbligato dalle circostanze, posso solo scrivere, o rendermi conto di non stare scrivendo affatto. 

Reprimo la rabbia inghiottendola, spingendola giù, giù nello stomaco, e mi massaggio le tempie nella speranza che il mal di testa mi lasci stare per cinque minuti. 

Oggi è una giornata particolarmente affollata, tutti i tavoli sono occupati da studenti in crisi, forse a causa dell’avvicinarsi della sessione d’esami, e i corridoi tra gli scaffali pullulano di persone. 

Cerco ispirazione guardandomi intorno come se qualcuno dei presenti potesse dirmi come vanno a finire le Cronache di Edhelast. I Reietti riusciranno infine a scoprire l’identità di Amunait prima che lui si impossessi del Manufatto di Ebriariel? 

Una voce nella testa, che assomiglia anche troppo a quella di mio padre, mi comunica che il fantasy nella letteratura moderna è morto anni fa, che non c’è più niente da raccontare, e che, a dirla tutta, elfi e drow sono anche imbarazzanti. 

Credo che abbia ragione, o meglio, una parte di me crede che abbia ragione, poi ce n’è un’altra, quella che è rimasta bambina, totalmente, aggressivamente, ostinatamente contraria. 

Vero, il fantasy è un genere trito e ritrito, e nel 2019 tutto quello che doveva essere detto è stato detto. Ma sono un bravo scrittore, amo quello che faccio, credo nella mia storia, e sono sicuro che in qualche modo i miei personaggi risolveranno la questione. E poi gli assegni dell’ultimo anno sono stati carnosi e mi hanno permesso di vivere dignitosamente. Certo, non come J.K. Rowling ma...non faccio l'elemosina agli angoli della strada...ancora.

Quando lo sguardo mi cade sullo schermo del pc, sulla pagina bianca, sul numero 18 in grassetto scritto in cima, sento nascere un mugolio di disperazione in fondo alla gola. 

Non posso farcela. Davvero, non posso. 

 

*

 

Mentre cammino con la borsa del pc a tracolla che mi preme contro il fianco ad ogni passo, cerco di schiarirmi le idee.

Ieri in biblioteca non ho concluso niente, non sono riuscito a scrivere neanche una parola, e ho finito con l’infastidirmi e scappare come un vigliacco. Ho affogato la tristezza e la disperazione ingozzandomi al McDonald’s, il che mi ha fatto sentire anche peggio. 

Essere un giovane scrittore emergente è davvero uno schifo.

Quando avevo ricevuto la mail dell’editore, con un grande, enorme “Complimenti!” in cima non potevo crederci: era un sogno che diventava realtà. Mio padre, al solito, aveva subito insinuato che ci fosse una truffa di mezzo, ma io avevo firmato il contratto senza pensarci due volte. Nel giro di sei mesi il mio primo romanzo era in tutte le librerie del paese, e andava a ruba. La casa editrice si era subito accordata per comprare i diritti per il secondo e il terzo, dato che si trattava di una trilogia, e prima ancora di rendermene conto l’hobby di tutta una vita era diventato il mio lavoro. Dovendo rispettare delle scadenze continue e stressanti avevo lasciato gli studi, e con i miei genitori che mi stavano col fiato sul collo il passo successivo era stato affittare un piccolo bilocale che mi desse l’indipendenza di cui tanto avevo bisogno. 

Boom, in un anno ero diventato uno scrittore famoso, benestante, indipendente e...adulto.

Tutto era andato a gonfie vele, i tre romanzi erano usciti come previsto a distanza di un anno l’uno dall’altro, e visto il successo la casa editrice mi aveva proposto un contratto per un quarto romanzo, che facesse parte della prima trilogia o meno. 

Così eccomi qui, con l’appendice alle Cronache di Edhelast in fase di lavorazione e un blocco dello scrittore di dimensioni epiche.

Non manca molto alla scadenza delle consegne, e ho già spostato la data un paio di volte perché non sono riuscito a scrivere. Mi trovo ad una impasse: posso sopravvivere con i diritti d’autore e gli incassi dei vecchi libri ma se non pubblico qualcosa di nuovo la casa editrice mi taglierà fuori.  

Rabbrividisco nel cappotto. La temperatura è scesa parecchio negli ultimi giorni, e stanotte ha nevicato. Le strade sono sgombre e i marciapiedi puliti, ma sui tetti e ammonticchiata agli angoli c’è tanta neve da poterci costruire dei fortini. 

