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Autore: D a k o t a    12/01/2020    19 recensioni
[Teenchesters - 13!Sam & 17!Dean - hurt/comfort]
In cui Dean sta male ma cerca di nasconderlo a John perché ha una caccia importante e non vuole deluderlo.
Sam, ovviamente, non è d'accordo.
| Scritta in risposta all'obbligo di Darlene sul Giardino di EFP
"La prima cosa che Dean fa, poco dopo essersi lasciato alle spalle suo padre che litiga con Sam, è correre verso il bagno e rilasciare quanti più possibili succhi gastrici in una sola volta. Chiude gli occhi e si lascia scivolare con la schiena lungo il muro. Emette un gemito di dolore perché i crampi lo tormentano, ha dei dolori lancinanti all’addome ed è stato così per tutta la dannatissima notte. Se apre gli occhi, può vedere il sole che sta per sorgere e il mondo che sta per svegliarsi, poco fuori dal suo annebbiato campo visivo. "
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Kintsugi (I’ll mend us)

La prima cosa che Dean fa, poco dopo essersi lasciato alle spalle suo padre che litiga con Sam, è correre verso il bagno e rilasciare quanti più possibili succhi gastrici in una sola volta. Chiude gli occhi e si lascia scivolare con la schiena lungo il muro. Emette un gemito di dolore perché i crampi lo tormentano, ha dei dolori lancinanti all’addome ed è stato così per tutta la dannatissima notte. Se apre gli occhi, può vedere il sole che sta per sorgere e il mondo che sta per svegliarsi, poco fuori dal suo annebbiato campo visivo. E’ perfetto, considerando che papà li vuole in macchina, di sotto, alle sei; inoltre non può dimenticare che il Sam tredicenne che si è lasciato alle spalle è in piena crisi adolescenziale e lo sta tormentando di domande su quale tipologia di mostro stia cacciando e sul perché qualunque tipo fosse non potesse aspettare la fine del semestre, suo padre sarà pure di pessimo umore. Grandioso, sa perfettamente che un giorno o l’altro finirà per uccidere -

“Dean!Apri la porta!” urla il minore, dall’esterno.

Sam è fuori dalla porta e Dean può giurare dal modo in cui parla che, oltre all’evidente impazienza, sta anche trattenendo le lacrime. A volte si chiede se suo fratello abbia una sorta di spirito masochista e ci tenga a farsi del male, a farsi ricordare in continuazione che quella è la loro vita, perché davvero, passa la metà del tempo in cui papà non c’è a lamentarsi perché non c’è e la metà del pochissimo tempo in cui è con loro, a lamentarsi perché c’è. Non che papà gli renda le cose più facili, dopotutto. Lascia andare per un attimo la testa indietro, contro il muro freddo, mentre si porta la mano alla testa perché anche quella fa un male cane e le tempie gli pulsano da morire e -

“Ehy, va tutto bene?” insiste il minore.

Quando il battere sulla porta diventa più intenso, Dean si alza con passo malfermo e cerca di non barcollare troppo e, soprattutto, di non andare a sbattere contro il lavandino e lo squallido mobilio del motel che si frappone fra lui e il suo obiettivo.

“Finita l’arringa con papà, Sammy?” ansima, facendo capolino sulla porta, vedendo l’evidente delusione negli occhi del minore. “Hai l’aria di uno che ha appena perso la causa”

Non può fare a meno di capitolare sul suo letto singolo, che emette un cigolio, accogliendo il peso del suo corpo. A Sam ci vuole un momento, ci vuole di dimenticare per un attimo l’ennesimo ordine masticato da papà ed espulso come in una catapulta, per arrivare a comprendere che le labbra di Dean nascondono un segreto.

“Non mi hai risposto, Dean!” dice, aggrottando la fronte in un’espressione di stizza perché ha appena litigato con papà e ha bisogno di parlarne con qualcuno e -

Dean si mette a sedere con una smorfia sul letto, mentre alza gli occhi al cielo e guarda suo fratello dall’alto in basso per le ultime volte in cui lo può fare perché, a tredici anni, è più basso di lui di pochissimi centimetri e si ribella in un modo in cui lui non ha mai voluto e potuto fare.

“Nemmeno tu, fratellino” osserva Dean, mentre tenta di rimettersi in piedi e sistemare una maglia nera dentro la borsa verde. Solo un leggero movimento delle labbra tradisce il dolore che sta provando in quel momento, ma non importa quanto Sam sia preso da sé stesso e da papà che non gli dà mai retta, le labbra di Dean nascondono un segreto e lui deve scoprire qual è.

“Mi sembra di essere in uno Skinner box” ammette il minore, alle sue spalle, mentre continua a studiarlo. “Mi fa sentire come se fossi uno stupido topo”

Dean aggrotta alle sopracciglia, sedendosi improvvisamente sul letto perché davvero, è tutta la settimana che Sam sta parlando di quell’esperimento di Skinner sulla psicologia dei topi che ha studiato a scuola. Se gli animali nella gabbia vanno in una direzione vengono premiati con il cibo, un rinforzo positivo, e se vanno in un’altra vengono puniti con un rinforzo negativo. Dean conosce perfettamente il risultato di quell’esperimento – “Sammy, me l’hai raccontato 360 volte” - : alla fine i topi si rassegnano e finiscono per andare nell’unica direzione possibile, quella dello stimolo positivo, ma dannazione, Sam non è un topo e non si rassegna a quella vita. Non desiste con papà.

“Questa battuta hai intenzione di tenertela per il prossimo incontro del club dei piccoli nerd?” tenta il più grande, con l’intenzione di strappargli un sorriso.

Sam fa in tempo ad aprire bocca per ribattere perché davvero, non è divertente e papà è arrabbiato e non fa mai in tempo a farsi degli amici – mai! -, ma non riesce a dire nulla perché proprio in quel momento Dean si alza velocemente in piedi e la stanza sembra cominciare a girargli intorno e -

“Dean, tu non stai bene” afferma con convinzione Sam, mentre il maggiore si risiede velocemente e cerca in tutti i modi di distrarsi da quel dolore sordo che ha nell’addome, dalla testa che gli sta per esplodere e dagli occhi tremendamente verdi e pieni di domande del suo fratellino. Sorride in un modo stranamente rassicurante, perché Sam, davanti a lui, sembra così piccolo e nervoso e sognatore e maledettamente insopportabile.

“Sta’ zitto, Sammy” lo rimprovera, schivando con un movimento troppo rapido la mano del minore che cerca di toccargli la fronte.

