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Autore: Sabriel Schermann    22/12/2019    10 recensioni
Doveva essere ormai giorno quando un fragoroso frastuono la svegliò; la giovane spalancò le palpebre, incontrando l’espressione preoccupata di Rickard, che la fissava.
Quando anche Sindy si volse, notò una figura imponente ergersi minacciosa.
«Sembra un mostro bianco».
Nella sua mente, milioni di pensieri si ammassavano l’uno sull’altro.
L’uomo con gli occhi di vetro l’aveva trovata, ancora.
[Storia classificata al settimo posto al contest “My beloved villain” indetto da Dark Sider sul forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'La Casa di Cristallo'
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Quando Sindy aprì gli occhi, tutto ciò che vide fu grigio.
Lo sguardo mise a fuoco il soffitto cinereo dello stambugio in cui si trovava, con una fioca lampadina pendente al centro; realizzò di trovarsi seduta a terra, con la schiena contro una parete umida e senza ornamenti, i polsi incatenati a una rondella impiantata nel cemento.
Accanto a lei, il capo reclinato all’indietro e le labbra socchiuse, si trovava Rickard.
Il movimento ritmico del suo petto le fece tirare un leggero sospiro di sollievo, allontanando i pensieri peggiori.
Nonostante si sentisse ancora intontita, Sindy tentò di tirarsi in piedi, seguendo il primordiale istinto di salvezza.
Le catene, però, la fecero scivolare violentemente al suolo, riportandola alla posizione originaria.
I casi di rapimento di cui si era occupata in passato le suggerivano che il rapitore potesse essere con molte probabilità un uomo di mezza età, in quanto forte abbastanza da poterli trascinare fino in quella stanza.
Inoltre, il delinquente e i suoi eventuali complici non si erano premurati di coprire loro la bocca: dovevano dunque trovarsi in una zona isolata, lontano da sguardi indiscreti.
Il muro freddo alle sue spalle sfregò ancora una volta il vestito elegante che indossava, rimasto intonso.
Una forte emicrania le invase le tempie, propagandosi per tutto il capo, come se il cervello fosse stato improvvisamente stretto in una morsa interminabile.
Arrendendosi ai pesanti anelli che le brandivano i polsi, poggiò la testa contro la parete bagnata, riportando alla memoria qualche bel ricordo della sera precedente – o di quella stessa sera; la stanza priva di fenditure rendeva difficoltoso calcolare con esattezza lo scorrere del tempo.
Lei e Rickard stavano tornando a casa quando qualcuno li aveva colpiti.
Camminavano per una strada buia, evidentemente perduti tra qualche via anonima della città; quando videro un color porpora inondare gli alti palazzi, si misero a ridere sguaiatamente, realizzando di aver inavvertitamente raggiunto il quartiere a luci rosse.
«Non era più facile organizzare la mia festa in un luogo più conosciuto?» chiese Rickard sorridendo.
Tornarono sui propri passi, riavviando il navigatore, che suggerì di imboccare un vicolo poco lontano.
«Non è colpa mia se abitiamo in una zona lontana dal mondo» borbottò la ragazza di rimando.
Tuttavia, Sindy non era in grado di determinare che cosa fosse successo dopo: ricordava solamente di aver percepito un improvviso dolore alla nuca ed essere precipitata al suolo.
Poco le importava; non aveva idea di chi volesse fare loro del male, ma Rickard doveva salvarsi.
Se gli fosse accaduto qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato; era consapevole che il ragazzo avesse una salute cagionevole e non lo avrebbe mai esposto volontariamente al pericolo.
Sindy, dal canto suo, non poteva ritenersi impaurita: la vita l’aveva abituata all’incertezza.
Tuttavia, era furiosa con se stessa per non essere riuscita a prevederlo e, in particolare, per non aver potuto fare nulla per proteggere il ragazzo accovacciato al suo fianco.
Era una poliziotta ed era stata addestrata a mantenere la mente lucida; tuttavia, Sindy era anche un essere umano, e la sicurezza che naturalmente sfoggiava stava lentamente lasciando posto alla disperazione.
«Rickard…» sussurrò, ingoiando le lacrime saline, gustando il forte sapore sulla lingua.
Non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma aveva paura di rimanere sola.
Temeva che le persone che amava avessero spirato dinanzi ai suoi occhi, senza che lei potesse impedirlo.

Non posso vederti così. Non voglio che tu abbia paura. Ti voglio tanto bene, avrebbe voluto sussurrargli, ma rimase in silenzio, lasciando le ultime gocce di pianto scenderle sul viso, senza sfregarle via.