Le suole di gomma delle mie scarpe perdono la presa a tratti e rischio di scivolare ad ogni passo, questo deve darmi un’andatura altalenante come quella di un ubriaco.

La biblioteca comunale è sempre lì ad aspettarmi, con i suoi tre piani pieni di libri, il suo calore e il suo silenzio. In quest’ultimo periodo è diventata casa mia, tanto che ormai saluto chi ci lavora come fosse amico di vecchia data. In più, ci sono anche i miei romanzi tra i loro scaffali, cosa che mi fa sentire un po’ un VIP, ma anche un idiota: non c’è una via di mezzo. 

Come sempre quando le porte scorrevoli si aprono al mio passaggio il muro di calore che mi investe il volto mi fa sospirare di sollievo. Non mi ero accorto di avere il naso così gelido. Scrollo le scarpe su un tappeto ormai umido e rivolgo un cenno di saluto alla ragazza dietro il bancone dei prestiti. Lei risponde alzando il mento, poi torna a parlare con la vecchietta che stava servendo. 

I libri sono organizzati sia per genere sia in ordine alfabetico, a partire dal fantasy e dallo sci-fi, così, appena entro nella sala principale, la prima cosa che cercano i miei occhi sono i romanzi con su scritto il mio nome. Non è per falsa modestia, ma solo perché...è inevitabile. Spesso mi accorgo di trattenere il respiro quando vedo qualcuno frugare nella mensola della “S.”, con le dita pericolosamente vicine ad uno dei miei romanzi. Però mi sono trattenuto dall’andare a vedere se sono ancora disponibili per il prestito o se qualcuno li ha già portati a casa.

Dato che è ancora presto la maggior parte dei tavoli singoli, vicini alle prese di corrente, sono liberi, così mi affretto a prendere possesso del primo disponibile. Prima ancora di togliermi il cappotto prendo il pc dalla borsa e lo collego alla corrente. Non avrei così bisogno di una presa se la batteria non fosse morta settimane fa. Certo, potrei anche comprarne una nuova, o prendere direttamente un portatile migliore ma...sono molto affezionato a questo vecchio pc sgangherato, e per ragioni scaramantiche voglio completare con lui il ciclo di Edhelast. Per il quinto romanzo...chissà, magari cambierò genere. 

Mentre il pc si avvia tolgo la mia armatura invernale, perché comincio a sudare qui sotto. Cappello e sciarpa li infilo dentro le maniche del cappotto e i guanti in una tasca. 

Bene, sono pronto a lavorare. Niente distrazioni, niente scuse: oggi devo scrivere. 


In quello che mi sembra un battito di ciglia la biblioteca si popola di ragazzi. Quando mi tiro indietro sulla sedia stropicciandomi gli occhi mi rendo conto che sono le 13. Ho passato quasi quattro ore chino sulla tastiera del computer, al punto da non accorgermi dello scorrere del tempo.

Mi sento tutto intorpidito, la schiena mi fa male e...lo stomaco si ribella. 

Erano giorni che non scrivevo così tanto, mi sento soddisfatto. Comincio a vedere la fine del tunnel, comincio a pensare che forse non perderò il contratto e tutto quello che ho guadagnato fin adesso. Evviva! 

Dovrei controllare il testo appena scritto prima di fare una legittima pausa bagno, ma ho gli occhi troppo stanchi e le parole si confonderebbero. Per cui sospiro, salvo (salvo due volte) e chiudo il pc.

Quando mi alzo ho quasi l’impressione che le gambe non mi reggano. In testa ho le immagini vivide, chiare, della battaglia in cui ho lasciato i miei personaggi. Dialoghi, azioni, ambientazioni, reazioni, è tutto ben visibile appena dietro le palpebre. 

Mi sembra di aver ritrovato l’entusiasmo di tre anni fa, quando è uscito il primo romanzo. All’epoca, scrivere non era faticoso, anzi, avevo talmente tante storie, romanzi brevi, racconti chiusi nel cassetto da poterci riempire una stanza. 

Cerco di fare i conti con me stesso. Ho 24 anni, tre libri editi, uno in fase di stesura, un appartamento tutto per me, uno stipendio alimentato letteralmente dalla mia fantasia: sono soddisfatto. 

Mi stiracchio per benino, fino a sentire ogni tendine sgranchirsi, e poi vado verso il bagno. 