Dean si mette in piedi, si carica la borsa sulle spalle e tradisce un solo leggero tremolio, ma davvero, non importa quante cose stiano cambiando e come tutto sia complicato ultimamente, non c’è ancora verso di Dean che possa passare inosservato sotto gli occhi di Sam Winchester.

“Oh, davvero? Sei più pallido di un lenzuolo” mormora, fronteggiandolo mentre lui si avvia a passi incerti verso la porta. “Non puoi andare da nessuna parte così!”

Il fatto che Dean cammini male, sia bianco come un cencio, non può non preoccupare il minore; è Dean dannazione, non si ammala mai e non si ferma nemmeno quando ha la febbre a 38°. L’immagine di suo fratello in quello stato è riuscita a far sembrare così assurda ed egoista la litigata con papà di poco prima.

“Invece sì” ribatte, scostandolo poco gentilmente dalla sua traiettoria, ma Sam si muove solo di pochi centimetri. “Ci sono cose più importanti dei test di metà semestre e di una banale influenza, Sammy. Papà ha detto che è una caccia importante. Noi non lo deluderemo”

Sam abbassa per un attimo gli occhi, tradendo un’aria colpevole perché odia – odia!- quella tendenza che ha suo fratello a seguire con cieca follia ogni minimo ordine e indicazione di papà, anche a costo di farsi male. Odia persino quel riferimento ai test di metà semestre, perché è sottile e rasenta il crudele, considerando che in genere passa così tanto tempo ad ascoltarlo parlare a riguardo.

“Dean, questa è una pessima idea...” mormora, mentre lo guarda aprire la porta, sbuffando.

Le mani del più piccolo vanno a fermarlo, mentre Dean si è già avviato alla porta, con passi incerti e malfermi. Ed è così strano per Sam vedere Dean così che, quando il maggiore si volta a scrollarlo via, con aria piccata, i suoi occhi gli sembrano fatti della stessa sostanza dell’incertezza, del bisogno di quell’approvazione che a diciassette anni ancora ha, della vergogna, del -

“Dean, per favore” lo prega il minore.

“Andrà tutto bene, Sammy” afferma, prima che il più piccolo alzi gli occhi al cielo e si decida a seguirlo.

Gli occhi di Sam lo osservano per un attimo, uno solo, perché qualcosa lo colpisce e realizza: c’è una strana sorpresa, una strana paura, uno strano dolore nel riconoscere la nuova fragilità in ogni gesto e nelle membra di Dean.

 

 

***

In macchina regna il silenzio più totale da due ore perché, per colpa di qualcuno, sono arrivati in ritardo all’appuntamento nel piazzale del motel e John non è mai stato l’uomo più paziente del mondo, quindi ha finito per punire entrambi con un allenamento extra l’indomani, alle cinque del mattino. Le uniche interruzioni sono quelle di Sam, che di tanto in tanto non può fare a meno di lanciare un’occhiata furtiva a Dean, che è sempre più pallido, e di chiedere a suo papà “Quando arriviamo?’”, a cui John risponde stringendo più forte il volante e masticando fra i denti un “Quando parcheggiamo”, mentre Dean gli lancia un’occhiata di disapprovazione, appoggiando la testa al finestrino. Fa fatica a stare seduto e l’unica posizione comoda è quella fetale, che ovviamente non può assumere. Sam segue i suoi movimenti al suo fianco con una strana ansia perché non sa davvero cosa fare: dovrebbero fermarsi, dovrebbero trovare una farmacia e prendergli almeno del paracetamolo, se proprio non vuole vedere un dottore, anche se il più piccolo ce lo porterebbe a calci nel sedere per lo spavento che gli sta facendo prendere. Avrebbe bisogno almeno di prendere un po’ d’aria, di fare una sosta ad un’area di servizio, di -

Dean gli ha detto di non dire che lui sta male, quindi improvvisamente gli viene un’idea.

“Papà, possiamo fermarci? Non mi sento bene” dice e suo fratello, seduto nel sedile posteriore accanto a lui apre immediatamente gli occhi e gli lancia un’occhiata in cagnesco che può essere tradotta in un “Che- diavolo- stai-cercando-di- fare, Sammy?”.

John lancia uno sguardo distratto nello specchietto retrovisore al più piccolo dei suoi figli perché davvero, è tutta la mattina che lo esaspera e nemmeno il più aspro dei rimproveri e una punizione sembrano funzionare per farlo stare zitto. E’ convinto che quel ragazzino li farà uccidere tutti e tre, non appena lo porteranno a caccia con loro.

“Stai tentando la mia pazienza questa mattina, ragazzino” lo ammonisce, prima di emettere un lungo sospiro e porre la domanda. “Che cos’hai? Giuro che se questa è una scusa per evitare la punizione, sappi che... ”

“Ho mal di testa ” pigola, cercando di suonare il più disperato possibile, perché Dean è davvero così bianco e ha bisogno di fermarsi e -

L’unica cosa che ottiene è suo fratello che gli posa in un gesto stanco una mano sulla fronte per controllare una febbre che sanno benissimo non esserci.

“Sta benissimo, papà” mormora, tradendo esasperazione nel tono fioco della sua voce. Non lo ammetterebbe mai, ma fa maledavvero male!- notare come papà non si accorga nemmeno del dolore che permea la sua voce e che cerca così disperatamente di mascherare.

Sam accanto a lui ha l’aria più indignata di sempre, perché se c’è qualcosa che Sam detesta più del dispotismo di papà è il modo in cui Dean ci vada a nozze e si schieri contro di lui, certe volte. Dean, d’altra parte, non ne può davvero più di sentirli urlare in continuazione.

“Questo è l’ultimo avvertimento, Sam” lo ammonisce suo padre, con quella severità che ormai sembra essere l’unica sfumatura della sua voce quando si rivolge a loro. “Se sento un’altra parola fuori dalla tua bocca prima di arrivare, ti sveglierò ogni mattina alle cinque prima di scuola per un allenamento extra e dirò a Dean di fare lo stesso quando non ci sono. E’ chiaro?”

Il più giovane dei Winchester lascia andare la testa indietro sul sedile, sconfitto. Sa perfettamente che papà non fa minacce a vuoto e sebbene dubiti che Dean si presti a somministrare una punizione del genere – del resto, era sempre lui a coprirlo, quando combinava qualcosa di troppo grosso persino per i suoi standard - , suo fratello al suo fianco sembra davvero, davvero esasperato e non è il caso di tentare la fortuna.

“Sì, signore” si arrende infine il più piccolo.