 

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Doveva essere ormai giorno quando un fragoroso frastuono la svegliò, simile al rumore di una porta che viene improvvisamente sprangata.
Spalancò le palpebre, incontrando l’espressione preoccupata di Rickard, che la fissava.
Aveva le labbra socchiuse, come sul punto di dire qualcosa.
Gli rivolse un sorriso amorevole, genuinamente felice che si fosse risvegliato e si trovasse in buone condizioni, o perlomeno così le pareva.
Tuttavia, i suoi occhi erano spalancati e spaventati, intervallando uno sguardo verso di lei a uno rivolto in direzione della porta.
Quando anche Sindy si volse, notò una figura imponente ergersi minacciosa.
Si trattava chiaramente di un uomo; tuttavia, non poteva scorgerne il viso, coperto da un tessuto spesso e scuro, dal quale si intravedevano soltanto gli occhi.
Poi lasciò scorrere lo sguardo sul suo corpo robusto, agitandosi alla vista dell’accetta affilata che l’uomo teneva in mano.
Si volse veloce verso il ragazzo di fianco a sé, sul punto di rivolgergli qualche parola di rassicurazione: semmai fossero periti, perlomeno avrebbero spirato insieme, nello stesso luogo, nel medesimo istante.
Ma Sindy non aveva tempo di rifletterci: la sua mente era sovraffollata di pensieri accumulati, disordinati ed estremamente sgradevoli.
Quando si volse nuovamente, quasi gridò alla vista dell’uomo accovacciato ai suoi piedi, l’accetta tenuta ben salda tra le mani.
Si accorse che Rickard tremava, forse anche per il freddo presente nella stanza.
L’uomo continuava a fissarla con sguardo curioso: puntando le proprie iridi nelle sue, Sindy si accorse che le palpebre erano immobili.
Pareva voler cogliere ogni caratteristica del suo viso, scrutandolo a fondo; si sentiva quasi violata, percependo il suo sguardo fin nelle viscere.
I suoi occhi sembravano di vetro: secchi, vuoti, grigi come le pareti di quella maledetta stanza.
Poi lo vide tirarsi in piedi all’improvviso, raggiungendo di fretta la porta, chiudendosela alle spalle.
Rimasero entrambi interdetti per qualche secondo, fino a quando non notarono due bottiglie d’acqua e un paio di rosette di pane poste dinanzi a loro.
Sindy sentì il ragazzo di fianco a sé sospirare rumorosamente, per poi rivolgerle tutta la sua attenzione.
«Lo conosci?».
Non era facilmente percepibile, ma la giovane non poté fare a meno di notare che la voce gli tremasse un poco.
«Perché dovrei conoscerlo?» gli rispose in tono stanco.
Il volto era quasi totalmente coperto; se anche lo avesse incontrato prima d’allora, sicuramente non avrebbe avuto occasione di riconoscerlo.
«Non so, qualcosa nei suoi occhi… sembra un mostro bianco».
Rickard decise di non continuare, sporgendosi piuttosto per raggiungere la pagnotta.
Le catene erano lunghe abbastanza per permettere loro di nutrirsi senza alcuno sforzo: forse l’aguzzino meditava di tenerli rinchiusi per parecchio tempo.
Sindy scosse lievemente la testa, tentando di scacciare i cattivi pensieri; era stanca di riflettere e analizzare qualsiasi dettaglio, come se si trattasse di uno dei casi ai quali lavorava insieme alla propria squadra.
«Questo pane è duro» sentì mormorare al ragazzo accanto a sé, tra un boccone e l’altro.
Poi poggiò il capo su una sua spalla, tentando di riportare alla mente qualche bel ricordo che custodiva gelosamente nella memoria.

 