C’è Jenny al banco dei prestiti, e da lì può vedere il tavolo con il mio computer e la borsa; dato che altre volte l’ha controllato per me, do per scontato che lo faccia anche stavolta e neanche glielo chiedo. 

Lascio che sia il mio corpo a muoversi e a soddisfare i suoi bisogni biologici, perché intanto ho la mente occupata a scrivere il prossimo capitolo.

Sento che manca qualcosa. Certo, l’antagonista principale è un personaggio ben riuscito, ma vorrei che fosse qualcosa di più del solito cattivo.
Mentre ci penso mi lavo le mani e torno nella sala principale. Mi sembra di sentire il mio cervello ronzare come un motore, pieno di ingranaggi e rotelle che devono incastrarsi le une con le altre.
Supero il primo tavolo, il secondo, il terzo e senza neanche accorgermene arrivo alla fine della sala, davanti all'uscita d'emergenza.
Stordito, mi rendo conto di aver superato il tavolo dov'ero seduto perché ero sovrappensiero. Riesco persino a ridere di me stesso. Che idiota!
Torno indietro, stavolta facendo più attenzione.
Ma è subito dopo essere arrivato all'altro capo della sala che capisco che qualcosa non torna.
Il cuore accelera appena appena i battiti.
Il computer, la borsa...non ci sono più.
Mi fiondo sul tavolo per controllare, come se il solo tocco delle mie mani possa far apparire magicamente gli oggetti scomparsi. Ma niente, assolutamente niente. La giacca è l'unica cosa rimasta.
Il panico mi assale in ondate calde anche se sudo freddo, cerco di ricordarmi quanti soldi avevo nel portafogli, se il bigliettino con i codici di accesso della banca era ancora tra le banconote, se avevo salvato sul drive l'ultimo capitolo così che possa recuperarlo da qualsiasi dispositivo, se...
< Sta cercando questi? >
Mi volto così in fretta che mi viene la nausea.
Il senso di sollievo che mi prende quando vedo la mia borsa e il PC sono pari soltanto al disgusto verso la persona che li tiene in mano.
Allora alzo lo sguardo. Mi ritrovo inchiodato da occhi color ambra, intensi e arrabbiati, incastonati in un volto dagli zigomi perfetti e la pelle lattea; capelli di zaffiro legati in uno chignon morbido incorniciano il tutto. Vestito comodo ma non sciatto, il ragazzo di fronte a me ha una targhetta con il nome sul petto.
“Saix”, con due puntini sulla i.
Lo guardo come se fosse un'apparizione, confusamente e, è probabile, con una faccia adatta ad un tonno appena pescato.
< S-sì. > balbetto, allungando già le mani per riprendere le mie cose.
Saix, però, le tira indietro. Assurdamente, quel gesto mi riporta alla mente l'immagine di me bambino, forse di sette anni, con le braccia stirate verso l'alto per riprendere il gameboy rubato da mio fratello.
< Non lo sa. > dice Saix. Ha una meravigliosa voce di velluto, trapunta di infinite stelle. È così sbagliata per questo viso arrabbiato. < Che è vietato lasciare incustoditi gli oggetti personali? > a quel punto quasi mi lancia addosso la borsa, e per un pelo riesco a non far cadere niente. < Come ho potuto prenderli io avrebbe potuto chiunque altro. La prossima volta faccia attenzione. >
Poi, con passo marziale ma sorprendentemente silenzioso, mi volta le spalle e torna a sedersi al suo posto dietro al bancone.


Dopo aver constatato che Saix non ha rubato niente dalla mia borsa, e che voleva soltanto darmi una pittoresca lezione su come la biblioteca non si prenda alcuna responsabilità sul furto di oggetti personali lasciati incustoditi, non sono riuscito a rimettermi a scrivere.
Arrabbiato, scosso, indignato e con una bella cicatrice sulla dignità, lascio al biblioteca con la testa bassa, senza salutare nessuno.
Chi si crede di essere!
Ad ogni passo mi sembra di sentire la sua voce, quella dannata, bellissima voce.
Non lo sa che è vietato lasciato incustoditi gli oggetti personali?”
Puah!
Come se fosse il signore assoluto della biblioteca.
Come si è permesso!
Mi sembra di vedere sulla borsa la traccia delle sue orride manacce, sul computer le sue impronte digitali. E questo non fa che farmi arrabbiare di più.
Alla fermata dell'autobus mi accorgo di aver stretto tanto i denti da farmi venire male alla mascella, deve essere colpa degli insulti che sto così fortemente trattenendo.
I dettagli del viso di Saix, la sua mancanza di espressione e il ghiaccio rovente nei suoi occhi non mi abbandonano per tutto il tragitto verso casa.
Ho dimenticato cosa volevo scrivere nel capitolo nuovo, ho perso il delicato filo scarlatto della trama che stavo tessendo, e tutto per colpa di Saix.