Sam china la testa, tormentandosi il labbro inferiore fra i denti, e Dean sa che vorrebbe chiedere scusa, ma non lo fa. Il maggiore si sofferma sugli occhi di suo padre, nello specchietto. Sono distanti e tradiscono un distacco che non sente, ma non è colpa di Sam. I suoi occhi sono fissi su ciò che lo aspetta non appena arrivati, fissi su un demone e su qualche corpo lacerato e sull’ultima immagine devastata di Mary. Sono fissi su un mondo il cui centro non sono più loro, e non nota le difficoltà che ha in quel momento a stare seduto senza piegarsi in due del dolore o il modo in cui gli occhi di Sam si riempono di lacrime mute di frustrazione.

Dean cerca di chiudere gli occhi e di eliminare questa immagine, l’immagine di cosa sono diventati: randagi, randagi che si girano attorno, diffidenti, pronti a soffiare se l’altro si avvicina troppo.

 

***

Il culmine lo raggiungono dopo quattro ore di macchina, quando finalmente John si stanca e decide di fermarsi per permettere a tutti e tre di mangiare qualcosa. Dean sta così male che la sola idea di ingerire qualcosa gli fa venire voglia di vomitare l’anima e la sola idea di mettersi in piedi lo fa rabbrividire.

“Dean, hai bisogno di aiuto?” gli chiede suo fratello, ma lui gli rivolge un’occhiata eloquente che vuol dire “So camminare benissimo da solo, grazie tante”. John li guarda entrambi mentre scendono dalla macchina e lancia un’occhiata che vuole essere una raccomandazione, specialmente verso il minore.

“No, Sam, ti ho detto che sto...” Dean non fa in tempo a finire quella frase che è a terra, in ginocchio ai piedi dell’Impala, e si tiene lo stomaco. Se non fosse chino su sé stesso, potrebbe vedere l’espressione di puro terrore nel volto del suo fratellino e la sorpresa che ci mette solo un attimo a divenire paura negli occhi impenetrabili di John.

“Dean!” strilla il minore, correndo a disegnargli piccoli e rassicuranti cerchi sulla schiena.

John sopraggiunge alle sue spalle, mentre suo figlio si chiude su sé stesso sull’asfalto e Sam volge lo sguardo indietro solo per rivolgere a suo padre un’occhiata carica di rancore, perché ha provato a dirglielo, ma non lo ascolta mai e -

“Dean, cosa c’è che non va?” mormora John, riuscendo a malapena a tenere il panico fuori dalla sua voce. “Parla con me”

Il ragazzo non sembrava ferito, ma a ripensarci, quella mattina non aveva proprio una bella cera e lui era stato così focalizzato sulla nuova caccia da ignorarlo; al contrario lo aveva pesantemente sgridato, un po’ condizionato dalla litigata che aveva fatto quella mattina con il più piccolo e scapestrato dei suoi figli.

Il maggiore rialza appena la testa, come la rialza da quando è piccolo ogni volta che John parla o entra in una stanza o semplicemente respira e a Sam in qualche altro momento verrebbe da ridere o da sbuffare per quella reazione perché somiglia ad uno di quegli animaletti tutti occhi e attenzione solo per il loro padrone.

Dean lo guarda per qualche secondo, prima di chiudere gli occhi e raggomitolarsi ancora di più sé stesso.

“Papà, non è nulla” gli dice, ma è raggomitolato su sé stesso e non accenna a muoversi e la verità è che non ci riesce. “Farai tardi per la caccia”

Sam, a tredici anni, sbuffa sonoramente perché se non fosse che è a terra ed è una maschera di dolore, avrebbe voglia di prenderlo a pugni perché come può anche solo pensare ad una cosa del genere in quella situazione e -

“E’ tutta colpa tua, papà!” gli urla contro il minore ed è davvero fortunato che suo padre sia focalizzato sul più grande perché sa che sta davvero ballando sulla lama del coltello e -

Dean merita di meglio ed è una realizzazione che colpisce entrambi, padre e figlio, in una maniera diversa, ma ugualmente dolorosa e sottile.

“Cosa fa male? Dove?” gli chiede John, cercando di scostare le braccia che tiene su di sé a proteggersi l’addome, ma Dean scuote la testa. “Dean, distenditi in modo che possa vedere cosa ti fa male”

John gli passa una mano dietro la nuca per proteggergli la testa dell’asfalto, mentre Sam si siede e continua ad accarezzargli la schiena ed è come paralizzato da una dannatissima paura, perché è Dean e dannazione, non può stare male. Non l’ha mai visto stare così male prima di quel momento. E’ iperdrammatico, ma non può neanche pensare a cosa succederebbe se Dean stesse davvero male.

“Sì, signore” rantola il più grande, cercando di aprirsi e quella risposta fa alzare gli occhi al cielo a Sam e spezza un po’ il cuore a John perché no, quello non era un ordine, ma descrive bene la situazione: ormai comunicano solo in quel modo.

Lentamente Dean obbedisce, e quando John gli tira su la maglietta per esaminare l’addome, può vedere gli occhi del più piccolo sgranarsi davanti all’evidente gonfiore e rossore addominale di suo fratello. E’ chiaramente terrorizzato, ma lo guarda con quegli occhi che dicono chiaramente “Guarda cosa hai fatto, papà”.

Con delicatezza, tocca l’addome di Dean con la punta delle dita per vedere se se ne accorge. Nello stesso istante in cui rilascia un po’ di pressione con le dita, Dean non può non girarsi di scatto verso Sam, aggrappandosi alla sua mano e stringendola quanto più possibile.

“Per favore, papà, fermati” lo prega con la voce spezzata da quelle lacrime che ha già in gola e che si rifiuta di far uscire perché è pur sempre Dean e suo padre gli ha sempre detto di non lamentarsi troppo. “Per favore, mi dispiace se ti ho fatto arrabbiare e se siamo arrivati in ritardo, non è stata colpa di Sammy...”

John smette immediatamente di premere sull’addome del più grande, come pietrificato da quelle scuse – non ha bisogno di guardare negli occhi un Sam terrorizzato per pensare che è colpa sua. Anche il fatto che persino in una situazione del genere stia pensando a come proteggerlo aumenta il desiderio del più piccolo di piangere. Gli passa una mano fra i capelli cortissimi, non conoscendo altro modo per confortarlo e sapendo perfettamente che qui bende e punti non possono bastare.

“Ho provato a dirtelo, papà!” strilla nuovamente contro suo padre, piccato. “Tu non mi ascolti mai!”

Il maggiore chiude gli occhi perché non può, non può, non può sentire urlare, gli sta letteralmente perforando i timpani e sentire papà e Sammy litigare è come aggiungere dolore al dolore.