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Sindy aveva concluso l’Accademia di Polizia da qualche mese ormai: quella sera, come capitava spesso negli ultimi tempi, si era trattenuta per quasi un’ora oltre al proprio orario lavorativo.
Le denunce e i moduli da compilare parevano non terminare mai: la carta doveva essere decisamente troppo sottile per dare una tale illusione.
Un giovane dalla carnagione color caramello le si avvicinò di soppiatto, poggiando il busto sulla scrivania, osservando la stanza ormai vuota.
«Non riesco a capire se non te ne vai perché non hai una dimora o perché hai qualche problema psichico» borbottò in tono volutamente burlesco, ponendo le braccia conserte.
Sindy gli rivolse uno sguardo contrariato, abbozzando un sorriso: «Forse perché ho più lavoro di te, fannullone».
Scoppiarono entrambi in un sarcastico sogghigno.
Lo aveva conosciuto in accademia e, pur essendo più grande di lei di qualche anno, avevano subito stretto un forte legame, caratterizzato principalmente da un tagliente umorismo.
Derek era riuscito, in qualche strano modo, a far erompere la parte più spontanea di Sindy.
«Bene, allora… dato che vedo che non hai niente da fare, perché non vieni con me?» le propose il collega, ricevendo in risposta soltanto uno sguardo confuso.
«Volevo fare un piccolo controllo prima di tornare a casa» disse il collega, afferrando la propria giacca estiva dall’appendiabiti.
«Pensavo di mostrarti come lavora un vero sbirro» le sorrise inverecondo, «le carte sono per i principianti».
Sindy, punta nel vivo, afferrò d’istinto la propria arma, riponendola nella fondina.
«Vedi? Non portate neanche la pistola» la provocò ancora il giovane, raggiungendola alla porta.
Trattandosi di una mera ispezione, decisero di non utilizzare l’auto di servizio.
«Sono piccoli dettagli importantissimi» le disse il ragazzo una volta saliti in auto, «se vedono la pantera¹ fanno in tempo a scappare; se notano la pistola fai in tempo a sparare» ripeté con un ghigno.
Sindy si volse nella sua direzione: era consapevole della pressoché costante ironia del collega, ma non poteva impedirsi di riflettere ogni volta che lo sentiva ripetere la frase come un mantra.
La giovane agente aveva una buona mira e non aveva avuto difficoltà a imparare a utilizzare l’arma che le era stata fornita.
Tuttavia, non aveva mai colpito alcun essere vivente, e il solo pensiero di poterlo fare, un qualsiasi giorno da quel momento in avanti, le metteva i brividi.
«Obiettivamente siamo macchine da guerra» esordì, interrompendo l’inquietante ritornello dell’amico.
«Non ti sembra tutto così sbagliato?» continuò pensosa, fissando la strada vuota davanti a sé.
Possedere un’arma da fuoco, in fondo, la tormentava.
Decidere per la vita e la morte di un altro non avrebbe dovuto essere un diritto di nessuno.
Il ragazzo smise all’improvviso di canterellare: «Ci sono crimini che possono essere puniti soltanto con altri crimini.
È brutto da dire, ma è così che funziona.
Se provi pietà nell’uccidere un rifiuto umano, allora questo lavoro non fa per te, ragazzina» sibilò in tono severo.
Sindy non aveva mai preso in considerazione di abbandonare il proprio lavoro: in fondo, non poteva dire di non essere abituata alla violenza, lei che, nella barbarie, ci era cresciuta.
Forse, l’unica ragione che l’aveva spinta a scegliere il centro di addestramento della polizia era semplicemente che la sua vita stava cadendo in pezzi.
In un mondo in cui la possibilità di divenire una pattinatrice professionista si era sgretolata sotto le lame, quella di poter sfruttare la propria esistenza per salvare vite umane non le pareva un’alternativa così malvagia.
Tuttavia, la realtà era estremamente diversa da come inizialmente la giovane immaginasse.
Il mestiere del poliziotto stava forse nel mezzo, sospeso tra la vita e il suo contrario, arrogando ai novellini un potere che mai avrebbero posseduto altrimenti, e che l’accademia certamente non poteva conferire: un ruolo dispotico che la natura aveva attribuito all’individuo, e a cui soltanto l’uomo stesso poteva porre una fine.
Nessuno fiatò fino a quando non raggiunsero il bosco.
Derek collocò la macchina sulla strada poco distante dalla foresta.
Anche se era piena estate, il sole stava ormai lasciando la scena alla nivea sfera notturna.
«Io vado in quella direzione, tu proseguirai per questo sentiero» annunciò l’uomo in tono esperto.
«Se ci dovesse essere qualsiasi problema, torna indietro immediatamente».
Le porse una torcia ricaricabile, che Sindy non si accorse il ragazzo avesse portato con sé.
Lo ringraziò, convincendosi che la sua preoccupazione fosse reale: nel profondo, però, l’istinto le suggeriva lo avesse fatto principalmente per proteggere se stesso da eventuali responsabilità.
La ragazza non avrebbe dovuto trovarsi in quel luogo, a quell’ora.
Se le fosse successo qualcosa…
«Se trovi un uomo, chiunque sia costui, tienilo sotto tiro e chiamami» le ordinò.
Poi lo vide incamminarsi nella direzione stabilita.
Sindy tirò in forte sospiro, cominciando a percorrere il sentiero.
Il sole pareva avere fretta di nascondersi, quasi come per annunciare un cattivo presagio.
Decise di non voltarsi indietro; poggiò una mano sul calcio dell’arma, pur sapendo di non averne bisogno.
La foresta era parte di lei: conosceva bene il suo linguaggio; aveva avuto modo di impararlo, molti anni addietro.