*

 

Un sogno lucido, febbricitante. Respiro a fatica avvolto in un bozzolo di coperte mentre un caleidoscopio di immagini mi prendono i sensi nella loro interezza. Sento il vento tagliente spirare dal mare, lo sciabordio delle onde sotto di me, oltre il bordo smerigliato della scogliera, il sapore del sangue sulla lingua, e la sua voce, la sua bellissima voce mentre la vista si appanna di lacrime. 

Abbasso gli occhi solo per scoprire, tremante, di avere una lama conficcata nell’addome, il dolore brucia talmente forte da farmi pregare la Morte. Eppure rimango cosciente, disperatamente attaccato all’ultimo brandello di vita che mi rimane. Frustrazione e rabbia mi stringono la gola e un mugolio lascia le mie labbra insieme con un fiotto di sangue.

Poi, finalmente, mi accascio sul terreno freddo, l’erba rada e secca mi punzecchia una guancia, ho il tempo di guardare verso i suoi occhi d’ambra fusa prima di esalare l’ultimo respiro.

 

Mi sveglio zuppo di sudore gelido. Salto giù dal letto prima che il mio buon senso possa impedirmi di farlo e corro in bagno. Mi tolgo la maglia del pigiama e la getto in un angolo mentre con mani tremanti percorro la pelle chiara e tesa del mio addome. La lama che mi ha ucciso non c’è, anche se il dolore e l’orribile sensazione della morte mi sono rimasti addosso. 

Respiro piano, cercando di calmare il battito del cuore, e mi siedo sulla tavoletta del water. Prima di rendermi conto di essere un idiota passano diversi minuti, minuti frenetici in cui la mia mente ripercorre i dettagli del sogno fino a farmi venire le vertigini.

Devo scriverlo. 

Deve essere questo quella che chiamano “ispirazione”, il tocco rovente delle Muse.

Non riesco a togliermi dalla testa il colore ambrato degli occhi del mio assassino. 

Corro al computer, gli do a malapena il tempo di accendersi poi apro subito un foglio di lavoro.

Da quel momento in poi perdo il senso del tempo. 

 

Quando lo stomaco mi avverte gentilmente che sono passate le 14 ho già scritto 50 pagine. Se da una parte provo sollievo per essermi liberato la mente dalle scene del sogno, dall’altra sono furibondo con me stesso: non ho scritto niente per Edhelast, e non ho intenzione di farlo. 

Arrabbiato per la soddisfazione che provo per me stesso, chiudo tutto, infilo il portatile in borsa e, dopo essermi vestito con quello che mi è capitato a tiro, esco di casa.

Il bar della biblioteca fa degli ottimi panini e il loro caffè è dolce, per oggi mi concederò questo lusso. 

Mentre cammino a passo svelto con lo sguardo basso sui piedi e la mente altrove, realizzo che l’assassino del mio sogno è...Saix, il ragazzo della biblioteca.

Riesco a vedere i suoi capelli blu zaffiro sciolti che ondeggiano nel vento salato di mare, e il suo sguardo insinuante e affilato come la punta di una freccia. 

Se possibile mi arrabbio ancora di più. Quel tipo è entrato nel mio subconscio con una tale arroganza, eppure mi ha regalato l’idea più fulgida da quando ho cominciato a stendere la prima versione delle Cronache di Edhelast. Non è giusto. 

Sento la trama snocciolarsi tra le dita come i grani di un rosario, montagne, pianure, fiumi sbocciano ovunque come fiori a colmare i vuoti di un mondo che sta lentamente prendendo forma. Nomi, persone, città, torri, tutto si delinea con una tale nitidezza che non posso fare a meno di chiedermi dove fossero tutte quelle idee fino ad ora, e dove fosse tutto questo entusiasmo. 