“Non litigate” mormora piano e quella frase gli resta sulle labbra.

L’ultima cosa che sente è una lacrima di Sam che gli bagna il volto e l’ultima cosa che vede è un’espressione imperscrutabile sul volto di papà.

Poi il vuoto.

 

***

C’è una stanza bianca e c’è un medico che entra a passo spedito, sicuro, ha ampie spalle e la schiena dritta e tiene con sé una cartella e mormora parole che né Sam né John capiscono bene ma che riportano tutte ad un’operazione di urgenza e ad una parola dal suono sinistro come peritonite - E’ arrivato qui appena in tempo”. Sam ha l’impressione che le cose dovrebbero andare diversamente: che i medici dovrebbero essere più giovani e che dovrebbero guardarlo negli occhi e dirgli che Dean se l’è vista brutta, ma che se la caverà, non che il rischio di infezione è molto alto. Questi invece si limitano a studiare la sua cartella, redatta dai ragazzini che gli prendono la pressione, il sangue, il battito cardiaco e, tremanti, trascrivono ogni cosa, e a prescrivergli farmaci dai nomi complicati e dal sapore asettico. Si limitano a spiegargli che è frequente assistere a casi di peritonite e che l’operazione è andata a buon fine, ma non possono ancora rassicurarlo sulla possibilità di un’infezione. Sam è convinto che le cose debbano essere diverse – che papà debba restare lì e non uscire a fare strane telefonate e che Dean debba aprire gli occhi.

C’è un ragazzo nella stanza ed è disteso sulla barella e Sam fa fatica a realizzare che quello sia proprio Dean, ma lo realizza comunque ed è così difficile immaginare di doversi allontanare da quel letto anche solo per un attimo perché si sente in colpa, anche se continua a ripetere che è tutta colpa di papà. Ma dentro sé sa che si sente in colpa anche lui perché Dean avrebbe trovato il modo di esserci, di convincere John a fermare la macchina e a portarlo in un pronto soccorso prima che. Prima che.

Gli stringe la mano, perché è davvero tutto ciò che può fare. Si sente uno schifo come fratello minore, perché sente di non essersi impuntato così tanto con papà per proteggere Dean, non nel modo in cui si è impuntato a volte per non partire e non nel modo in cui Dean avrebbe fatto per lui. E fa male. Ed è persino arrabbiato con Dean perché -

“Devi svegliarti” mormora fra i denti. “Mi hai promesso che sarebbe andato tutto bene, idiota”

Sam si lascia sfuggire un lieve gemito, nel sentire suo padre sopraggiungere e richiudersi la porta alle spalle. E’ uscito solo un attimo a fare una telefonata e -

“Pronto per la prossima caccia, papà?” lo provoca, senza curarsi di quanto tagliente suoni la sua voce. Non si gira nemmeno, gli occhi sono fissi sul giovane disteso – è suo fratello, continua a ripetersi – e sulla garza poco sopra l’inguine che copre una incisione che Sam sa esserci. John si chiede perché il minore debba sempre rendere tutto difficile, perché lo provochi in un modo in cui Dean non si sarebbe mai permesso di fare.

“Se pensi che tollererò la tua aperta mancanza di rispetto solo perché Dean sta male, ti sbagli di grosso, Sam” lo rimprovera, con un avvertimento sotteso nella voce.

Dean sta male? Suo fratello non si è ancora svegliato, non si muove e suo padre sta semplicemente minimizzando?

John pensa che Dean in quel momento, dopo quello sguardo e quell’avvertimento, avrebbe cominciato a scusarsi profusamente, ma ancora una volta, Sam non è Dean.

“Non sta male. Ha rischiato di morire ed è tutta colpa tua” puntualizza il più piccolo, voltandosi e scattando in piedi. “Gli hai riempito tu la testa con quelle cose sul fatto che un cacciatore non dovrebbe lamentarsi, su come debba essere sempre coraggioso e forte e sai com’è Dean, si butterebbe nel fuoco se tu gli dicessi di farlo...Cosa mi sarebbe successo se Dean fosse morto, papà? Fammi indovinare: mi avresti lasciato dallo zio Bobby la settimana prossima fino ai miei diciotto anni?”

Sam parla senza preoccuparsi di nascondere la rabbia e l'amarezza e la delusione perché tutto quello che sente è dolore e rancore – rancore verso un padre che non c’è mai e che lo tratta come un pacco e rancore persino verso Dean, che con quella sua obbedienza cieca si è quasi fatto ammazzare.

“Ora ne ho abbastanza delle tue crisi di nervi” lo ammonisce John, avvicinandosi minacciosamente a lui. Sam non indietreggia.

“Puoi punirmi” gli risponde, cercando di sostenere lo sguardo e di ricacciare le lacrime in gola. “Non cambierà il fatto che se Dean muore, io non ti perdonerò mai”

Lo sta sfidando senza alcun ritegno e rimpiange il periodo in cui Sam aveva quattro anni e gli chiedeva come era andata al lavoro; c’ era stato un tempo in cui era molto più semplice relazionarsi con lui che con la consapevolezza terribile e accecante che vedeva ogni qualvolta incontrava gli occhi di Dean.

Dean. Il suo figlio più grande è là in una barella e John sa perfettamente che si sarebbe già intromesso in quella lite perché è sempre stato così: Dean è l’equilibrio fra loro, l’ago sulla bilancia.

“Ascoltami bene” sbotta alla fine, avvicinandolo a sé strattonando un lembo della sua maglietta. “Dean si sveglierà, i medici lo tengono sotto morfina adesso per farlo riposare. Ora andremo in motel e dovresti farlo anche tu, visto che domani mattina hai la sveglia alle cinque e non accetterò alcuna giustificazione per la totale mancanza di impegno e di rispetto che stai dimostrando in questo periodo. Ci siamo capiti?”

Sam per un lungo momento trattiene le lacrime e si limita ad annuire lentamente, ma sa che c’è un motivo per cui suo padre non lo lascia andare ed è che quella non è la risposta che desidera, che si aspetta da lui.

“Sì, signore” risponde fra i denti e John non è nemmeno lontanamente soddisfatto dal tono che sta usando.

Sam lancia per un lungo attimo uno sguardo al giovane addormentato sul letto – è suo fratello – e qualcosa lo colpisce: è una frase mormorata nel dolore, l’ultima che gli ha sentito dire.

Non litigate.