La luce filtrava dalle fronde quasi accecandola.
Tentava di non fare rumore, dimenticando che la voce della foresta non si poteva silenziare.
Quando la natura prendeva il sopravvento, nemmeno il tuono di uno sparo poteva metterla a tacere.
Addentrandosi nel bosco, gli alberi si erano fatti più fitti, la luce penetrava ormai a fatica dai rami.
Tuttavia, Sindy non aveva affatto bisogno di lumi per riuscire a intravedere la scena che le si presentava davanti.
Doveva aver ormai raggiunto il cuore della foresta: dinanzi a lei si stagliava una piccola radura; nel mezzo, un uomo armeggiava con un badile, creando un ampio cumulo al proprio fianco.
Poi gettò la pala a terra: solo allora la giovane agente si accorse del cibo che aveva di fianco.
Una ciotola con una pagnotta e una bottiglia d’acqua campeggiavano a pochi passi dallo sconosciuto.
Poi lo sguardo di Sindy captò un rapido movimento proveniente dalla buca appena scavata, fino a quando le pupille non misero a fuoco una mano.
Aguzzò la vista: non era affatto sicura di ciò che aveva visto e temeva che un passo falso potesse rovinare il piano originale.
Magari l’uomo che Derek stava cercando si stava godendo la scena, consapevole di essere al sicuro.
Magari si trovava proprio dietro di lei ed era sul punto di pugnalarla.
Poi a una mano se ne aggiunse un’altra, fino a quando Sindy non vide chiaramente le dita afferrare la pagnotta.
Non si era sbagliata: c’era qualcuno sotto quel cumulo di terra.
Il cuore cominciò a tamburellarle forte nel petto, tanto che temette potesse saltare fuori dal torace da un momento all’altro.
Portò la mano alla fondina, scoprendo di non averla mai spostata dall’impugnatura della rivoltella.
Poi tirò un forte sospiro, dimenticando di non dover fare rumore.
Si addentrò in un balzo nella radura, intimando all’uomo di inginocchiarsi e porre le mani sulla nuca, passando veloce lo sguardo sull’intero corpo, in cerca di qualche arma.
Si accorse di star tremando. Era la prima volta che puntava la pistola contro qualcuno.
Si avvicinò cauta; con sua enorme sorpresa, l’uomo non azzardò il minimo tentativo di fuga.
Fece quello che gli era stato ordinato, fino a quando la ragazza non lo sovrastò totalmente.
«Dannazione!» gridò Sindy, quando realizzò di aver dimenticato le manette.
Le condizioni in cui era cresciuta, la perseveranza, la necessità di doversela cavare da sola e forse anche il proprio istinto femminile, le suggerirono, tuttavia, in un istante, un rimedio alla sua mancanza.
Si sfilò veloce la cintura dai pantaloni, trattenendo i polsi dell’uomo in una morsa con una mano.
Poi gliela avvolse intorno, stringendo forte.
Sfilò il cellulare dalla tasca, scorrendo la rubrica fino a quando il nome del collega non le comparve davanti.
Gli ci volle qualche minuto per trovarla, i più infiniti che Sindy avesse mai vissuto.
Un tempo brevissimo, che però bastò a farle rendere conto che l’uomo avrebbe potuto fuggire quando lo desiderava.
Sarebbe bastato qualche spintone, forse un paio di pugni, ma era chiaramente più forte e imponente dell’agente dal fisico piccolo ed esile che il pattinaggio artistico aveva modellato nel corso degli anni.
Quando Derek la raggiunse, Sindy si sentì improvvisamente come liberata da un immenso e opprimente peso.
Solo allora si accorse della donna che giaceva sotto la terra: era stata rinchiusa in quella che pareva in tutto e per tutto una bara, posta molto più in profondità rispetto a quanto era stato scavato.
L’odore era tremendo; l’agente si tirò immediatamente indietro alla vista di feci e vomito sparsi nella cassa.
I paramedici ci misero più di un’ora a tirarla fuori: per sua fortuna, Sindy si risparmiò la scena, data l’insistenza di Derek nel tornare in centrale.
In qualche giorno, la notizia si sparse in tutti gli uffici e Sindy divenne popolare: pochi perdevano occasione di indicarla o complimentarsi con lei.
Dopo qualche ulteriore settimana di lavoro ordinario da agente in prova, le venne offerta una promozione; avrebbe potuto prendere parte alla squadra di Derek, lavorare sul campo, guadagnare uno stipendio più alto.
Sapeva che il tempo libero ne avrebbe risentito, ma decise di tentare, alla sola condizione di non abbandonare il pattinaggio di figura.
Se il lavoro le avesse richiesto di accantonare ciò che un tempo avrebbe potuto divenire la propria professione, Sindy si promise di rinunciarvi, per non annullarsi, per non rassegnarsi alla violenza e al crimine che imparava a conoscere meglio ogni giorno di più.
«Ti ringrazio per non esserti preso tutti i meriti» si rivolse a Derek, quando, quella mattina, lo trovò nel cucinino intento a infilare una bustina di tè in una tazza.
Anche il moro era stato elevato di grado, divenendo agente supervisore dell’intera squadra.
«Sei in gamba, ragazzina» disse lui di rimando, «però almeno le manette potevi procurartele» la provocò con un sorriso.
Ma Sindy non pareva avere alcuna voglia di scherzare.
«Colui che ha sbagliato tra i due sei tu.
Avremmo dovuto addentrarci nel bosco insieme» sibilò la giovane.
«Hai passato mesi a insegnarmi il lavoro dello sbirro e tu hai violato la regola principale».
Non c’era alcuna ironia nella sua voce, e Derek se ne accorse.
«Se non sei disposto a rispettare le regole, forse lavorare in squadra non fa per te, Theodoric²».