È una creatura nuova che comincia a muovere i primi passi, liscia e splendente, piena di irreversibili svolte e arzigogoli.

Merda, me ne sono già innamorato.

 

Riesco a trovare un posticino libero di fianco alla presa di corrente così, mentre aspetto il panino e la coca light posso continuare a scrivere.

È insopportabile la facilità con cui le parole fluiscono dalle mie dita, gli occhi si fanno instancabili, so già cosa scrivere un attimo prima di farlo. È chiaro, così chiaro! Ho come l’impressione che qualcuno stia sussurrando lettere, parole, frasi, interi paragrafi alle mie orecchie e che io sia diventato lo strumento di una divinità capricciosa. 

Do un morso al panino dopo aver scritto almeno dieci righe, e un sorso alla coca dopo venti. Quando il piatto è vuoto ordino un caffè senza smettere di scrivere. 

Avvolto nel mio bozzolo riesco a vedere solo le immagini partorite dalla mia mente almeno finché la fiamma dell’ispirazione non si spegne e le dita rimangono immobili sulla tastiera.

Settanta pagine e mezza giornata di lavoro dopo il sogno non so già più cosa scrivere.

La frustrazione mi prende alla gola e mi ritrovo a stringere i capelli tra le dita. Com’è possibile? Fino a qualche secondo fa tutto era perfetto, lineare, e adesso non so più neanche dove mettere la prossima virgola!

E, parlando del Diavolo, il telefono squilla con il numero dell’editore.

« Pronto? » ho quasi le lacrime agli occhi, non posso crederci.

« Come sta il mio giovane autore? Non siamo sentiti molto in questo ultimo periodo! »

« K-Kate! » mi ritrovo a balbettare, come un idiota. Ecco la donna che paga il mio stipendio, e io sto già facendo una pessima figura. « Bene, grazie. Un po’ di stanchezza e… »

« Come procede il romanzo? » ah, subito al dunque.

« Sto lavorando. » adesso devo sembrare competente, altrimenti non mi prenderà mai più sul serio e non posso permetterlo.

« Bene! Sono contenta di sentirtelo dire! Perché a questo proposito...volevo chiederti se possiamo avere i primi capitoli un po’ prima, sai com’è, dobbiamo renderci conto di quale sia il periodo adatto per lanciarlo sul mercato… »

Suona come una scusa. Vogliono tagliarmi fuori? Ho il cuore che batte a mille. Quello stupido sogno mi ha fatto perdere un’intera giornata. 

Poi un pensiero viene a confortarmi. Ho 18 capitoli già scritti pronti per essere inviati, non devo preoccuparmi di nulla, ancora.

« Sì certo, nessun problema. Posso mandarti il materiale anche subito se vuoi. »

Dal silenzio che segue capisco che non credeva che avessi davvero pronto qualcosa da farle leggere, ed è per questo che sorrido tra me e me.

« Perfetto direi! Mandami pure i primi cinque capitoli, e ci sentiamo settimana entrante per eventuali correzioni. »

Mette giù prima che possa dirle una cosa qualsiasi. Per stavolta l’ho scampata, ma devo mettermi a lavorare seriamente. 

 

Dato che il quarto caffé ha solo accelerato i battiti del cuore senza portare ispirazione, chiudo tutto e lascio il bar per andare a fare un giro tra gli scaffali della biblioteca.

Cerco di dire a me stesso che non mi interessa della presenza o meno di Saix, che non è per questo che sono entrato, però mi ritrovo a sbirciare tra uno scaffale e l’altro più spesso di quanto vorrei.

Alla fine prendo un libro a caso e mi lascio cadere su di una poltroncina qualsiasi. Già che ci sono metto sotto carica il cellulare, anche se il tavolino è distante dal muro e il filo rimane penzolante nel vuoto. Poco male. 

Anche se il libro che ho preso non è tra i migliori mi ritrovo comunque catturato in quell’universo, e riesco persino a dimenticarmi perché ero entrato nella biblioteca (per cercare ispirazione e lavorare al libro, o per vedere Saix?).

Divoro una pagina dopo l’altra immagazzinando informazioni quando… 

« Ehm ehm. » alzo gli occhi e per un attimo sento il sangue defluire dal corpo, esattamente come nel sogno mentre morivo. Saix si abbassa, stacca il caricabatterie e quasi me lo lancia addosso. « Non si possono lasciare cavi in sospensione in questo modo! È pericoloso. »

Come può un sussurro essere così agitato e arrabbiato non riesco a spiegarmelo. È vestito come se avesse scordato l’età che ha, i capelli rigorosamente legati, deve essere uno che prende davvero sul serio il suo lavoro. Anche troppo.