 

 

(Quella stessa sera Sam si infila nel duro materasso di un motel in Colorado stringendo a sé la maglia blu di suo fratello. Non può non ripercorrere ogni istante, ogni attimo della giornata, cercando di capire cosa avrebbero potuto fare meglio. Forse, in qualche angolo della casa, lo fa anche John, ma non gli è dato sapere. L’aver litigato con suo padre fa sentire un Sam tredicenne come se avesse, in qualche misura, tradito i desideri, tradito quella frase biascicata con dolore di Dean, ma papà non li tratta più nemmeno come se fossero figli. La luce si apre e -

Ops, sono già le cinque.

“Non sono pronto. Mi dispiace. Adesso mi vesto” afferma, scattando sull’attenti fuori dal letto, troppo rapidamente perché John possa anche solo credere che stesse dormendo. Del resto, lui stesso era tormentato dalla domanda che Sam gli aveva posto: la caccia doveva continuare, avrebbe dato giustizia a Mary. Dove si sarebbe collocato il ragazzo in tutto questo? Avrebbe potuto portarlo con sé, ma Sam a tredici anni era poco più di un ragazzino, Dean a quella stessa età un adulto.

Dean. Non l’avrebbe mai detto ad alta voce, ma se Dean fosse davvero morto solo per cercare di obbedirgli no, non se lo sarebbe mai perdonato.

“Siediti” gli ordina – perché è davvero quello l’unico modo di parlare che ha con i suoi figli, ormai – più gentilmente. Sam tradisce solo un filo di sorpresa, obbedendo. “Hai dormito?”

“Non credo di poterci riuscire se Dean non è qui” ammette il più piccolo, alla fine.

Ed è vero: doveva avere sette o otto anni l’ultima volta che si era infilato nel letto del maggiore per farsi rassicurare dopo un incubo, ma persino dopo era sempre stato confortante il sentire il lieve respirare di suo fratello nel letto a lato del suo.

Qualcosa colpisce John in quella frase: quello è il prezzo da pagare per aver preferito la trincea ai suoi figli, per aver disertato loro; Sam ha più bisogno di Dean di quanto abbia bisogno di lui. E’ abituato alla sua assenza; l’ha visto tante volte di spalle che chiudeva una porta e se ne andava, ma non è abituato a quella di Dean. Non si può abituare a quella di Dean.

“Prendi una camomilla” gli ordina, in modo più soffice di quanto farebbe in una situazione normale.

“Non posso: sono allergico, papà” ribatte il più piccolo dei suoi figli - e John scuote la testa perché davvero, ci manca giusto che un altro dei suoi figli finisca al pronto soccorso.

“Dean lo sapeva” aggiunge il più piccolo a bassa voce, ma non bassa abbastanza perché John non la senta. Non obietta, però: era sicuro che Dean lo sapesse. E’ quello il prezzo da pagare – Dean sa di quell’allergia e lui no -, dopotutto.

“Torna a dormire” ordina, in un tono più duro che è in risposta più alla lieve provocazione nascosta nel tono piccato di quell’insolente di suo figlio che a quella quasi ovvia constatazione. Il ragazzino che ha davanti ha gli occhi rossi di pianto – e non è un capriccio questa volta – e non ha dormito tutta la notte, non perché stava guardando la televisione. Può concedergli una piccolissima tregua.

Sam lo guarda confuso, rinfilandosi sotto le coperte. Non si è dimenticato del fatto che gli avesse promesso una punizione, ma John lo vede e sa che ha un istinto di autoconservazione maggiore rispetto a Dean.

“Non mi guardare così, ragazzino” lo rimprovera, con uno sguardo severo. “Ti ho promesso un allenamento extra e ne avrai uno. Ma può aspettare fino a quando Dean starà meglio”

Sam annuisce e John evita di infierire sul fatto che voglia – pretenda – una risposta verbale, e si chiude la porta alle spalle.

Sam si gira su un fianco e per la prima volta realizza: ha avuto paura anche lui.)

 

 

***

Quando Dean apre gli occhi, la luce lo acceca e sente il terrore pervadere ogni cellula del suo corpo e tenta di alzarsi, di scappare, ma non riesce a muoversi e sente dolore all’addome e –

“Oh, finalmente, Dean!” mormora e può sentire la testa piena di riccioli marroni di suo fratello conficcarglisi con troppa violenza nello sterno, per abbracciarlo. “Se mi spaventi di nuovo così, ti prendo a calci, idiota

Può sentire una voce in lontananza dire qualcosa come “Fa piano. E’ ancora debole” e gli viene in mente papà, la caccia importante, e l’asfalto, e – Oh no. Gli sembra tutto ancora così ovattato.

“Sammy?” chiede, titubante.

Sam non riesce nemmeno a descrivere il sollievo che lo ha pervaso, quando ha visto il maggiore aprire gli occhi chiarissimi.

“Sono io, Dean. C’è anche papà” dice, guardando alle spalle, in direzione dell’uomo. “Hai bisogno di qualcosa? Come ti senti?”

Dean si guarda intorno, con aria molto assonnata: riesce a riconoscere le lenzuola bianche dell’ospedale. Non dovevano essere lì, c’era la caccia, c’era Sam, c’era-

“Assetato e … stanco” ammette, perché sono in ospedale e non c’è più nessun motivo, nessuno per mentire.

Sam annuisce vigorosamente, prima di girarsi a chiedere l’acqua a suo padre, dietro di lui. E’ tutto così sollevante: è stanco, non sta bene, ma è vivo. Vivo. Avvicina la bottiglia dell’acqua alle labbra di suo fratello, prima che possa dire qualsiasi altra cosa. L’allontana dopo pochi sorsi e può sentire Dean protestare debolmente, mentre John sopraggiunge alle sue spalle.

“Te ne daremo di più fra pochi secondi, se riesci a trattenerla nello stomaco” gli spiega John, avvicinandosi. “Hai avuto un intervento poche ore fa. I dottori non vogliono che tu ti riempa troppo”

C’è qualcosa di davvero strano e alienante nel vedere il maggiore dei suoi figli guardarsi intorno in maniera così stranita e confusa.

“Papà? Intervento?” gli chiede, come sorpreso. “Perché?”

Perché non ti abbiamo portato all’ospedale in tempo, potrebbero benissimo rispondere entrambi, ma ovviamente non lo fanno.