 

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«Devo andare in bagno» continuava a lamentarsi il ragazzo dai capelli scuri accanto a lei.
Dovevano essere passati ormai quasi due giorni da quando si erano risvegliati in quella stanza senza finestre.
L’aria cominciava a diventare irrespirabile, erano sudici, affamati e i muscoli si stavano lentamente atrofizzando.
«Non ce la faccio più» gemette il giovane, abbandonandosi al muro umido dietro di sé.
Sapevano che l’aguzzino sarebbe dovuto tornare da lì a poco: compariva sempre a intervalli regolari, portava loro cibo e acqua, li osservava nutrirsi e poi fuggiva via, serrando la pesante porta con delle chiavi che Sindy non aveva mai notato.
«Jan mi starà cercando» mormorò la ragazza, consapevole di aver mancato l’allenamento della sera prima.
L’uomo doveva averla attesa per molto, probabilmente aveva anche tentato di contattarla, non ottenendo, però, alcuna risposta.
La porta si spalancò all’improvviso, lasciando intravedere un’imponente figura mascherata nella penombra.
«Smettila di frignare!» sbraitò il mostro bianco, rivolto al ragazzo accovacciato a terra.
Nonostante indossasse sempre abiti scuri, gli occhi chiari del rapitore parevano quasi lattescenti; l’iride sembrava quasi fondersi con la sclera³.
Era la prima volta che udivano la sua voce: si ammutolirono repentinamente, ma appena l’uomo porse loro la solita pagnotta, Rickard ne approfittò per cogliere al volo l’occasione.
«Ti prego, devo solo fare la pipì» piagnucolava, «ti supplico, puoi portarmi tu».
Sindy, al suo fianco, se ne stava immobile.
A differenza del ragazzo, aveva notato il calcio della pistola che l’uomo teneva nascosta in una tasca sul retro dei pantaloni.
Dell’accetta, invece, non c’era alcuna traccia.
I lamenti si facevano sempre più gravi, le lacrime scendevano veloci sul viso del giovane agonizzante e indifeso.
Sindy non poteva più restare a guardare il suo amico soffrire.
Era un supplizio troppo doloroso, doveva agire e in fretta, aveva il dovere di tener fede alla promessa fatta a se stessa anni prima: non voleva più restare indifferente dinanzi ad alcuna ingiustizia.
Poi vide l’imponente figura tirarsi in piedi, sul punto di lasciare la stanza.
L’istinto la guidò: «Aspetta, ti prego!».
Per un istante, il tempo smise di scorrere.
L’uomo si arrestò di colpo, lasciando la porta spalancata alle sue spalle.
Al di là di essa si poteva scorgere un corridoio, come se la stanza in cui erano rinchiusi non fosse altro che il misero sgabuzzino di una grande casa.
Lo vide muovere qualche passo in avanti: gli occhi di vetro risplendevano di nuovo dinanzi a Sindy, in tutta la loro vuotezza e inespressività.
La ragazza ricordava bene un uomo con lo stesso squallore negli occhi.
Non poteva confondere quello sguardo. Era lo stesso che il maestro teneva puntato su di lei, quella notte nella foresta.
«Anch’io devo fare la pipì…»mormorò timorosa.
Per un attimo, le parve di essere tornata bambina, dinanzi a quell’uomo tanto malvagio, rinchiusa nella stanza delle punizioni.
«Ti prego, fai andare anche il mio amico» lo supplicò.
Le lacrime cominciarono a scenderle copiose sulle guance; non era più in grado di controllarsi.
«Lui no!» enunciò feroce l’aguzzino, rivolgendo una rapida occhiata in direzione del ragazzo.
Forse a causa della stanchezza, la frustrazione, la consapevolezza di non poter fare nulla per aiutare colui che considerava un fratello, le lacrime le inondarono il viso, la gola non poteva più trattenere i singhiozzi.
Nella sua mente, milioni di pensieri si ammassavano l’uno sull’altro: l’uomo con gli occhi di vetro l’aveva trovata, ancora.