« Non lo sapevo… » provo a giustificarmi, prima che lui mi zittisca con uno sguardo e un dito severamente portato sulle labbra.

Poi, con passo marziale, mi volta le spalle e se ne va.  

 

*

 

Ho caldo dopo aver corso, il fiatone, la schiena coperta di sudore. Il cielo sopra di me comincia a schiarire, le stelle scompaiono, la luce filtra tra i rami degli alberi. L’ho scampata? Li ho seminati?

Mi appoggio contro un albero e mi lascio scivolare sul terreno. Le gambe non mi reggono un istante di più. Aver dovuto lasciare la locanda in fretta e furia senza prendere il cavallo non è stata la scelta migliore della mia vita, ma risparmiare quei pochi minuti necessari per sellare l’animale potrebbe avermi salvato.

Mi premo contro la corteccia quando sento le urla dei cavalieri che mi erano alle costole. 

« Le tracce si fanno confuse, signore. » sento dire ad uno dei tirapiedi. Mi sporgo quanto basta per osservare lui, sul suo cavallo, gli occhi roventi come tizzoni, la cicatrice a X sul viso ancora violacea e gonfia, il disprezzo nelle sue labbra. 

« Trovatelo. Deve essere qui. » 

Gli uomini annuiscono. Devo scappare. 

 

« Merda. » mugugno, ancora assonnato, gli occhi chiusi e le immagini del sogno che scorrono come un fiume dietro le palpebre. « Merda, merda, merda. » 

L’ispirazione, la musa, è tornata. Ed è di nuovo merito di Saix. 

Scivolo giù dal letto come uno zombie, cercando a tentoni il computer. Devo scrivere, ne ho bisogno. 

 

*

 

Mi formicolano le mani, le orecchie mi fischiano, il telefono sul tavolo sembra un’arma.

Devo chiamare Kate, devo dirglielo. Devo dirle che ho passato l’ultima settimana a scrivere qualcos’altro, devo avere il coraggio di dirle che non posso più continuare con le Cronache di Edhelast, e che il nuovo romanzo ha occupato i miei sogni, la mia mente, tutti i miei pensieri. 

Devo dirle...devo dirle… 

Respiro a fondo e...chiamo.

Al primo squillo spero che non risponda. Al secondo squillo prego che non risponda. Al terzo squillo risponde.

« Ehi! Axel! Il mio giovane scrittore. A cosa devo la chiamata? C’è qualche problema? »

È così delicata e diretta che se toccasse a lei comunicare ad una persona che è morto un parente lo farebbe senza neanche aspettare di sentirsi rispondere “pronto?”. 

« Ciao Kate, hai avuto modo...non so, di leggere la roba che ti ho mandato? » 

« Sì, sì, devo averla qui sulla scrivania da qualche parte. Perché? Ripensamenti dell’ultimo minuto? » 

« Non voglio più continuare a scrivere questo romanzo. » per un attimo c’è silenzio, mi sembra di sentire il ticchettio di una tastiera in lontananza, forse il segretario di Kate che prende appunti o scrive ai clienti. Poi il suo respiro. La interrompo prima che possa dire qualcosa che mi faccia a pentire delle mie intenzioni. « Ascolta, ti mando qualcosa di nuovo. Sono centocinqua pagine, praticamente è già finito. È una buona idea, la migliore che abbia avuto negli ultimi due anni. Le Cronache di Edhelast sono concluse, è inutile pubblicare un quarto volume. Ti prego, mi conosci, leggi questa cosa. Se non ti convincerà come convince me ti giuro che mi forzerò di rispettare la tabella di marcia e finirò il quarto volume, dopo di che sei libera di buttarmi fuori, licenziarmi, non so come...non so come si dice in questi casi? Beh, immagino che tu abbia capito, però, davvero, dammi questa possibilità! » 

Quando ho finito mi sento stanco come dopo aver corso una maratona. Ho il respiro grosso e riesco a immaginarmi Kate che tamburella con le dita sulla sua scrivania. Riflette, forse l’ho incuriosita. D’altronde è stata lei che mi ha proposto il contratto per il primo romanzo, non l’avrebbe fatto se non avesse creduto nel valore del mio progetto, no? Ha creduto in me come non aveva mai fatto nessuno, lo farà anche adesso. Spero. 