“La tua appendice si è rotta” se Dean fosse stato più lucido, avrebbe sicuramente preso nota del modo in cui Sam improvvisamente non guarda altro, oltre il pavimento. “Il dottore dice che avevi l’appendicite da almeno due giorni. Dicono di avere ripulito tutto adesso, ma ti stanno comunque dando degli antibiotici”

Dean sa perfettamente che quello che suo padre sta dicendo è importante, lo è davvero, ma ha sonno e -

“Mi dispiace tu abbia saltato la caccia per questo” mormora ed è così assurdo che si stia scusando, e Sam vorrebbe urlargli contro e vorrebbe che papà gli dicesse anche solo una dannatissima volta che sono più importanti della vendetta, della caccia, che -

“Bobby se n’è occupato” spiega velocemente invece.

Una veloce ombra incupisce i suoi occhi per un istante, ma Dean è troppo intontito dai medicinali per accorgersene e Sam, alle sue spalle, alza gli occhi al cielo perché davvero?”Bobby se n’è occupato”?

“Ho sonno” Dean si lascia sfuggire debolmente, perché si sta già per addormentare – la morfina fa sempre il suo effetto. “Mi dispiace”

“Va bene” risponde John. “Parliamo più tardi”

 

 

 

 

 

***

 

La seconda volta in cui si sveglia, è molto più vigile e riesce a capire ogni cosa che John gli spiega. Sam, al contrario, guarda entrambi in silenzio – ed è assurdo perché Dean sa benissimo che il suo fratellino non sa stare zitto un secondo, in genere. Sam gli posa una mano sulla spalla, di tanto in tanto, e lo spinge in modo delicato verso il materasso; lo aiuta a distendersi in modo che l’addome non bruci, che non gli tiri come se volesse staccarsi. E’ che è una sorpresa per Sam sentire la sua voce, così roca e aspra; è come lo sciabordare del mare che culla i pescatori, rannicchiati in minuscole cabine.

“Ti hanno messo dei punti” spiega ancora John, quando lo sente esalare un gemito di dolore e voltare il capo verso la sua pancia.

Dean non fa in tempo a rispondere che è il più piccolo, dopo essersi avvicinato per rimboccargli le lenzuola, a parlare.

“Dean, l’infermiera ha detto che puoi mangiare solo cibi leggeri” gli dice, attirando l’attenzione di suo padre e di suo fratello su di sé. “Che ne dici se vado a prendere qualcosa in caffetteria? Il cibo degli ospedali è un po’...”

Si ferma, alla ricerca di un termine che non gli faccia perdere qualsiasi minima possibilità che suo padre accetti e gli permetta di andare a comprargli qualcosa.

“Oh, tu sì che mi conosci, fratellino” gli risponde, e Sam gli rivolge un sorriso timido, che non arriva agli occhi.

C’è qualcosa che Sam non gli sta dicendo, qualcosa che omette, e Dean lo sa; è chiaro dal modo in cui gli sistema il cuscino, dal modo in cui è in difficoltà nel guardarlo. Lo segue con lo sguardo fino alla porta, poi si rivolge a suo padre.

“Sta bene?” gli chiede, ansiosamente.

John gli risponde con un’occhiata che potrebbe essere interpretata con un “E’ vivo”. Non si contavano le volte in cui il minore dei suoi figli gli aveva fatto perdere la pazienza in quei due giorni, con le sue obiezioni e le sue rispostacce.

“Per ora” risponde, tradendo un filo di stizza.

E’ un istinto e non più un innato senso del dovere che gli è stato instillato fin da piccolo, quello per cui Dean deve spezzare una lancia a suo favore.

“Papà” risponde, cercando di utilizzare il tono più rispettoso possibile. “Ha solo tredici anni”

Il pensiero di cosa faceva lui a tredici anni non lo sfiora nemmeno. A John per un solo attimo viene in mente che Dean non ha mai rivendicato il suo diritto ad avere tredici anni, ma rivendica quello di Sam.

“Se non cominciamo a trattarlo come un vero cacciatore, non si comporterà mai da vero cacciatore” risponde, scuotendo il capo e alzandosi.

Sam sarebbe indignato di sentirlo parlare della caccia in una situazione come quella, ma è Dean, Dean non si indigna mai, Dean lo capisce; accetta quel fardello con coraggio, orgoglio e dignità.

Il giovane si copre la bocca per nascondere uno sbadiglio - dannazione, odia già le controindicazioni degli antidolorifici.

“Hai bisogno di qualcosa?” gli chiede, nascondendo un filo di preoccupazione. Si aspetta che Dean gli chieda un hamburger che non gli porterà oppure -

“Sì” risponde con convinzione, ma in modo soffice. “Puoi provare a essere meno duro con Sam? Ha solo bisogno di tempo”

Oh. Doveva aspettarselo. Non gli risponde, ovviamente, anche se Dean in quel momento assomiglia a tutti quei bugiardini per i medicinali letti in quei giorni; è altrettanto pieno di controindicazioni e indicazioni, ma su come trattare Sam.

“Dormi. Sei stato forte, Dean, ma adesso devi riposare”

C'è qualcosa nel modo in cui lo dice lanciandogli un sorriso triste, che gli fa pensare che suo padre non si riferisca solo all’appendicite, ma è un pensiero ridicolo - perché è suo padre - ed è, improvvisamente, così stanco. Il ragazzo chiude gli occhi e –

Sogna il volto di una donna: ha i capelli biondi e gli occhi azzurri e gli sorride, sorpresa, quando lo vede e chiama un soprannome che lui non riconosce e non ricorda.

 

***

“Che cosa c’è? Mi dispiace che si sia raffreddato, vuoi che te ne prenda un altro? Vuoi che accenda la televisione? Ti senti bene?”

Quelle domande sono le prime cose che suo fratello minore dice, da quando è entrato nella stanza. E’ tutto premure e abbracci, tutto un “Sì, Dean, lo faccio subito” e davvero, se non fosse che nessuno lo troverebbe divertente potrebbe fare una battuta su cosa abbia posseduto Sam.

“No, Sammy. Per favore siediti e sta' fermo un secondo, ok?”

Sam stringe le labbra e si siede sulla sedia accanto al suo letto, mentre suo fratello lo scruta, fra il preoccupato e il curioso. Lo fissa in silenzio, senza dire nulla. Sempre meglio che vederlo girare per la stanza come una trottola, si dice Dean, fra sé e sé. Suo padre è fuori per una commissione e deve approfittare del momento.

“Okay” dice alla fine il maggiore, esasperato. “Ora puoi spiegarmi la ragione per cui te ne stai in disparte con quella faccia, Sammy?Dovrei essere io quello con la faccia da funerale”

Sam scuote il capo perché davvero, che diavolo di battuta è? Gli sembra divertente, per caso? Perché no, non lo è – decisamente.