Sindy aveva impiegato anni per perdonare la sua vita passata; nonostante i costanti tentativi di perseguire un’esistenza normale, la memoria tornava senza sosta nel presente, burlandosi di qualsiasi sforzo lei compisse per silenziarla.
Avrebbe voluto rendere la festa di compleanno di Rickard un evento speciale.
Ci aveva riflettuto a lungo, aveva impiegato mesi a organizzarla nei dettagli ed era stata una serata magnifica, a eccezione del suo epilogo.
Il ragazzo meritava di tornare a casa al sicuro senza pesi nel cuore.
Lei, forse, quella prigionia l’aveva procacciata; la sua stessa natura le impediva di tenersi lontana dal pericolo.
Ma Sindy aveva dovuto imparare a calibrare il bene e il male senza che alcuna regola le venisse impartita: sarebbe stata in grado di affrontare la peggiore situazione, e se fosse perita, sarebbe stato per una giusta causa.
Ma Rickard non era addestrato a contrastare la brutalità della sorte; era cresciuto in una famiglia amorevole, aveva riposato ogni notte in un letto caldo e un buon pasto lo attendeva ad ogni suo rientro a casa.
La vita lo aveva fortunatamente preservato dalle proprie agonie.
Sindy gli rivolse un rapido sguardo, annebbiato dalle lacrime: i suoi occhi erano lucidi e arrossati, la bocca gli tremava e in viso campeggiava un’espressione che mai la giovane aveva avuto occasione di notare prima d’allora.
L’agente fece in tempo a captare il repentino movimento dell’uomo nello sfilarsi il passamontagna, per poi caricare la pistola infilata nella tasca, colpendo la figura indifesa da cui provenivano i continui lamenti.
Sparò un solo colpo, ma tanto bastò perché anche Sindy venisse colpita nel cuore.
Le catene presero a bruciarle ai polsi; gli abiti le divennero d’improvviso stretti.
Il sangue vivo sgorgava dalla ferita, imbrattando anche l’elegante abito della ragazza, l’unico ricordo rimastole della festa dell’amico svoltasi la sera del rapimento.
Improvvisamente, una potente rabbia le montò nel petto: non avrebbe potuto sopportare nulla di più.
Se avesse dovuto soccombere, lo avrebbe fatto accanto a lui.
Ma non fece in tempo a dire nulla: gli occhi pallidi dell’uomo la fissavano inquieti, chiarendo ogni dubbio riguardo la propria identità.
Qualcosa, però, era mutato: l’angoscia che Sindy provava in presenza del maestro, lasciava ora spazio soltanto a un’ira indicibile, un sentimento che la stessa giovane aveva raramente provato nel corso della propria esistenza.
Il tempo e le esperienze avevano trasformato la sua innocenza di bambina nel coraggio di una donna.
L’uomo le strinse il viso tra le mani, osservando le lacrime scendere copiose da quegli occhi arrossati e lividi di rabbia: «Ti voglio bene più di ogni altra cosa al mondo, non potrei mai farti del male, mai!» sbraitò tutto d’un fiato.
«Tu lo sai questo, vero?».
Un timido sorriso pareva dipingersi sul suo volto, decisamente in contrasto con quegli occhi spaventati, cattivi, malati.
Il pedofilo ora tramutato in rapitore, non aveva colto affatto la sensazione, totalmente opposta allo sgomento, che il proprio gesto aveva scatenato nell’animo della giovane: se avesse avuto quella sua accetta tra le mani, gli avrebbe certamente squarciato il cranio in due semisfere esattamente identiche, insudiciando le pareti di brandelli di massa cerebrale, imbrattando i muri del suo stesso sangue, tentando di affibbiargli una fine infinitamente più atroce di quella a cui l’uomo aveva condannato il suo grande amico.
Accecata dall’ira e forse inconsapevole dei propri gesti, Sindy gli si gettò contro, scalfendogli il viso, tirandogli i capelli, fino a quando le catene non le si spezzarono intorno ai polsi.
L’amore, la disperazione, la collera profonda avevano ridotto il pesante metallo in frantumi.