« Okay. » dice, dopo quella che mi sembra un’eternità. Quasi mi cedono le gambe per l’emozione, sono contento di essere seduto e di avere il tavolo a reggermi. « Voglio darti questa possibilità. Sei giovane ma sei pieno di buone idee, e i tuoi libri hanno venduto bene negli scorsi anni. Ma non montarti la testa, se il progetto nuovo non dovesse valere la pena di buttare all’aria tutta la pubblicità e il lavoro di marketing che abbiamo fatto per presentare il quarto di Edhelast questo Natale, che sia buono o meno ti licenzio in tronco. Non avrai da me neanche una lettera di raccomandazione per un’altra casa editrice, potrai considerarti come uno scrittore esordiente, di nuovo, » 

« Mi sembra...giusto. » ho la gola secca, ma l’assurdità è che non riesco a pentirmi di averglielo detto, anzi, ne sono assurdamente felice. « Ti mando subito tutto il materiale. »

« E io lo leggerò subito. » 

Non ne dubitavo, starò morendo dalla curiosità. « Aspetto tue notizie. » 

« Spera che siano buone! » 

Attacca, di netto, nello stesso momento in cui io premo “invia” alla mail con allegato il PDF del nuovo romanzo. 

Adesso ho bisogno di un caffè. 

 

Entro in biblioteca con uno spirito del tutto diverso stavolta. Mi tremano le gambe e sobbalzo ad ogni minimo rumore, che sia un colpo di tosse o un volume che cade sul pavimento.

Saix è qui, come sempre controlla che tutto sia al suo posto, centimetro dopo centimetro.

Lentamente, nelle scorse settimane, la sua presenza nei miei sogni si fatta più invadente, per quanto piacevole. Mi sono ritrovato a non riuscire a scrivere senza averlo visto almeno una volta, e a scrivere cocn più tranquillità sapendolo in giro per i corridoi.

Non credo che l’idea sia così innovativa da meritarsi l’attenzione di Kate, ma questo progetto mi ha preso così tanto che comunque non riuscirei a fare altro. 

Nel nuovo romanzo lui è l’antagonista. Cresciuto a stretto contatto con il principe di un regno pacifico, scoprirà essere destinato ad ucciderlo, tradendo la sua amicizia e...il suo amore.

Sulle prime è stato strano scrivere certe scene tenendo presente il suo corpo, il suo viso, d’altronde è uno sconosciuto di cui so a malapena il nome. Poi è diventato tutto più semplice e man mano che scrivevo di lui...mi innamoravo di lui.

Stupido, no? Finire invischiato in una trappola che ho teso io stesso.  

Non ho potuto impedirmelo, e questo l’ha reso ancora più patetico di quanto già non sia.

Ma oggi è...diverso. Se Kate valuterà buono il mio lavoro lo farò: chiederò a Saix di uscire. 

Mi nascondo dietro uno scaffale mentre lui cammina come un soldato verso un gruppetto di adolescenti che sta facendo un po’ troppa confusione nella studio della biblioteca. Ho passato ore intere ad immaginarlo in sella ad un cavallo, con una spada al fianco e la testa alta, ma sono sicuro di non avergli reso giustizia. 

Lo seguo con la coda dell’occhio e ridacchio quando rimprovera i ragazzini. Prima mi dava fastidio quel suo atteggiamento burbero ora la mia distorta disperazione me lo fa trovare adorabile. 

Quanto in basso sono caduto? Spero solo di non aver toccato il fondo. 

Il cellulare vibra, un messaggio.

Prima di avere il coraggio di leggerlo devo sedermi, non voglio crollare a terra come un idiota.

È da parte di Kate. 

  • Okay. 

Laconico, essenziale. Spaventoso. 

Che vuol dire “okay?”

Corro fuori, beccandomi un’occhiataccia da parte di Saix, e la chiamo mentre ancora la porta mi si sta chiudendo alle spalle.

« Okay? Ti è...ti è piaciuto? » 

Tremo, dalla testa ai piedi, percorro su e giù il chiostro della biblioteca fino al bar, e torno indietro. Più e più volte. 