“Mi dispiace” gli dice alla fine, guardando in basso. “All’inizio credevo che fosse tutta colpa di papà, ma è colpa nostra. Sei stato malato per due giorni, Dean, e non ci siamo accorti di nulla! Ti sei allenato e papà ti sgridava, convinto che tu non stessi dando il massimo, e io… persino quando hai detto di stare male, ti parlavo di uno Skinner box e dei miei problemi con papà!Mi sento come se fossi più stupido di quei topi!”

Dean alzò gli occhi al cielo perché dannazione, Sam era la cosa più sensibile e iperemotiva di sempre. E se non se ne erano accorti, era perché anche lui non aveva dato loro grandi possibilità di accorgersene.

“Piantala, idiota” gli risponde, scompigliandogli i capelli con un gesto della mano che risulta più debole di quanto vorrebbe essere. “Non è colpa tua o di papà, Sam. E comunque guarda il lato positivo...”

Sam sgrana gli occhi, perché fa sul serio? Sono in un ospedale, ha rischiato grosso e -

“Quale sarebbe il lato positivo del fatto che hai quasi rischiato di morire, imbecille?”risponde, accennando il più debole dei pugnetti sulla sua spalla.

E’ davvero curioso della risposta, perché ha passato la nottata ad angosciarsi per lui, ha fatto perdere la pazienza a papà, e Dean ha spaventato tutti e due.

“L’appendice si sarebbe sempre potuta rompere mentre eravamo con papà davanti a un demone” risponde, con una smorfia, anche se quelle parole suonano stupide persino alle sue orecchie e sta dando la colpa alla morfina perché quella è la prima cosa che gli è venuta in mente.

Sam risponde con una smorfia perché è davvero, davvero molto rassicurante.

“Vedo che non hai perso il tuo spirito, è un buon segno” commenta seccamente John, subentrando nella stanza.

Dean per un attimo si chiede se sia necessario chiedere scusa, perché è davvero una battuta stupida e forse anche pessima e -

Poi si accorge che non c’è traccia dell’usuale durezza che tempra la voce di suo padre e che Sam sta sorridendo.

“Sì, mi chiedo da chi l’abbia preso” chiude il più piccolo dei Winchester, con una scrollata di spalle che gli fa guadagnare un leggero scappellotto dietro la testa da suo padre.

 

***

Tornare nuovamente in motel è un sollievo - per la prima volta - per tutti e tre, dopo giorni caratterizzati dal colore bianco, da battibecchi in ospedale e da pasti troppo insipidi. Il dottore ha detto che ci vorranno massimo dieci giorni perché Dean possa tornare alle sue attività – e il maggiore sa bene che suo padre non resterà mai così a lungo, ma sono tutti e tre a casa per un momento e va bene così per una volta. C’è solo qualcosa che è rimasto in sospeso.

Quella sera, dopo una cena semplice, mentre Dean guarda la televisione in camera, Sam vede suo padre seduto al tavolo a pulire le pistole. E’ un’immagine che fa male, anche se sa d’abitudine: vuol dire che fra pochi giorni se ne andrà. E’ una ragione per odiare ancora di più quella promessa fatta a Dean e -

“Papà?” chiede con cautela. “Possiamo parlare?”

Suo padre gli rivolge uno sguardo duro, che sa di un “Adesso vuoi parlare?”. Sam si morde le labbra. Suo padre è così diverso da Dean: non gliela renderà più semplice.

“Dipende” gli risponde, e la sua voce tradisce un distacco che non sente. “Se stai per scusarti perché Dean ti ha detto di farlo, puoi benissimo tornartene in camera tua”

Colpito e affondato. Dovrebbe imparare da suo padre e da suo fratello a fare quelle espressioni impenetrabili.

Si stringe le spalle e per un lungo attimo pensa di andarsene e di seguire quel suggerimento. Poi prende coraggio.

“L’ho promesso a Dean” ammette, mentre l’attenzione di suo padre torna alle pistole. “Ma mi dispiace davvero per alcune cose che ho detto”

John alza un sopracciglio, a quella precisazione, “alcune”. Poi scuote la testa e rimane in silenzio per un lungo momento, mentre Sam è in attesa.

“Vieni, dammi una mano” gli concede alla fine, indicandogli la sedia di fronte a lui e spostando con cura una pistola dall’altro lato del tavolo, di fronte alla sedia di Sam.

Rimangono in silenzio, per un lungo momento. Sam obbedisce, seppur lentamente. Guarda le pistole davanti a sé ed è così tragico notare come le abbia già associate a qualcosa, ad una partenza.

“Te ne stai andando di nuovo, non è vero?” chiede alla fine.

Non c’è bisogno che John risponda a quella domanda. La conferma è nell’espressione che si è dipinta nei suoi occhi scuri. Sam è così totalmente stanco di essere stanco che non ne può più di sentire sempre la stessa storia; l’idea di litigare lo rende solo più esausto.

“La settimana prossima” gli dice alla fine.

C’è solo una piega di delusione, solo una piega di dolore nel volto a tradire le lacrime mute e soffocate che ha nella gola, insieme a un macigno di parole - ancora indistinte ma che stanno prendendo forma - che papà non capirà mai, e che Dean capisce a malapena.

“Abbiamo già perso tante cose importanti, forse troppe” la voce di Sam risulta spezzata e incerta. “Ho avuto paura di perdere anche Dean. Dove sarei finito se Dean fosse morto?”

La prima parte del suo discorso fa irrigidire John: non parla mai delle cose che hanno perso. Non ne ha mai parlato con Sam e non ne parla più con Dean ormai: non ne parlano più da quando il paragone ha cominciato a pesare troppo, a fare troppo male.

La seconda domanda invece è una miccia che sta per esplodere perché non ha nulla con cui confortare Sam e ogni risposta basterebbe a turbare quell’equilibrio precario che hanno stabilito e quindi -

“Oh, chi diavolo se ne importa, Sammy. Sono qui”

Gli occhi di entrambi sono sulla figura magra appoggiata allo stipite della porta. Dean li ha salvati entrambi perché lo sa: Sam è bravissimo con le cose di scuola e sa che cos’è uno Skinnerbox, ma fa schifo quando si tratta di saper parlare con papà e –

Oh, chi diavolo se ne importa.

 

 

***

 

Sam quella sera si è già addormentato nel letto singolo che ha attaccato al suo, perché non importa proprio che Dean stia meglio, ha rischiato di morire e ha bisogno di sentirlo respirare per sapere con certezza che non è diventato l’ennesimo cadavere da seppellire – o peggio da bruciare. Dean l’ha preso in giro – Sei troppo grande per farti consolare dopo un incubo, Sammy – ma poi ha capito, perché non c’è ancora azione di suo fratello che possa sembrare incomprensibile ai suoi occhi.