Ancora una volta, la forza aveva contribuito a liberarla dalle catene in cui la propria anima era imprigionata.
«Tu!» gli puntò un dito contro, totalmente indifferente dell’arma che ancora giaceva a terra, probabilmente carica.
«Prima seppellisci una persona viva e poi tenti di uccidere il mio migliore amico!».
Sindy gridava.
Tremava.
Ma la paura non faceva parte di lei.
«Quella ragazza meritava di soffrire» disse lui in tono calmo, con noncuranza.
Lo vide volgere uno sguardo fugace al corpo incosciente di Rickard ai suoi piedi.
«Non ti rendi conto che l’ho fatto per te, Sin?
Dovresti ringraziarmi» continuò, mentre un malefico sorriso si dipinse sulle sue labbra.
Uno strano scintillio era comparso all’ombra del suo sguardo.
«Quella puttanella ti ha fregato.
Tu meritavi di vincere!».
In un lampo di lucidità, Sindy si accorse d’improvviso quanto il suo corpo stesse soffrendo.
I polsi le sanguinavano, la muscolatura le doleva terribilmente.
Il cambio repentino di posizione le aveva procurato qualche capogiro, ma ciò che la inquietava maggiormente era il sangue che continuava a fuoriuscire copioso dalla ferita del ragazzo steso a terra.
La pozza aveva ormai raggiunto le sue scarpe e sicuramente non sarebbe sopravvissuto se non avesse subito cercato aiuto.
Le parole dell’uomo, così significative, le parvero irrisorie dinanzi alla dipartita di Rickard.
Sindy agì in fretta: in un istante, balzò fuori dalla pesante porta, correndo giù per le scale, esaminando l’ambiente con lo sguardo in cerca di una via di fuga.
Non sarebbe stata in grado di descriverlo, nonostante fosse stata addestrata a tenere bene a mente tutto ciò che il suo sguardo coglieva.
L’unico aspetto di reale importanza era trovare un modo per fuggire, per poter chiedere aiuto.
Corse a perdifiato fino all’ampia cucina, frantumando il vetro dell’unica finestra con un gomito.
Non si era accorta che l’uomo l’aveva raggiunta senza difficoltà: la afferrò per un braccio, ma il vetro infranto gli impedì di mantenere la presa.
Sindy scoprì così che solo pochi centimetri la separavano dal terreno umidiccio di una notte d’inverno.
Non era più in grado di affermare da quanto tempo si trovasse nella casa; forse era già dicembre4.
L’abitazione pareva trovarsi nel mezzo di una foresta; forse la stessa in cui l’uomo seppelliva le sue vittime.
Sentiva le gambe sempre più molli, il cuore pareva voler fuoriuscire dal petto.
Sindy era allo stremo delle sue forze, ma era riuscita a lasciarsi quell’uomo orribile alle spalle.
Tuttavia, il bosco non la risparmiò neppure quella volta: i piedi incespicavano tra i rami, la pelle si graffiava nelle tenebre; ma, nonostante ciò, col cuore ormai in gola, la giovane continuava a correre.
Doveva ormai trovarsi all’interno del bosco, fino a quando non cadde nuovamente.
Si tirò in piedi, stremata, ma le gambe non ressero il peso del corpo.
Nel silenzio notturno, si raggomitolò dietro a un tronco e pianse.
Il gelo dell’inverno le penetrava nelle ossa, ormai esauste e troppo fragili per poter trovare riparo nel naturale calore corporeo.
Pianse come, da bambina, lo stesso uomo la spinse a terra e abusò delle sue viscere, con tutta la veemenza che possedeva.
Singhiozzò come quando, dopo essersi rivestito, le disse con un ghigno che le voleva bene.
La foresta era stata testimone dei suoi infantili lamenti, sussurrati con quella voce di bambina colpevole soltanto di essere orfana, abbandonata, sola nell’universo.
Il bosco poteva nuovamente udire il suo pianto di donna adulta, ma ugualmente ripudiata.
Tuttavia, Sindy stavolta non aveva responsabilità solo di se stessa: «Verrò a prenderti» sussurrò in un soffio, «Ti salverò, è una promessa».