« Se mi è piaciuto? » comincia lei, scocciata. « È la cosa migliore che mi hai fatto leggere in settimane, vorrei sapere perché mi hai tenuto nascosto che potevi scrivere così! Idiota! » incasso la testa tra le spalle per non sentirmi schiacciare da quella sfuriata. Ma intanto sorriso. « Lo approvo. Scrivi almeno altre cento pagine prima della fine del mese, un epilogo e via, lo stampiamo e gli mettiamo un bel fiocco in tempo per Natale. Sarà una trilogia, immagino. » 

« Io...non ho ancora deciso ma… »

« Deve essere una trilogia. Questa volta punteremo ad Hollywood. Non deludermi, Axel, lavora sodo. Ora devo andare. Cento pagine prima delle fine del mese, mi raccomando. »

Non riesco a risponderle perché lei attacca. Vorrei dirle che il romanzo è già concluso, che le ho mandato solo la prima parte perché non ero sicuro che le sarebbe piaciuto, che nelle ultime settimane ho scritto in preda alla furia, i tasti “a”, “e”, “r” e “c” del mio computer sono spariti lasciando solo una superficie liscia e nera. Non potevo permettere all’eventuale rifiuto di Saix di interrompere l’ondata di ispirazione che mi aveva preso.

Rimango imbambolato come un idiota a fissare il nulla per un lungo attimo. Poi mi riscuoto.

Entro in biblioteca come una furia, le mie scarpe di gomma scricchiolano sul pavimento.

Lui sta rimettendo a posto i libri nel settore fantasy. Che coincidenza. 

« Ciao. » dico, tutto d’un fiato. 

Lui volta lo sguardo, sembra sorpreso. Di solito quando ci parliamo lui mi sgrida e io chiedo scusa. 

« Ciao. Posso aiutarti? » è quasis più gentile quando si tratta di fare il suo lavoro. 

Scuoto forte la testa e lui aggrotta le sopracciglia blu scuro. 

La stessa espressione che gli ho visto tante volte quando è seduto al banco e legge, mordicchiandosi il labbro inferiore per la concentrazione.

Come faccio a conoscere così tanto di lui senza conoscere niente?

« So che è strano e che...insomma, tu non mi conosci… » continuo, oddio, il mio lavoro è usare le parole e ora tutte quelle che mi escono dalla bocca sono stupide. 

« Io ti conosco. » sbuffa lui, divertito. Prende un libro dallo scaffale, copertina rigida con sovraccoperta, un amuleto d’oro inciso con una luna e una stella avvolto in un flusso d’energia argentea incornicia le parole “Le cronache di Edhelast: il gioco di Iririel”. Lui picchietta con il dito il mio nome a caratteri argentati. « Ho letto i tuoi libri. » 

Devo essere diventato rosso come un peperone perché lui mi rivolge il primo sorriso da quando ho cominciato a frequentare la biblioteca. 

Per tutto questo tempo sapeva chi fossi e ha comunque fatto il bullo con me. 

Dal momento che rimango paralizzato dall’imbarazzo non riesco a dire niente e lui pensa che la questione sia finita, perché riprende a sistemare i libri sullo scaffale. 

« Ti andrebbe di...prendere un caffè insieme? »

L’ho detto.

Lui continua ad impilare libri sullo scaffale, fino a risultare persino sgarbato, poi si volta e quegli occhi ambrati mi inchiodano sul posto. 

« Sai, mi sono sempre chiesto se Seraphiel si meritasse di morire, d’altronde era sotto l’effetto di un incantesimo quando ha fatto quello che ha fatto. » dice, pensieroso, per un attimo alzando lo sguardo verso l’alto, dove sullo scaffale si trova il mio libro. « Forse un caffè potrebbe chiarirmi le idee. » 

« È un sì…? »

« Per essere uno scrittore non sei molto sveglio. » 

« Ehi…! » 

Mi zittisce, come al solito, portandosi un dito alle labbra. Io incasso la testa tra le spalle. Sgridato, di nuovo. 

« Stacco alle diciotto. » 

Poi prende il suo carrello e lo spinge verso gli altri scaffali per continuare nel suo lavoro. 

Credo che anch’io staccherò per quell’ora.

Trovo un posto per attaccare il pc vicino alla presa, lo accendo, e comincio a scrivere.


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The Corner

Praticamente è passato un anno da quando ho cominciato a scrivere questa shot. Sono contenta di essere riuscita a finirla, anche se non è tutto questo...granchè! 

Chii 














 



 







 
   
 
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