La porta della stanza dei ragazzi si apre e John lancia un’occhiata al ragazzino addormentato sulla pancia, mentre Dean, ancora sveglio, abbassa con cautela il volume della televisione, aspettandosi un rimprovero che non arriva.

“Hai fatto un buon lavoro, stasera” commenta e Dean sa benissimo a cosa si riferisce, ma non può fare a meno di guardarlo con vaga diffidenza, perché i suoi complimenti sono più unici che rari e davvero, dov’è la fregatura?

“Lo credi davvero?” dice, mettendosi a sedere in una posizione che vuole essere più comoda, ma ouch!, si è dimenticato di aver avuto un intervento solo pochi giorni prima.

“Sì” risponde e Dean può leggergli il”ma” che sta arrivando sulle labbra prima che lo pronunci. “Ma non potrai evitare che si prenda le sue responsabilità per sempre. Non potrai raccogliere i nostri cocci per sempre”

Dean gli sorride, un sorriso triste e malinconico di cui non vale la pena parlare.

“Lo so, siamo agli sgoccioli, non è vero?” risponde, con una smorfia . “Voglio dire, Sammy ha tredici anni e già parla del college, dell’università, di cosa vuole dalla vita e tu…”

Per un lungo momento si ferma, soppesando le parole. Non sa davvero cosa possa dire che suo padre non fraintenda o consideri fuori luogo.

“Non c’è nulla che io possa fare per evitare che vi scontriate prima o poi, giusto?” conclude infine, ma è una domanda che rivolge più a sé stesso che a chiunque altro.

John annuisce, guardandolo con rinnovato interesse.

“E allora perché lo fai?” gli chiede poi.

E’ una domanda innocente la sua, totalmente priva della severità e della durezza che solitamente affilano la sua voce.

“Perché è quello che voglio fare, papà: raccogliere i nostri cocci. Sempre.”

John annuisce, posandogli una mano sulla spalla: non sa se lo fa per confortarlo o perché ha bisogno del maggiore a confortare lui.

Sam, raggomitolato sotto un piumino verde, sbuffa appena perché no, l’hanno svegliato e -

“Così grande, in un corpo così piccolo” commenta poi, con un’ironia che tradisce un filo di emozione.

Dean lo tira fuori dalle coperte e lo attira a sé, avvolgendolo in un abbraccio solo apparentemente impacciato – è naturale farlo: è come acqua che scorre sotto i ponti.

“Vedrai quanto sono piccolo quando ti prenderò a calci nel sedere non appena starò meglio, Sammy” lo rimprovera, scombinandogli quella massa di capelli indisciplinati come lui che si ritrova sulla testa. “E comunque sono ancora più alto io”

Il più piccolo si ribella afferrando un cuscino e cercando di colpirlo – con delicatezza, che è stato così vicino a perderlo ed è passato troppo poco tempo - , ma non prende bene la mira e -

John lo ferma con abilità prima che colpisca lui.

C’è solo un’ombra di panico che adombra gli occhi del più piccolo, visto che sono ai ferri corti da giorni, mentre Dean, per un riflesso involontario, lo stringe più forte a sé.

“Non l’ha fatto volontariamente, papà” spiega, ansiosamente.

John si avvicina pericolosamente al letto del più piccolo perché è proprio il fatto che non lo abbia fatto apposta il problema. Quel ragazzino e la sua totale indifferenza verso qualsiasi tipo di allenamento lo stanno facendo impazzire – non avrebbe tirato così male, altrimenti.

“Devi migliorare la tua mira, ragazzino” borbotta, fra sé e sé, prima di avvicinarsi ad un Sam che, vedendolo alzare il cuscino, si copre la faccia per proteggersi e fallisce miseramente perché il cuscino colpisce all’altezza del sedere.

“Anche i tuoi riflessi” aggiunge poi, pensieroso.

Sam ridacchia appena, guadagnandosi un’occhiataccia di John. Dean è contento che suo fratello sia più tranquillo adesso, perché l’ha visto davvero male in quei giorni, eppure non riesce a godersi l’apparente normalità di quel momento. Non vi è nulla di normale, nelle loro vite: è contento che Sam possa rilassarsi, anche solo per un momento, ma sa benissimo che non vi è nulla di ordinario o normale nel modo preoccupato in cui suo padre parla di “mira” o di “riflessi”.

“Andrà tutto bene” dice Dean, ed è così ironico che lo dica lui perché anche se l’addome fa meno male, non smette di ricordargli quanto è stato vicino alla morte; è anche una magra consolazione, perché Dean, a diciassette anni, sa bene che vi sono modi peggiori per morire.

“Finché ci sarai tu, andrà sempre tutto bene” risponde Sam, annuendo con convinzione e può vedere Dean alzare gli occhi al cielo perché ne ha abbastanza di queste smancerie e -

“Vedi, Sammy?” gli dice il maggiore, ridendo. “Sei più intelligente di un topo!”

 

 

NDA

Su questa vorrei un parere perché è lunghissima e davvero, mi ha prosciugata. Non è stato semplice scriverla: volevo rappresentare Dean, con la sua consapevolezza e il suo essere filo rosso che unisce i Winchester in un momento in cui le prime tensioni cominciano a maturare, ma volevo anche rappresentare Sam, con le sue tremila domande e i suoi dubbi, e John, con tutte le sue tremila contraddizioni che spero vengano fuori (“he was many things” cit.).

Il titolo di questa storia è Kintsugi: non l’ho messo solo perché è una parola giapponese interessante (Il kintsugi letteralmente "riparare con l'oro", è una pratica giapponese che consiste nell'utilizzo di oro o argento liquido o lacca con polvere d'oro per la riparazione di oggetti in ceramica ), ma perché non so scegliere i titoli credo che descriva molto bene quello che Dean ha sempre fatto per la sua famiglia e che fa in questa fic: è lui il sick qui, ma è lui che si prende in qualche misura cura di loro psicologicamente, è lui che cerca di saldare con qualcosa di bello (anche solo una battuta) una frattura che già c’è fra Sam e John e che sei anni dopo questa fic degenererà.

Ci tengo molto a questa cosuccia, non sono soddisfatta ma è stata a tratti faticosa, l’ossessione dell’IC non ha aiutato.

Ringrazio Darlene, perché questa storia sarebbe in risposta al suo obbligo di scrivere qualcosa di hurt comfort.

Le recensioni sono sempre gradite!

 

Desy

   
 
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