 

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Durante l’intera durata della corsa sfrenata verso la casa, Sindy pregò perché Rickard non fosse trapassato.
Era la prima volta che riponeva la propria fiducia in qualcuno che non fosse se stessa per poter modificare il fato.
Le fu intimato duramente di restare fuori dall’abitazione e non essere in alcun modo coinvolta, nonostante la disperazione.
Per un istante, il terribile pensiero che quell’uomo potesse essersi accanito sull’amico in sua assenza, le sfiorò le meningi.
Il corpo di Rickard le scorse davanti agli occhi, prima di essere caricato sull’autoambulanza: Sindy avrebbe voluto avvicinarsi, stringerlo, gridargli che nessuno avrebbe mai spezzato quel legame fraterno.
Tuttavia, gli arti, piantati al suolo, si rifiutavano di muoversi, come se la ragazza ne avesse perso ogni controllo.
Poteva essere una scena del crimine degna della più intrigante serie televisiva; invece, si trattava dell’amara realtà, quella in cui il suo migliore amico, il fratello acquisito che tanto amava, lottava tra la vita e la morte.
Sindy non poteva vedere la pena nei volti dei colleghi, così come il suo sguardo non captava i movimenti di Derek, che si avvicinava a passo felpato verso di lei.
Il ragazzo temeva che la giovane pattinatrice mancata potesse ferirsi con le proprie stesse mani; tuttavia, conosceva bene quella donna dalla corporatura così esile, eppure così potente.
«L’arteria omerale è stata recisa» mormorò il collega, accovacciandosi accanto a lei.
«Il battito è debole, ma i paramedici dicono che ce la farà» mentì.
Le probabilità che Rickard aveva di sopravvivere erano meno della metà: aveva perso più di due litri di sangue prima che Sindy raggiungesse la strada oltre il bosco e riuscisse a mettersi in contatto con la polizia.
Derek si volse a osservare la giovane in viso: pareva essere caduta in un sonno a occhi aperti, se non fosse stato per le lacrime che le imbrattavano silenziose il volto, unendosi al sangue e alla polvere che aveva portato con sé nella fuga.
«Ho avvisato anche Jan» continuò Derek, «il rapitore è scappato».
Sindy avrebbe dovuto immaginarlo: avrebbe fatto meglio a tenerlo sotto tiro e colpirlo a una gamba, perlomeno per impedirgli di fuggire.
Ma non ci aveva pensato.
Non aveva considerato molti gesti che, forse, avrebbero potuto fare la differenza.
Era stata egoista. Aveva pensato soltanto a fuggire, a salvarsi la pelle, come aveva fatto anni prima scappando da quel maledetto orfanotrofio, lasciandosi indietro gli altri bambini.
Gli occhi le bruciavano, le guance parevano infuocate, nonostante il gelo.
Il resto del corpo pareva non esistere più.
Per la prima volta in quella sera, Sindy puntò le iridi in quelle del collega.
C’era qualcosa di arbitrario in lui, qualcosa che avrebbe dovuto comprendere in tempo.
«Questo è lo stesso bosco in cui fu trovata Anja».
L’udito percepì chiaramente le sue parole, ma la mente si trovava ormai altrove.
Forse accanto a Rickard, accompagnandolo nella sua dolorosa dipartita.
O forse, in un luogo senza tempo e dimensione.
«Andiamo, fa freddo qui fuori» la esortò Derek, prendendo posto nella volante collocata poco più in là.
Ma Sindy il vento gelido non lo percepiva nemmeno, così come i sottili fiocchi di neve che cominciavano a cadere nell’alba di quel giorno che soltanto quattro settimane separavano da un altro anno.
Sindy l’inverno ce l’aveva nel cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

¹ Termine gergale per indicare l’autovettura utilizzata dalla Polizia di Stato, dovuto al tradizionale distintivo sulle fiancate.
² Derek è il diminutivo del nome di origine germanica Theodoric.
³ Il cosiddetto “bianco dell’occhio”, ossia la parte anteriore della sclera, visibile fra le palpebre.
4 Nel testo non è specificato, ma il compleanno di Rickard, ossia la sera del rapimento, è il 26 novembre.

 

 

 

 

 

 

Disclaimer: essendo questa storia parte di una serie, al fine della completa comprensione del testo, ritengo necessaria la lettura di Snowflake e Il Bambino dai Capelli Color delle Stelle per coloro che non conoscono la trama generale.
Chiaramente, spero sia comprensibile anche separatamente; tuttavia, considero quelle storie dei “prequel” in cui alcune questioni potrebbero essere chiarite meglio.


   
 
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